C’è stato un momento, nel 2021, in cui pensavo che sarei stata in grado di stare al passo con tutto: tutte le buone serie tv, tutti i buoni film, tutta la buona musica. Dal mio piccolo monolocale leggevo i tweet dei critici che amavo, poi consumavo quel che mi dicevano. Scovavo misteriosi documentari in un cinema locale. Scaricavo con BitTorrent le serie che rientravano nella categoria, sempre più larga, di tv di “qualità”. Spotify mi permetteva di ascoltare davvero i migliori cento album dell’anno suggeriti da Pitchfork. Ho visto dei grandi successi al cinema. Ho ascoltato i quaranta più grandi successi del momento alla radio. Ho letto i libri vincitori del premio Pulitzer e tutta la saga di Twilight. Banchettavo, ma non ero comunque sazia.
Mare in espansione
Riuscivo a rimanere a galla in quello che consideravo un mare in espansione di prodotti straordinari, in contrasto con le possibilità della mia infanzia provinciale, quando le scelte erano limitate al videonoleggio locale, alla tv via cavo e all’unico cd al mese che potevo permettermi. Mi sembrava anche di aver raggiunto un rassicurante stato di grazia e di poter rispondere sempre “sì” quando qualcuno mi chiedeva: “hai visto/letto/ascoltato…?”.
Poi la definizione e il numero delle serie tv che sembravano essenziali si sono ampliati. Non era abbastanza aver guardato The wire e I Soprano o tenere il passo con Mad men e Breaking bad. C’erano anche The americans, The good wife, Outlander, _ The Knick, Il trono di spade, Homeland_, Broadchurch _e _Happy valley, o le nuove stagioni di serie che non sembravano più così significative (tipo House of cards). Rimanere in quello stato di grazia è diventato sempre più difficile.
I problemi a metabolizzare quello che sembra un pasto senza fine si concentrano sulla tv, anche se è solo una parte di un banchetto più ampio. Per fare un esempio, nel 2010 iTunes lanciava circa 1.500 podcast al mese; nel 2015 circa seimila. Ma alla fine il consumo di serie tv è quello che più di altri ha evidenziato l’insostenibilità del tutto.
Forse ha qualcosa a che fare con la difficoltà di avere una conversazione condivisa su una serie. E c’entrano anche le maratone davanti al video, favorite dalla pratica, inaugurata da Netflix nel 2013, di rendere disponibile da subito l’intera stagione di una serie. Un altro fattore è il continuo, lento declino della monocultura dei mezzi di comunicazione, messo in moto dalla diffusione della tv via cavo, negli anni ottanta. La tecnologia ha reso facile produrre più tv e, grazie all’on-demand, la gente ne guarda di più: nel 2014 negli Stati Uniti sono andate in onda 389 serie tv. Nel 2002 erano 182.
Proprio intorno al 2015 i grandi mezzi d’informazione hanno cominciato a chiedersi se avessimo raggiunto il “picco della tv”. Da un sondaggio commissionato dalla Hub entertainment research era emerso che il 42 per cento delle persone che guardavano la tv almeno cinque ore alla settimana pensava che ce ne fosse troppa. Ma da quel sondaggio emergeva anche qualcos’altro: l’81 per cento degli spettatori riferiva che quando guardava la tv, vedeva programmi che gli piacevano davvero. Per chiunque fosse cresciuto condividendo una televisione con la propria famiglia si trattava di un grande cambiamento.
Tuttavia ci sono dei limiti ai piaceri della scelta. Quando Hub ha posto la stessa domanda nel 2017, solo il 73 per cento ha risposto che guardava trasmissioni che gli piacevano davvero, mentre la percentuale di chi percepiva che ci fosse “troppa televisione” saliva al 49 per cento. Il sondaggio non chiedeva agli intervistati di approfondire il ragionamento, ma forse stavano provando qualcosa di simile a quello che provavo io: guardavo la metà delle cose per qualche strano desiderio di completezza, e l’altra metà perché mi sembrava di “doverlo fare”. Il risultato era un misto di risentimento e paralisi: come osavano le reti televisive produrre così tante cose, in così tante forme, con così tante stagioni?
È un sentimento del tutto irrazionale e sbagliato. “Picco della tv” significa più programmi, ma anche più programmi diretti a persone diverse da me, che non sono donne bianche della classe media.
Prendiamo Netflix, per esempio. A differenza delle emittenti classiche non cerca di attirare un tipo particolare di spettatore-consumatore, ma punta ad avere abbastanza contenuti per soddisfare interessi diversi e convincere il maggior numero di persone a pagare l’abbonamento. Per sembrare ancora più allettante ha cominciato a impiegare la sua enorme base di dati, ricavati dalle cronologie di milioni di clienti, per dare ai consumatori in difficoltà un modo per restare a galla. Invece di sentirsi sopraffatti, devono avere la sensazione di contenimento ma anche di una seducente infinitezza.
Abbassare l’asticella
Di certo non è la sensazione che ho avuto io. All’inizio vedere un film o una serie era un modo distensivo di chiudere una giornata di lavoro. Qualcosa di simile a un sospiro di sollievo. Ma poi nel 2017 l’eccesso di prodotti di consumo culturale mi sembrava l’ennesima voce nella mia infinita lista di cose da fare, inevitabile e poco gratificante come andare a ritirare il bucato in lavanderia. Così ho fatto quello che si fa con tante cose che alimentano un più ampio senso d’esaurimento: ho abbassato l’asticella, e poi l’ho abbassata ulteriormente. Ho smesso di ascoltare i podcast, tranne quelli che mi piacciono davvero tanto. Quando guardo la tv, vedo un misto di cose che mi appassionano e mi danno conforto, indipendentemente da quanto siano alla moda o dalla loro qualità (come ), serie che riattivano l’attesa e la gioia della visione a cadenza settimanale (Succession), e serie che scopro con una settimana, un mese o un anno di ritardo. Detesto l’algoritmo di Spotify, così mi diverto con la musica che mi consigliano gli amici. Bramo l’evasione di una sala cinematografica, e ci tornerò presto, però ho anche smesso di sentirmi in colpa per la mia avversione al cinema in tempi di pandemia.
Se qualcuno mi sottoponesse a quel sondaggio, oggi, chiedendomi se c’è o no troppa tv, un eccesso di prodotti culturali, direi di no. Sono felice che esista un’offerta così vasta da sollecitare persone di ogni tipo e da permettere alle produzioni più diverse di essere viste. Spero che ci siano più cose strane e sperimentali capaci di mettere in discussione la nostra idea di quel che può fare l’arte, e spero che ci siano più serie come Ted Lasso, che ci ricordino il nostro costante desiderio di tenerezza. Spero, insomma, che ci sia sempre di più, anche se quel di più non è per forza rivolto a me. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1440 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati