L’annuncio fatto da Benjamin Netanyahu la sera del 27 marzo per sospendere temporaneamente il piano con cui il governo israeliano vuole indebolire la corte suprema, in modo da dare “una vera opportunità per un vero dialogo”, ha mostrato ancora una volta che il primo ministro ha perso il contatto con la realtà. Ha promesso ai suoi alleati di governo che farà comunque passare la cosiddetta riforma della giustizia. Ma ci crede davvero? Se è così, ha perso il sostegno e la fiducia di un’ampia fetta dell’opinione pubblica israeliana, senza la quale non sarà in grado di approvare la legge contestata.
Ventiquattr’ore prima del suo annuncio, Netanyahu ha licenziato il ministro della difesa Yoav Gallant, scatenando la rabbia degli israeliani. A Gerusalemme migliaia di persone sono uscite spontaneamente di casa e si sono radunate davanti alla sua residenza. Hanno facilmente sopraffatto lo sparuto drappello di forze dell’ordine e le poche guardie del corpo del servizio di sicurezza Shin bet presenti sul posto. Poteva essere un momento cruciale, come in piazza Tahrir durante la rivoluzione egiziana del 2011. La voglia di ribellione c’era sicuramente. Ma i manifestanti non hanno preso d’assalto l’edificio, anche se avrebbero potuto.
Scollamento dalla realtà
L’unico cannone ad acqua usato dalla polizia non è riuscito a respingerli e ha esaurito rapidamente l’acqua e la schiuma. Nonostante la collera, quella non era una protesta violenta. Aveva le stesse caratteristiche delle manifestazioni in corso da quasi tre mesi in Israele: arrabbiata ma pacifica. Il movimento di protesta è cresciuto gradualmente e ha esercitato pressioni sulle parti più critiche del tessuto sociale, economico e della sicurezza. Una campagna intelligente che si è dimostrata estremamente efficace.
Netanyahu, invece, non ha mai capito la situazione. Dal 4 gennaio, quando il ministro della giustizia Yariv Levin ha presentato il suo piano per indebolire la corte suprema, il premier e i suoi alleati hanno commesso una serie di errori, mostrando un totale scollamento da quello che stava succedendo nel paese.
Il primo e fondamentale errore di Netanyahu è stato ignorare la necessità di preparare un piano di pubbliche relazioni per accompagnare il progetto di riforma. Questa scelta probabilmente si spiega con una combinazione di eccessiva sicurezza dopo aver vinto le elezioni e un suo personale senso di noia per gli affari costituzionali.
Il secondo errore è stato credere che fosse l’ennesimo movimento di protesta di sinistra. Netanyahu non ha capito che gli economisti, gli imprenditori, il settore tecnologico e, soprattutto, migliaia di riservisti facevano tutti parte della maggioranza che si era unita alle proteste contro il suo governo. A differenza di chi aveva protestato contro di lui in passato, queste persone erano in grado di bloccare Israele, la sua economia e le sue forze di sicurezza.
◆ Il 28 marzo 2023 sono cominciati i negoziati tra partiti di maggioranza e quelli di opposizione sulla riforma della giustizia proposta dal governo di Benjamin Netanyahu. Gli incontri si svolgono nella residenza del presidente Isaac Herzog a Gerusalemme.
◆ Uno dei collettivi che hanno organizzato le proteste degli ultimi mesi ha annunciato che le contestazioni continueranno fino a quando la riforma non sarà completamente bloccata. Alcune manifestazioni si sono tenute la sera del 28 marzo a Tel Aviv e Gerusalemme. Il giorno prima sono scesi in piazza i sostenitori della riforma. Alcuni di loro hanno attaccato dei passanti palestinesi. A scatenare le violenze sono stati anche gli esponenti di La Familia, un gruppo ultras della squadra di calcio Beitar Gerusalemme. Al Jazeera
Il terzo e ultimo errore di Netanyahu è stato aver licenziato il ministro della difesa Gallant. Il suo palese disprezzo per il parere dei responsabili dei servizi di sicurezza, sostenuti da Gallant, ha mostrato quanto il capo del governo sia separato dalla realtà. È stato questo a scatenare le proteste improvvisate del 26 marzo e a convincere molti alti esponenti del Likud (il partito di Netanyahu), tra cui ministri, sindaci e dirigenti sindacali, che dovevano dire chiaramente al loro leader di darci un taglio.
Netanyahu ha avuto bisogno dell’annuncio senza precedenti di uno sciopero congiunto dei sindacati e delle principali imprese israeliane per cominciare a realizzare cosa stava succedendo: la società israeliana si stava rivoltando contro di lui. Infine, è stata la sua stessa coalizione, inizialmente irremovibile nell’approvare le leggi, a capire i limiti del suo potere. I partiti ultraortodossi se ne sono resi conto per primi. All’inizio erano stati pienamente a favore della riforma giudiziaria, spingendo Netanyahu più in là di quanto lui volesse andare. Ma le proteste nelle loro città e il crescente dibattito sull’esenzione dal servizio militare hanno spinto i politici ultraortodossi a dire a Netanyahu in privato che avrebbero accettato una sospensione del procedimento legislativo. La coalizione di Netanyahu potrebbe rimanere intatta. I ministri si devono ancora ambientare nei loro nuovi uffici, che occupano da meno di tre mesi. Rinunciare al potere e ripiombare nell’incertezza delle elezioni non è un’opzione attraente. Ma quello che è successo ha seriamente indebolito i legami che uniscono la coalizione. Il sogno comune di una rivalsa sull’odiata corte suprema è svanito, per ora. E Netanyahu, l’uomo che teneva insieme i partiti grazie alla capacità di costruire coalizioni vincenti, ha perso il tocco magico.
Conflitto aperto
Forse questo è il paragone più azzeccato con quello che è successo in Egitto nel 2011. Non fu la mobilitazione di piazza Tahrir a far cadere Hosni Mubarak. Alla fine furono i potenti circoli militari e commerciali del Cairo a rendersi conto che il vecchio presidente non era più in grado di garantire il loro controllo sul paese: furono loro a spodestarlo.
Netanyahu ha ancora molti sostenitori nel Likud e alleati in altri partiti, ma questo suo fallimento e il modo in cui ha esposto parti della coalizione, in particolare la comunità ultraortodossa, a un conflitto aperto con il resto della società significa che sta perdendo potere. È ancora premier, ma sta diventando un peso.
Non si può prevedere la fine politica di Benjamin Netanyahu, ma l’implosione della riforma della giustizia potrebbe essere un segnale che va in quella direzione. ◆ dl
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Questo articolo è uscito sul numero 1505 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati