Un pomeriggio di luglio del 2022, Moninder Singh, un attivista sikh di 42 anni, è arrivato al Gurdwara Sahib Dasmesh Darbar, un grande tempio sikh alla periferia di Surrey, una città nella provincia canadese della British Columbia. Aveva bisogno di far riposare la mente. Singh, che da più di quindici anni fa parte del comitato esecutivo del tempio ed è profondamente rispettato dai membri della congregazione, ci va spesso quando vuole calmarsi. Pregando sotto il candelabro della grande sala comune, sente i pensieri più futili abbandonare il suo corpo a ogni respiro. Ma quel giorno le sue orazioni sono state interrotte da una telefonata della moglie. “Sono venuti dei poliziotti”, gli ha detto, “e vogliono parlarti”. La donna ha passato il telefono a un ufficiale della sicurezza nazionale canadese. L’ufficiale gli ha spiegato che doveva consegnargli un documento noto come “obbligo di segnalazione”, che i funzionari canadesi sono tenuti a fornire a un cittadino considerato in pericolo di vita. “Sa di cosa si tratta?”, gli ha chiesto. “Qualcuno sta cercando di uccidermi”, ha risposto Singh.

“Lei rischia di essere assassinato”, ha confermato l’ufficiale e gli ha chiesto se sapeva chi potesse volere la sua morte.

“È lei che ha ‘l’obbligo di segnalazione’”, ha replicato Singh. “Come ha avuto questa informazione?”. L’ufficiale non ha risposto. Poco dopo è arrivato il servizio di protezione dell’infanzia per notificare alla moglie che Singh aveva l’obbligo legale di vivere separato dai due figli per non metterli in pericolo. Altrimenti i servizi sociali sarebbero stati costretti a intervenire. Singh si è infuriato, ma non aveva scelta. È tornato a casa, ha preparato una piccola valigia e si è trasferito in un appartamento in affitto.

Quel giorno molti altri sikh di Surrey hanno ricevuto la visita delle forze di sicurezza, compreso un amico e confidente di Singh, Hardeep Singh Nijjar, 44 anni, che era presidente del Guru Nanak sikh gurd­wara, un altro tempio della zona. Anche a lui avevano detto che la sua vita era in pericolo e poco di più. Eppure, entrambi erano certi di sapere chi c’era dietro quelle minacce. Come mi dice Balraj, il figlio ventiduenne di Nijjar, “immediatamente ho pensato ‘Ok, l’India gli dà la caccia’”.

Singh e Nijjar erano due noti militanti del movimento Khalistan, che mira a creare uno stato sikh indipendente e sovrano staccato dall’India. Negli anni ottanta del novecento il movimento separatista ottenne appoggi in India e all’estero, dando vita per più di un decennio a una ribellione armata che infiammò il Punjab, uno stato a maggioranza sikh nel nord del paese. In Canada, dove vive la più grande comunità sikh al di fuori dell’India, i sostenitori del Khalistan nel 1985 fecero esplodere un volo dell’Air India provocando la morte di 329 persone, il più grande attentato terroristico nella storia del paese. Anche se oggi i simpatizzanti del movimento sono in grande maggioranza nonviolenti, il governo indiano resta deciso a soffocare il movimento in tutto il mondo, sostenendo che è ancora una minaccia alla sicurezza nazionale e che i suoi leader sono legati alla criminalità organizzata. Singh e Nijjar, due tra i più noti e accesi sostenitori del separatismo sikh, già da tempo temevano di diventare possibili bersagli.

Percorsi alternativi

Dopo aver ricevuto la segnalazione, la famiglia di Nijjar ha chiesto agli ufficiali se potevano fornirgli un giubbotto antiproiettile e vetri blindati per la macchina, e se la sorveglianza del tempio poteva essere rafforzata. Hanno risposto di no, mi racconta Balraj. Gli ufficiali hanno raccomandato invece a Nijjar di lasciare la British Columbia o di restare a casa in attesa che il rischio svanisse. Ma se avesse seguito il consiglio degli ufficiali, Nijjar non avrebbe potuto continuare a fare l’idraulico per mantenere la famiglia. “Avevano un atteggiamento del tipo ‘è una cosa che devi gestire da solo, come meglio credi’”, ricorda Balraj. Più tardi, quel giorno, Nijjar e Singh si sono parlarti nel parcheggio del tempio. “Qual è il piano?”, ha chiesto Singh. “Dobbiamo stare attenti”, ha risposto Nijjar.

Solo una settimana prima un altro noto esponente della comunità sikh di Surrey era stato ucciso. Ripudaman Singh Malik, un uomo d’affari e separatista prosciolto in passato dall’accusa di essere implicato nell’attentato al volo dell’Air India, era stato ucciso nella sua auto in quello che la polizia aveva ritenuto un omicidio “pianificato e deliberato”. “Non sappiamo chi ha ucciso Malik, ma qualcuno l’ha fatto”, pensava Singh. “E ora ci stanno dicendo che potrebbe succedere anche a noi”. Hanno deciso di cominciare a muoversi in città seguendo percorsi poco prevedibili e di tenersi in contatto.

Nel corso dell’estate, l’obbligo di segnalazione per Singh è stato ritirato, e l’uomo è potuto tornare a casa. Ma la minaccia contro l’amico rimaneva. Nijjar ha cominciato a incontrarsi ogni settimana con agenti del servizio d’intelligence canadese (Csis) per valutare il rischio. Singh e Balraj sostengono che i funzionari gli chiedevano chi poteva esserci dietro quella minaccia e se aveva nemici che volevano fargli del male, senza però dare informazioni.

Un pomeriggio di settembre Nijjar è andato a trovare Singh a casa sua. Mentre erano seduti nel portico sul retro mangiando bacche e melone, Nijjar ha raccontato all’amico che all’inizio della settimana gli agenti del Csis lo avevano avvisato che la minaccia si era aggravata. “Se mi succede qualcosa”, ha detto Nijjar, “fa’ in modo di passare a trovare la mia famiglia”. Da quel momento ha preso a confidare regolarmente a Singh i suoi timori sulla morte, che credeva ormai inevitabile. Singh ricorda di avergli sentito affermare “arriveranno più prima che poi”.

Nijjar e la famiglia hanno cominciato a notare dei veicoli che rallentavano davanti a casa loro e poi si allontanavano accelerando. Un giorno, un camion ha preso a girare minacciosamente intorno a Nijjar mentre faceva benzina. Nel giugno 2023 un altro leader indipendentista sikh, Avtar Singh Khanda, è morto nel Regno Unito, e la famiglia ha detto che era stato avvelenato (la causa ufficiale della morte è leucemia mieloide acuta, e la polizia britannica stabilito che non c’erano “circostanze sospette”). Amici e conoscenti hanno cominciato a telefonare a Nijjar da tutto il mondo, preoccupati per la sua vita.

Singh, Nijjar e i membri del consiglio di gestione del Guru Nunak sikh gurdwara si è riunito quel mese in una sala del tempio. Alla parete di marmo era appesa una bandiera gialla con la scritta Khalistan in blu. Le intimidazioni, pensavano, erano la prova che la loro lotta cominciava a dare dei risultati. “Tutti raccomandavano a Nijjar di tenere gli occhi ben aperti”, dice Singh. Quando la riunione è finita, Nijjar l’ha chiamato. “Fratello”, ha detto sorridendo. “Se succede qualcosa, pensa tu a tutto”.

Domenica 18 giugno, Nijjar ha telefonato alla famiglia dopo aver passato la giornata al tempio e ha detto che stava tornando a casa per la cena della festa del papà. La famiglia aveva preparato la pizza. “Arrivo tra dieci, quindici minuti”, ha detto. Mentre il suo pickup si avvicinava all’uscita del parcheggio, una berlina argento ripresa dalle videocamere di sorveglianza si è mossa per tagliargli la strada. Due uomini grossi e incappucciati che erano sotto una tenda da sole poco lontano si sono avvicinati. Hanno puntato le pistole contro lo sportello dal lato dell’autista e hanno sparato, colpendo Nijjar decine di volte. Pochi minuti dopo, Balraj ha ricevuto una telefonata da un amico di famiglia: “È successo qualcosa al gurdwara. Hanno sparato a tuo padre”. Balraj ha riattaccato e ha cominciato a chiamare freneticamente il padre. “Ovviamente non rispondeva nessuno”, racconta. Quando la famiglia è arrivata al tempio, Balraj aveva già saputo cos’era successo dai siti d’informazione indiani: suo padre era stato ucciso.

Senza gerarchie

Il sikhismo è stato fondato alla fine del quindicesimo secolo dal guru Nanak, mistico e poeta, nel Punjab, una regione oggi divisa tra India e Pakistan. Il guru Nanak, come anche i nove guru suoi successori, predicava una dottrina monoteistica che enfatizzava “l’unità” di tutta la creazione promuovendo l’uguaglianza e la distruzione delle gerarchie. La pratica spirituale dei sikh, che prevede la meditazione, la lettura e il seva – il servizio della comunità –­ cerca di annullare l’io e avvicinare i seguaci alla fusione con il Creatore. I fedeli si chiamano khalsa (i puri).

Fuori dal Guru Nanak sikh gurdwara a Surrey, Canada, 31 maggio 2024  (Amber Bracken)

Nel 1799 il maharaja Ranjit Singh cominciò a riunire diversi stati indipendenti sikh in un impero, che durò fino a che non fu sconfitto dalla Compagnia britannica delle Indie orientali nel 1849 e soppiantato dall’amministrazione coloniale britannica. Seguirono ondate di resistenza, ma l’idea del Khalistan come stato sovrano nacque ufficialmente solo negli anni quaranta del novecento, quando la partizione dell’India coloniale smembrò il Punjab, dividendo la popolazione sikh tra il Pakistan, a maggioranza musulmana, e l’India, a maggioranza indù. Negli anni cinquanta, quando il governo indiano voleva fissare i confini di stato lungo linee linguistiche, i sikh del Punjab si batterono per uno stato a maggioranza sikh di lingua punjabi. A metà degli anni sessanta Indira Gandhi, che allora era prima ministra, accettò di ridisegnare i confini del Punjab, anche se molte zone di lingua punjabi rimasero escluse. Nei vent’anni successivi, i sikh del Punjab continuarono a protestare chiedendo più autonomia: furono arrestati a migliaia e il movimento Khalistan diventò sempre più violento.

Le ostilità raggiunsero il culmine nel 1984, quando Gandhi ordinò all’esercito indiano di lanciare un attacco contro il Tempio d’oro di Amritsar – il più sacro santuario sikh – da cui Jarnail Singh Bhindranwale, un importante militante del movimento, aveva diretto una rivolta. L’operazione, chiamata Blue star, vide l’assalto a decine di templi sikh e provocò la morte di centinaia, se non migliaia, di civili e militanti. Qualche mese dopo Indira Gandhi fu uccisa per vendetta da due guardie del corpo sikh, questo a sua volta scatenò un’altra ondata di violenza, soprattutto a New Delhi. La folla incendiò i negozi dei sikh e li bastonò a morte, mentre le donne furono vittime di stupri di gruppo. I rapporti ufficiali parlano di più di tremila sikh uccisi in tre giorni (le cifre non ufficiali sono ancora più alte).

Nel decennio successivo i militanti sikh assassinarono politici e giornalisti, e attaccarono indiscriminatamente i civili indù, uccidendone a migliaia. Nella reazione che seguì, Human rights watch e Medici per i diritti umani documentarono migliaia di aggressioni contro i sikh, tra cui stupri, torture ed esecuzioni sommarie. Il ciclo di violenza cominciò a placarsi solo a metà degli anni novanta, quando il governo aveva già ucciso quasi tutti i leader del movimento e molti altri separatisti avevano lasciato il paese.

Oggi il movimento Khalistan è ufficialmente fuorilegge in India e ha poco seguito nel Punjab. Il governo indiano, guidato dal Bharatiya janata party del primo ministro Narendra Modi, ha esteso l’applicazione delle leggi antiterrorismo per reprimere i sikh e altri dissidenti in tutto il paese. Gli esperti delle Nazioni Unite e i gruppi per la difesa dei diritti umani hanno ripetutamente avvertito che le norme contro il terrorismo note come Legge per la prevenzione delle attività illegali (Uapa) consentono di incarcerare chiunque, perché non servono prove per definire qualcuno un “terrorista”. La Uapa permette alle autorità di fermare gli individui sospetti per un massimo di 180 giorni, ed è difficile ottenere la libertà su cauzione. Di fatto, chi viene arrestato può rimanere in detenzione preventiva per anni. “Lo scopo della Uapa”, dice Jaspal Singh Manjhpur, un avvocato e attivista dei diritti umani del Punjab che ha difeso decine di persone, “è distruggere mentalmente, socialmente, economicamente e politicamente gli attivisti in modo da metterli a tacere e creare una diffusa atmosfera di paura”.

Disperato, Nijjar scrisse una lettera a Trudeau pregandolo d’intervenire

New Delhi indaga anche su individui e organizzazioni di altri paesi attraverso l’agenzia d’intelligence nazionale (Nia). Se ottengono il permesso per tornare in patria, i cittadini indiani all’estero sospettati di partecipare al movimento Khalistan rischiano di essere detenuti per un periodo indefinito senza accuse e senza processo.

Mandeep Singh Dhaliwal, che aveva la residenza permanente in Canada, è tornato in India nel 2016. Dopo essere stato accusato di terrorismo, è stato tenuto in custodia e gli è stato vietato di lasciare il paese. Un tribunale per l’immigrazione canadese in seguito ha dichiarato che Dhaliwal sostiene in modo credibile di aver subìto torture mentre era sotto custodia e che non c’era uno straccio di prova a conferma della sua attività terroristica (è tuttora in India in attesa che sia fissata la data del processo).

Il governo indiano sostiene che il Canada non ha fatto abbastanza per riconoscere i pericoli del movimento Khalistan e stroncare la retorica che istiga alla violenza. Il primo ministro canadese Justin Trudeau si è scontrato con il governo indiano in molte occasioni, come nel 2018, quando Jaspal Atwal, un sikh canadese accusato di aver tentato di assassinare un ministro del Punjab trent’anni prima, apparve a un evento a Mumbai insieme a lui. Quando trapelò la notizia che Atwal successivamente era stato invitato a un ricevimento all’Alta commissione canadese di New Delhi, l’ufficio di Trudeau si affrettò a revocare l’invito. Nel 2020 Trudeau e altri funzionari canadesi hanno fatto dichiarazioni a favore delle proteste antigovernative degli agricoltori indiani – che in molti casi erano sikh – spingendo il governo indiano a etichettare i loro commenti come una “inaccettabile ingerenza nei nostri affari interni”.

Fino al 2023, tuttavia, non era stata avanzata pubblicamente alcuna ipotesi che l’India avesse tentato di orchestrare l’uccisione di attivisti sikh in Canada. E Nijjar non era stato l’unico bersaglio in occidente. Nel novembre 2023, appena cinque mesi dopo la sua morte, si è saputo che Gurpatwant Singh Pannun, un leader del movimento Khalistan residente a New York, era sfuggito a un altro presunto tentato omicidio organizzato dall’India. Pannun, 56 anni, cittadino canadese e statunitense, era stato etichettato come terrorista da New Delhi nel 2020, ed è stato spesso accusato di velate minacce ai politici indiani. Nel 2023 è stato anche indagato dalle autorità canadesi per aver avvertito in un video su YouTube i sikh di non volare con la compagnia Air India in un certo giorno (Pannun sostiene che stava promuovendo un boicottaggio, non lanciando una minaccia). Era anche l’avvocato e un amico di Nijjar.

A novembre, quando ha saputo che il dipartimento di giustizia statunitense aveva reso pubblici i risultati di un’indagine che illustravano nel dettaglio il complotto per ucciderlo, Pannun non ha avuto dubbi su chi l’avesse architettato. Secondo l’accusa, un agente anonimo del governo indiano aveva reclutato un certo Nikhil Gupta per organizzare l’omicidio. Gupta aveva assoldato per centomila dollari un sicario, che poi si è scoperto essere un agente del governo sotto copertura (Gupta è stato estradato dalla Repubblica Ceca il 14 giugno 2024 e in un tribunale federale degli Stati Uniti si è dichiarato non colpevole delle accuse di omicidio su commissione).

Secondo il Washington Post l’agente anonimo era Vikram Yadav, un funzionario della Reaserch and analysis wing (Raw), l’agenzia d’intelligence estera di New Delhi. Secondo il quotidiano, il direttore della Raw di allora, Samant Goel, era a conoscenza dell’operato di Yadav, che aveva addirittura prospettato a Gupta la possibilità di altri attentati in futuro. Anche la morte di Nijjar era collegata a Yadav; poche ore dopo l’assassinio, Yadav aveva mandato a Gupta un video “che mostrava il corpo insanguinato di Nijjar riverso nella sua auto”, sosteneva l’indagine statunitense (un portavoce del ministero degli esteri indiano ha definito le affermazioni dell’accusa “contrarie alla politica del governo”; un altro portavoce ha definito l’inchiesta del Washington Post “arbitraria e non documentata”). Venuto a conoscenza del complotto per assassinarlo, Pannun ha dichiarato che i dettagli significavano ben poco per lui. “Se il prezzo sono le pallottole o la morte”, ha detto riferendosi al suo sostegno al Khalistan, “sono pronto a pagarlo”.

Lo scorso novembre, in un pomeriggio grigio e piovoso, aspettavo Moninder Singh­­ al Guru Nanak sikh gurdwara. Singh era in ritardo, come al solito, mi hanno detto. Dopo circa un’ora è finalmente apparso dal parcheggio e si è incamminato a piedi nudi verso l’ingresso del tempio, avvolto in un turbante e uno scialle blu elettrico. Prima che potesse raggiungermi, è stato intercettato da alcuni sikh. “Come procediamo ora?”, gli ha chiesto qualcuno. “Cosa facciamo?”. Dopo la morte di Nijjar, Singh si è trovato a dover guidare da solo la grande comunità. “La gente ha paura”, mi ha detto. “L’unica è andare avanti, tenere la rotta”, ripete spesso per rassicurare chi si rivolge a lui.

Compagni di lotta

Il padre di Singh emigrò in Canada dal Punjab nel 1970, quand’era ancora adolescente. Lavorava in una segheria della British Columbia quando conobbe la futura madre di Singh, che faceva la cuoca. Singh è cresciuto con il fratello più piccolo a Clear­water, una cittadina prevalentemente bianca e borghese. Erano l’unica famiglia sikh della zona. Secondo la tradizione, Singh portava il turbante e si faceva crescere i capelli. Perciò è stato sempre bullizzato, dall’asilo fino al liceo. Ricorda che la sera concludeva sempre le preghiere chiedendo di potersi svegliare bianco il giorno dopo. Quando aveva tredici anni, uno studente più grande gli strappò il turbante e lo lanciò nel wc. Umiliato, Singh si coprì la testa con una felpa, ripescò il turbante e lo sciacquò in un lavandino. Quella sera raccontò l’episodio a suo padre. “Cosa pensi di fare?”, gli chiese il padre. Singh decise di allearsi con altri ragazzini bullizzati. “Ci organizzammo”, ricorda. “Imparai a fare la lotta, imparai a combattere, creai una piccola squadra”.

Un poster di Hardeep Singh Nijjar sul cancello del tempio Guru Nanak sikh a Surrey, Canada, 31 maggio 2024 (Amber Bracken)

Il padre di Singh, sostenitore del Khalistan, cercava di condividere con i figli la fede e la storia dei sikh. Malgrado il disagio che a volte provava a scuola, Singh è cresciuto ammirando il coraggio della sua gente. Quando la rivolta in India era al culmine, la famiglia di Singh passava il tempo nei gurdwara, dove si discuteva animatamente del conflitto nel Punjab e della lotta per l’indipendenza. Suo padre era abbonato a un mensile separatista pubblicato a Vancouver, e da ogni numero Singh e il fratello ritagliavano le foto di giovani simili a loro e le appendevano alla parete. Solo più tardi si resero conto che erano le immagini di uomini morti o dispersi nei combattimenti in India.

Nel 1998, a 17 anni, Singh si trasferì alla periferia di Vancouver per andare all’università e cominciò a frequentare il gurdwara locale. In Canada il movimento Khalistan si era relativamente affievolito. La violenza nel Punjab da qualche tempo era diminuita, e nella comunità dilagavano paura e sfiducia. Sembrava che chiunque poteva essere un agente indiano.

Al tempio, Singh cominciò a notare Nij­jar, un ragazzo discreto che era arrivato dal Punjab l’anno prima. “Nessuno sapeva chi fosse e che storia avesse alle spalle, venendo dal movimento nel Punjab”, racconta Singh. Con gli anni diventarono più intimi, e Nijjar cominciò a raccontare di più. Era nato e cresciuto a Bharsinghpura, un villaggio del Punjab, dove suo padre si batteva per i diritti dei sikh.

Da adolescente Nijjar era stato prelevato dalla polizia tre giorni dopo la morte del primo ministro del Punjab in un attentato suicida. Raccontò a Singh che i secondini lo picchiavano con spranghe di ferro, gli davano scariche elettriche su braccia, gambe e genitali e gli spezzarono le gambe. Temendo per la sua vita, e a malapena in grado di camminare, Nijjar negoziò una tangente per essere rilasciato. Si tagliò i capelli per rendersi meno riconoscibile (non tagliare i capelli è un requisito dei khalsa e simboleggia la spiritualità di un sikh e la sua connessione con Dio). Poi si nascose nella casa di un parente. Non troppo tempo dopo, nel 1997, si procurò un falso passaporto e lasciò l’India, per non tornare mai più. Alla fine si stabilì nella British Columbia, aprì una ditta di idraulica e presentò domanda per lo status di rifugiato. Quando la sua richiesta fu respinta per incongruenze nel resoconto delle torture che sosteneva di aver subito in India, accettò un matrimonio combinato con una sikh della zona. La moglie chiese che gli fosse concessa la residenza in Canada, ma anche questa gli fu negata perché i funzionari dell’immigrazione intuirono che si trattava di un matrimonio di convenienza. Però la coppia rimase insieme ed ebbe due figli.

Avrebbe potuto tirarsi indietro in qualunque momento, alla luce di tutte quelle minacce

Nel 2008 partecipò a un evento del gurdwara in cui Singh parlava delle radici della lotta del suo popolo. Subito dopo, Nijjar lo avvicinò per dirgli come fosse colpito dal fatto che una persona nata e cresciuta in occidente avesse una conoscenza così profonda del movimento. Singh­ ne fu commosso e lo ringraziò.

I due cominciarono a vedersi più spesso alle manifestazioni e diventarono amici anche se avevano caratteri diversi. Singh­ è enigmatico e introverso, un maniaco della forma fisica che osserva un severo regime di dieta e allenamenti. Nijjar, al contrario, era socievole e alla mano, un burlone che preferiva pizza, burrito e lasagne. Singh ha fatto l’università in Canada, ha lavorato come dirigente del sistema sanitario e ora è direttore del Centro Khalistan e portavoce del Consiglio dei gurdwara della British Columbia; Nijjar parlava male l’inglese e aveva lasciato il Punjab prima di terminare il college.

Singh manteneva spesso il riserbo alle riunioni delle comunità, mentre Nijjar era scoppiettante e prendeva sotto la sua ala molti giovani sikh. Le loro differenze erano un vantaggio durante le riunioni del comitato del gurdwara, quando Singh trovava che le maniere tolleranti di Nijjar erano un’utile controparte della sua irruenza. Per rilassarsi, i due amici cominciarono a fare lunghi giri in macchina e a chiacchierare su una panchina affacciata sul Pacifico. Presto Nijjar diventò la persona di fiducia di Singh, la prima a cui telefonava per chiedere consiglio. “Chi mi conosce sa che non rispondo mai al telefono”, spiega Singh. “Se mi chiamava lui, rispondevo al primo squillo. Ora non so a chi telefonare o a chi mandare un messaggio.”

Nota rossa

Le autorità indiane in un primo momento non sembrarono interessate a Nijjar dopo la sua fuga in Canada. Ma quando cominciò ad avere un ruolo di rilievo nel movimento Khalistan, tornò ad attirare la loro attenzione. Nel 2013 Nijjar andò a Ginevra per sostenere una campagna delle Nazioni Unite che mirava a definire gli avvenimenti del 1984 come un genocidio dei sikh.

Un anno dopo, a New York, partecipò a un’iniziativa a favore di un referendum mondiale non vincolante per riconoscere uno stato sikh indipendente. Su richiesta delle autorità indiane, l’Interpol emise una nota rossa, cioè una richiesta alle forze di polizia di tutto il mondo di arrestare una persona in attesa di estradizione. La nota affermava che Nijjar era a capo della Khalistan tiger force, un braccio armato del movimento Khalistan che l’India considera un’organizzazione terroristica, e che aveva contribuito a progettare un attentato in un cinema del Punjab nel 2007. Pannun, l’avvocato di Nijjar, lo aiutò a contestare la nota con l’aiuto di uno studio legale di Vancouver, e dopo qualche mese fu annullata.

Il governo indiano non si lasciò scoraggiare. Nel 2016 il Times of India pubblicò un articolo sostenendo che funzionari dell’intelligence indiani avevano informato il governo canadese che Nijjar stava progettando degli attentati in Punjab e che dirigeva un campo di addestramento per estremisti sikh a Mission, una città della British Columbia dove c’era un poligono di tiro. Nijjar sostenne che i mezzi d’informazione indiani avevano falsificato una foto in cui appariva armato; anche la polizia canadese e il sindaco di Mission respinsero le accuse. Ma la stampa canadese riprese la vicenda, attirando l’attenzione sugli estremisti sikh in Canada. Decine di reporter si accamparono davanti alla casa della famiglia per settimane. Balraj ricorda che per andare e tornare da scuola evitando i giornalisti doveva cambiare percorso.

Disperato, Nijjar scrisse una lettera a Trudeau pregandolo d’intervenire per mettere fine a questa “persecuzione” e difenderlo dalle accuse di New Delhi. “Invito la sua amministrazione a sconfessare le accuse immaginarie, prive di fondamento e politicamente motivate fabbricate dal governo indiano contro di me”, scriveva Nijjar, aggiungendo che l’India aveva “apertamente abusato della sua autorità di governo”. Non ricevette mai una risposta. Il Canada, al contrario, sembrava disposto a eseguire gli ordini dell’India. Il governo canadese inserì il nome di Nijjar in un elenco di persone che non potevano prendere l’aereo e congelò i suoi conti in banca.

Non era del tutto sorprendente. Negli ultimi anni i rapporti con l’India sono diventati importanti per il Canada, soprattutto per cercare di contenere l’influenza cinese. L’India, inoltre, è una delle economie mondiali in più rapida crescita e offre opportunità vantaggiose per le aziende canadesi. Solo in rare occasioni il Canada aveva risposto a quelle che considera ingerenze dell’India. Alla fine degli anni ottanta, il ministro canadese degli affari esteri accusò una decina di diplomatici indiani, impiegati consolari, agenti e informatori dei servizi di spionaggio, allontanandoli dal paese. Dopo aver lasciato il Canada, Maloy Krishna Dhar, uno dei diplomatici ed ex direttore congiunto dell’Indian intelligence bureau, dichiarò che tra i suoi doveri c’era quello di “infiltrare” i gurdwara e coltivare “alcune amicizie tra i parlamentari canadesi”.

Alcuni uomini bruciano la bandiera indiana durante una manifestazione a Vancouver, 1 giugno 2024 (Amber Bracken)

Due soldati in trincea

Nel 2023 il giornalista Sam Cooper ha rivelato che nel 2017 il Csis aveva pianificato un’operazione per “stroncare le reti d’intelligence indiane in rapida espansione a Vancouver che monitoravano e prendevano di mira la comunità sikh”. Ma il piano era stato affossato perché Trudeau stava per fare un delicato viaggio diplomatico in India. Un rapporto del parlamento canadese del 2019 diceva che l’amministrazione Trudeau aveva ripetutamente evitato di rispondere agli avvertimenti dell’intelligence secondo cui i diplomatici indiani si intromettevano nelle comunità della diaspora e nelle elezioni canadesi. Due altri rapporti pubblicati nel 2024 rilevavano che “agenti per procura” indiani avevano fornito “appoggio finanziario illecito” a candidati filoindiani, e che l’India rappresentava la seconda più grande minaccia internazionale per la democrazia canadese dopo la Cina.

Anche se si sentiva abbandonato da Ottawa, Nijjar non voleva rinunciare alle sue attività a favore del Khalistan. Con gli amici e la famiglia sminuiva le accuse contro di lui e presentava la situazione come un’opportunità di dimostrare il suo impegno per la causa. Nel peggiore dei casi, se avesse perso le sue entrate, se la banca gli avesse pignorato la casa o se la sua azienda fosse stata chiusa, avrebbe fatto il tassista o lavato i pavimenti, e la famiglia avrebbe potuto mangiare al tempio. Ma New Delhi continuava a intensificare i suoi sforzi, e Nijjar diventava sempre più ansioso. Balraj intuiva che il padre aveva delle incertezze sul suo attivismo, “sapendo bene come sarebbe andata a finire”.

Nonostante questo, la famiglia incoraggiò Nijjar a non rinunciare alla sua vocazione. “Aveva sperimentato la tortura”, mi dice Balraj. “È piuttosto difficile dire a una persona così di starsene buona e calma, di non andare alle manifestazioni, di non far sentire la sua voce”. Balraj ricorda quanto sembrava felice il padre alle manifestazioni e al tempio, tra le persone della congregazione. “Ti rendevi conto che quello era il suo posto”.

Un giorno del 2018 Nijjar uscì per andare al lavoro e non tornò a casa. Le autorità canadesi lo avevano trattenuto per interrogarlo, dopo una richiesta di estradizione arrivata dall’India. Quando, 24 ore dopo, fu rilasciato, Singh era stato l’unica persona che aveva cercato di contattarlo: molti altri sikh avevano cominciato a prendere le distanze, temendo per la propria sicurezza.

Anche se Ottawa non sembrava interessata a onorare la richiesta di estradizione, le prospettive di Nijjar erano sempre più allarmanti. Nel 2020 New Delhi lo definì un terrorista. Due anni dopo, più o meno nello stesso periodo in cui le autorità canadesi gli consegnarono l’obbligo di segnalazione, l’intelligence indiana lo accusò di cospirare per uccidere un sacerdote indù nel Punjab e pubblicò l’indirizzo di Nijjar a Surrey, offrendo una ricompensa di un milione di rupie (dodicimila dollari) per informazioni che portassero al suo arresto. La primavera scorsa, quando Nijjar stava organizzando una protesta con Singh, i due si erano presi una pausa vicino al parcheggio del tempio. Erano seduti sul selciato e parlavano di quello che avevano realizzato insieme e di cosa avrebbero potuto fare se uno dei due fosse morto. “Fammi un favore”, ha detto Singh. “Puoi darmi il dastar che indossi?”. Nijjar ha sorriso, si è sciolto il turbante arancione e l’ha consegnato all’amico. Lo scambio di un turbante è il massimo segno di rispetto nella cultura sikh, “una cosa per ricordarsi a vicenda”, spiega Singh. Singh poi ha dato a Nijjar il suo turbante blu, e ciascuno l’ha fissato sulla testa dell’altro. Il gesto, dice Singh, era un simbolo del loro rapporto: “Due soldati in trincea”.

L’intelligence ha le prove

◆ Il 14 ottobre 2024 gli ufficiali della polizia canadese hanno accusato alcuni diplomatici indiani di essere coinvolti in attività criminali – omicidi, estorsione, intimidazione – contro persone della comunità sikh in Canada. Secondo le autorità di Ottawa alcuni diplomatici, incluso lo stesso alto commissario, sono coinvolti non solo nell’uccisione dell’attivista Hardeep Singh Nijjar, ma anche in altri omicidi nel paese nordamericano. Si sarebbero serviti della banda guidata dal più noto criminale indiano. Due giorni dopo la conferenza stampa il primo ministro canadese Justin Trudeau ha rincarato la dose dicendo che l’intelligence canadese ha le prove che legano i diplomatici indiani ai crimini di cui li accusa la polizia. L’India, ha aggiunto Trudeau, ha fatto un “errore tremendo” violando la sovranità canadese. In risposta alle accuse, che respinge, l’India ha espulso quattro diplomatici canadesi e Ottawa ha risposto espellendone altrettanti indiani. Il 18 ottobre il governo indiano ha ricevuto una nuova accusa, stavolta dagli Stati Uniti: Vikash Yadav, un impiegato del governo indiano, è stato incriminato per aver cospirato per uccidere Gurpatwant Singh Pannun, attivista sikh e cittadino statunitense, a New York nel 2023. Il 21 ottobre un tribunale della British Columbia ha fatto sapere che due uomini, Tanner Fox e Jose Lopez, si sono dichiarati colpevoli dell’omicidio di Ripudaman Singh Malik, noto esponente della comunità sikh di Surrey ucciso nel 2022. I due non hanno voluto dire chi era il mandante. Bbc


Due mesi dopo Nijjar è morto. Singh ha strappato in due il turbante di Nijjar per poterne sempre indossare un pezzo, anche quando l’altra metà è a lavare. Ogni mattina, quando se lo avvolge intorno alla testa, “è semplicemente impossibile non ricordarlo”, dice. “È un promemoria costante del fatto che non è finita”.

Nell’autunno 2023, a Surrey si è tenuta una fase del referendum non vincolante per uno stato sikh indipendente che Nijjar stava contribuendo a organizzare. Il referendum, lanciato dall’associazione Sikh per la giustizia, è cominciato nel 2021 nel Regno Unito e si svolge in molti altri paesi dov’è concentrata la diaspora sikh. Pannun mi ha detto che l’obiettivo è presentare i risultati, previsti per il 2025, alle Nazioni Unite e ottenere appoggio all’autodeterminazione dei sikh. Se chi vive nel Punjab – dove avrebbe sede lo stato proposto – non può dimostrare il suo desiderio d’indipendenza, il voto probabilmente non avrà particolare significato. Eppure il governo indiano è furibondo e accusa il Canada di consentire agli estremisti di svolgere “una cerimonia profondamente discutibile” e “politicamente motivata”. Le autorità canadesi hanno difeso il referendum come un esercizio della libertà d’espressione.

Tè speziato e pane fritto

Il secondo giorno delle votazioni al Guru Nanak sikh gurdwara, l’emozione delle decine di migliaia di partecipanti era palpabile. Le letture risuonavano dagli altoparlanti e l’aria era profumata di tè speziato e pane fritto. Cartoni di pizza circolavano tra un mare di persone che sventolavano le bandiere gialle del Khalistan, aspettando di depositare la loro scheda. “Era il suo sogno”, mi ha detto Singh riferendosi a Nijjar. “Credeva nell’idea del voto, e non delle armi, per sconfiggere l’oppressione dello stato indiano contro i sikh”.

Più tardi ho conosciuto Gurmet Singh Toor, segretario del tempio e amico intimo di Nijjar, che è stato quasi certamente l’ultima persona a parlargli prima della sua uccisione. “Avrebbe potuto tirarsi indietro in qualunque momento, alla luce di tutte quelle minacce, ma non l’ha fatto”, dice Toor. Toor è una delle voci che invocano con più forza giustizia per l’uccisione di Nijjar. A luglio ha presentato una petizione, patrocinata da Sukh Dhaliwal, il deputato eletto nella circoscrizione Surrey-Newton, chiedendo al governo di indagare. Toor crede che le sue azioni possano aver spinto l’India a prenderlo di mira. Ad agosto, spiega, gli è stato consegnato lo stesso obbligo di segnalazione ricevuto da Singh e Nijjar, sempre senza dettagli sull’origine della minaccia.

Toor, che lavora dodici ore al giorno come autista di carro attrezzi, dice che per proteggersi non può fare più di tanto: “Cos’è questa, una democrazia o una dittatura? Chi ci proteggerà? Il governo canadese o devo farlo da me?”. Quella stessa mattina, aggiunge, la polizia lo ha chiamato per chiedere se voleva che a casa sua fosse installato un allarme antipanico. “Almeno è qualcosa”. Dopo che, a luglio scorso, Toor ha presentato la petizione, il governo canadese è stato lento a commentare l’uccisione di Nijjar. A settembre Trudeau ha annunciato che il Canada stava indagando su “ipotesi credibili” che collegavano all’omicidio agenti indiani. “Qualunque coinvolgimento di un governo straniero nell’uccisione di un cittadino canadese sul suolo canadese è un’inaccettabile violazione della nostra sovranità. È contro le norme fondamentali delle società libere, aperte e democratiche”, ha detto Trudeau parlando alla camera dei comuni. Le relazioni con New Delhi si sono rapidamente deteriorate ed entrambi i paesi hanno espulso alcuni diplomatici. L’India ha sospeso i visti ai canadesi e il Canada ha annullato alcuni negoziati commerciali con l’India.

Molti sikh si sono sentiti rafforzati dalla dichiarazione di Trudeau. Per altri è stato troppo poco e troppo tardi. Balpreet Singh, consigliere giuridico e portavoce dell’Organizzazione mondiale dei sikh, un gruppo di pressione, mi ha detto di aver segnalato alle autorità canadesi i possibili bersagli, Nijjar compreso, nell’estate 2022. “Per quanto mi riguarda, il Csis ha lasciato cadere la cosa. Sapevano che la sua vita era in pericolo, ma non hanno fatto nulla per proteggerlo,” dice Singh. Eppure, chi spera di chiamare l’India a rispondere della sua campagna di intimidazione potrebbe avere presto ragioni di speranza. Un venerdì mattina di maggio, Balraj e Singh sono stati convocati nel quartiere generale della polizia reale canadese a cavallo nel Surrey. La polizia aveva arrestato tre persone di un presunto commando che ritenevano fosse stato incaricato di uccidere Nijjar, un quarto sarebbe stato arrestato una settimana dopo. Prima che potessero digerire la notizia, la storia aveva fatto il giro del mondo. Singh non sa bene cosa pensare. Sarebbe un sollievo per la famiglia di Nijjar, ovviamente, ma “l’incombente questione generale dell’India è ancora qui”, dice. “Hanno mandato queste tre persone, ne manderanno altre tre domani e ancora altre tre l’anno prossimo”, aggiunge. “È una politica che punta a eliminare la leadership del movimento Khalistan. Ed è chi ha concepito questa politica che deve essere considerato un criminale”, dice. “Gli arrestati sono solo dei sicari”. ◆ gc

Annie Hylton è una scrittrice e giornalista investigativa canadese.

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Questo articolo è uscito sul numero 1586 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati