L a decisione dell’Arabia Saudita di bloccare le importazioni dal Libano, di richiamare il proprio ambasciatore a Beirut e di mandare via l’ambasciatore libanese è sproporzionata. Ed è arrivata dopo le critiche all’offensiva saudita nello Yemen espresse da Georges Cordahi su Al Jazeera, prima di essere nominato ministro dell’informazione libanese. Per quanto eccessiva però, la reazione del regno saudita non è incoerente con la sua politica nei confronti del Libano in questi anni, e non è una sorpresa. I politici di Beirut dovevano sapere che in questo contesto l’Arabia Saudita non avrebbe tollerato il minimo passo falso. Certamente si può criticare questo atteggiamento. Ma, visto che il governo libanese guidato dal miliardario sunnita Najib Mikati ha fatto della riconciliazione con il Golfo, e quindi innanzitutto con Riyadh, la sua priorità, doveva agire di conseguenza. E non tollerare che una personalità che fa delle affermazioni percepite come ostili all’Arabia Saudita resti nell’esecutivo. Il sostegno di Hezbollah a Georges Cordahi lascia pensare che il partito sciita sia contrario alle sue dimissioni, e conferma che la questione riguarda un problema che va ben oltre le affermazioni di Cordahi.
L’Arabia Saudita non aspettava altro per ribadire la sua disapprovazione per la situazione libanese. Del resto il regno segue questa linea dal 2017, quando ha costretto l’allora primo ministro Saad Hariri a dimettersi e poi l’ha sequestrato per giorni. Riyadh da allora non ha smesso di allontanarsi dal Libano, considerando che il paese è sotto l’ala del partito Hezbollah, protetto dell’Iran, il suo più grande rivale nella regione. Il caso del Captagon ha ulteriormente avvelenato i rapporti tra i due paesi: la droga, prodotta in Siria e in Libano, è stata a più riprese esportata da Beirut verso i paesi del Golfo. Il 25 aprile Riyadh ha sospeso l’importazione di prodotti libanesi dopo il sequestro da parte delle autorità saudite di cinque milioni di pillole di Captagon nascoste dentro un carico di melograni proveniente da Beirut.
Per Riyadh il Libano non è una priorità. O il paese modifica la sua traiettoria politica (cioè Hezbollah si fa da parte), oppure il regno continuerà a isolarlo sul piano diplomatico
La logica del regno è semplice: perché venire in aiuto di un paese dominato da un partito che gli è ostile? Perché aiutare un paese che ha tra i propri dirigenti persone che criticano l’Arabia Saudita proprio mentre il suo governo assicura di voler fare di tutto per ripristinare i rapporti? Una politica logica ma controproducente, perché ha rafforzato l’influenza di Teheran in Libano. Hezbollah non è mai apparso tanto forte. E nessuno è riuscito a compensare il vuoto lasciato dal ritiro di Riyadh, che però se ne disinteressa. Per l’Arabia Saudita il Libano non è una priorità. O il paese modifica la sua traiettoria politica (cioè Hezbollah si fa da parte) o il regno continuerà a isolarlo sul piano diplomatico. Allo stato attuale, per il Libano l’Arabia Saudita conta molto più di quanto il Libano conti per l’Arabia Saudita. Sia sul piano economico sia su quello politico.
Centinaia di migliaia di libanesi lavorano nel Golfo e inviano regolarmente denaro alle famiglie rimaste a casa. Senza quei soldi l’economia libanese, già in crisi, verrebbe completamente soffocata. Le ultime misure annunciate da Riyadh inoltre la colpiranno ancora di più, visto che nel 2020 l’Arabia Saudita era il suo terzo partner commerciale più importante. Parliamo di un mercato da duecento milioni di dollari.
Ma la questione più importante è un’altra. Per rialzare la testa, Beirut ha bisogno di aiuti finanziari esterni. E tutti sanno che dovranno essere i paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, a mettere mano al portafoglio. È in questa logica che a luglio le ambasciatrici francese e statunitense sono andate a Riyadh per tentare di convincere l’Arabia Saudita a riconciliarsi con il Libano. Senza successo.
Sul piano politico l’escalation saudita mette il governo di Mikati alle strette. L’uomo venuto per stabilizzare la situazione e che avrebbe dovuto, prima delle elezioni, rimettere il Libano in carreggiata per rilanciare i negoziati con il Fondo monetario internazionale, è bloccato dalle dispute politiche. Dopo gli spari contro il corteo di Hezbollah a Beirut che hanno causato sette morti il 14 ottobre, la decisione saudita rafforza la dinamica in corso: è arrivata l’ora del ritorno della polarizzazione su Hezbollah. Tutti ne sono consapevoli. Lo testimonia il risveglio di Saad Hariri, che ha attaccato il partito per la prima volta dal 2014.
Come il suo alleato principale in Libano, il partito cristiano delle Forze libanesi, Riyadh ha deciso d’inasprire il braccio di ferro con Hezbollah, forse per spingere chi si oppone al partito sciita ad allearsi in vista delle elezioni del 27 marzo 2022. Se si terrà davvero, il voto rischia di svolgersi in un clima di tensione, in cui i movimenti della società civile faticheranno ad avere spazio. E sarà inevitabile che tutto si giochi su una sola questione: pro o contro Hezbollah? ◆ fdl
Anthony Samrani
è un giornalista libanese. Lavora per il quotidiano L’Orient-Le Jour, per il quale ha scritto questo articolo.
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Questo articolo è uscito sul numero 1434 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati