È la seconda volta in poco più di quarant’anni che Iran e Arabia Saudita decidono di ristabilire i rapporti diplomatici dopo averli interrotti in un momento di crisi. Questo dà l’idea dell’importanza, ma anche della fragilità, dell’accordo concluso il 10 marzo con la mediazione della Cina.
Fin dalla rivoluzione islamica del 1979 le due potenze si contendono la guida politica e religiosa della regione. Non ci sono elementi per pensare che questa rivalità, negli ultimi dieci anni diventata una specie di guerra fredda, possa svanire da un giorno all’altro. Oltre al peso della storia, i pilastri ideologici della Repubblica islamica sono profondamente in contraddizione con gli interessi strategici dell’Arabia Saudita. Vale per la diffusione della rivoluzione islamica nel mondo arabo attraverso la creazione di milizie sciite, ma anche per l’ostilità del regime di Teheran verso gli Stati Uniti, considerati il principale nemico nella regione, e per la strumentalizzazione iraniana della causa palestinese.
Nonostante la normalizzazione dei rapporti con il regno saudita, l’Iran non rinuncerà a diffondere lo sciismo né ai missili balistici o al programma nucleare. Per questo Riyadh continuerà a ritenere il suo vicino una minaccia e non un potenziale alleato. Per il momento dunque non bisogna sopravvalutare la rilevanza del disgelo, ma neppure sottovalutarlo. Nel 1991 i due paesi ristabilirono le relazioni dopo averle interrotte per quattro anni a causa della morte di centinaia di pellegrini iraniani negli scontri con le forze di sicurezza saudite alla Mecca. Negli anni novanta ci fu un raro momento di tregua. Può un simile equilibrio riprodursi oggi? Alcuni elementi lasciano supporre di sì. Se Riyadh e Teheran hanno raggiunto un accordo dopo due anni (i colloqui sono cominciati nell’aprile 2021) è perché pensano di poterne ricavare un vantaggio. Ciascuno ha le sue ragioni.
L’Arabia Saudita è in piena trasformazione dopo l’arrivo al potere del principe ereditario Mohammed bin Salman. Non vuole più pagare il prezzo di uno scontro, anche indiretto, con l’Iran. Il regno è ancora scosso dagli attacchi contro gli stabilimenti della compagnia petrolifera Aramco del 2019, 2020 e 2021, e dalla mancata reazione statunitense. Con un Iran vicino a ottenere l’arma nucleare, e in piena escalation israelo-iraniana, Riyadh preferisce fare un passo indietro per paura di diventare bersaglio delle rappresaglie di Teheran.
Passo in avanti
L’Arabia Saudita cerca soprattutto di uscire dal pantano nello Yemen, dov’è intervenuta nel 2015 contro gli huthi sostenuti dall’Iran. Questa spedizione militare, che ha segnato una rottura rispetto alla tradizionale prudenza del regno, si è trasformata in un disastro politico e umanitario, che minaccia la sicurezza della monarchia wahabita. È probabile che il momento scelto per l’annuncio – una sorpresa per tutti – sia legata a un passo in avanti sulla questione yemenita. Infatti nelle ultime settimane le trattative per un accordo di pace hanno accelerato. L’Iran ha fatto una grande concessione? Forse sì. Perché si è comportato così dopo anni in cui non aveva ceduto su nulla? È difficile dirlo. Si può immaginare che Teheran sia più interessata di prima a ripristinare le relazioni con il vicino saudita. La crisi dei quattro paesi arabi (Libano, Siria, Iraq, Yemen) su cui ha grande influenza è stata certamente un fattore determinante. L’accordo permette all’Iran di stabilizzare il suo “impero” grazie ai petrodollari sauditi.
La mediazione di Pechino è in continuità con quello che osserviamo da anni: la fine dello strapotere statunitense
Braccio di ferro
Ma l’aspetto più importante è un altro. Alle prese da sei mesi con una rivolta senza precedenti, la Repubblica islamica è indebolita. La cooperazione con la Russia nel contesto della guerra in Ucraina e l’arricchimento dell’uranio a livelli allarmanti complicano i suoi rapporti con l’occidente. Nella prospettiva di uno scontro diretto con Israele, Teheran non vuole essere isolata nella regione. L’accordo gli permette di allontanare le petro-monarchie del Golfo da Israele e di contrastare i piani di Benjamin Netanyahu per costruire una coalizione larga contro Teheran.
Lo stato ebraico è il grande perdente della vicenda. Quanto agli Stati Uniti, anche se la distensione tra iraniani e sauditi può essere nel loro interesse, il fatto che si sia conclusa sotto il patrocinio di Pechino non può fargli piacere. Washington, non avendo rapporti con l’Iran, non poteva mediare tra i due paesi. Ma l’Iraq e l’Oman, che hanno ospitato i colloqui, potevano farlo. Iran e Arabia Saudita hanno deciso di affidare la missione alla Cina, offrendole un importante successo in Medio Oriente. È questo l’elemento più significativo dell’accordo, per ora. Pechino ha un ruolo economico di primo piano nella regione, ma finora era rimasta sullo sfondo nelle questioni geopolitiche. Favorendo la riconciliazione, ha accresciuto la sua importanza in Medio Oriente. Aveva molte ragioni per farlo.
La prima è legata alla sua sicurezza energetica. L’Arabia Saudita è il principale fornitore di petrolio della Cina, che è anche il primo paese importatore di greggio iraniano, anche se lo scambio è indiretto per evitare le sanzioni internazionali. La stabilità della regione è quindi un fattore strutturale per la salute dell’economia cinese.
La seconda ragione è legata al braccio di ferro con Washington e va oltre le sfide mediorientali. La Cina vuole mostrare di essere una superpotenza in grado di competere con gli Stati Uniti sulla scena internazionale e di essere un partner più neutrale e accomodante rispetto al suo avversario. Per farlo, cosa c’è di meglio di una prodezza diplomatica in quello che finora era considerato il cortile di casa degli Stati Uniti? Questo deve far pensare a un maggiore coinvolgimento di Pechino nelle questioni scottanti in Medio Oriente? Per il momento no.
Per la Cina il Golfo è più importante del resto della regione. L’Iran, che nel 2021 ha firmato un accordo di cooperazione di venticinque anni con il gigante asiatico, aveva tutto l’interesse affinché Pechino facesse da mediatrice. La scelta dell’Arabia Saudita è più sorprendente. Tuttavia, testimonia la sua volontà di essere meno dipendente dall’alleato statunitense, con cui negli ultimi anni i rapporti sono stati burrascosi. Riyadh vuole probabilmente irritare un altro po’ Washington – dopo essersi rifiutata di aumentare la produzione di petrolio e di prendere le distanze dalla Russia sulla guerra in Ucraina – e sicuramente ritiene che la Cina abbia più influenza sull’Iran per costringerlo a rispettare l’accordo.
La Cina può dunque diventare il nuovo gendarme del Golfo? Questo accordo segna l’inizio ufficiale dell’era post-statunitense in Medio Oriente? Bisogna fare attenzione a non trarre conclusioni affrettate. Anche se si stanno ritirando, gli Stati Uniti restano la più grande potenza della regione, in particolare nel Golfo, in cui hanno diverse basi militari e una rete di alleanze senza paragoni. Più che una svolta radicale, la mediazione di Pechino è in continuità con quello che osserviamo da anni: la fine dello strapotere statunitense in Medio Oriente. Questo significa il disimpegno di Washington, il ritorno della Russia, il crescente appetito delle potenze regionali (Turchia, Iran, Arabia Saudita) e l’emancipazione degli alleati degli Stati Uniti.
La Cina appare la grande vincitrice. Anche l’Iran ne esce rafforzato. La politica radicale degli ultraconservatori è ricompensata pagando un prezzo a prima vista modesto, cioè la soluzione della questione yemenita. Il potere iraniano può anche sperare di raccogliere i benefici dell’accordo in Iraq, in Siria (con la normalizzazione del regime di Bashar al Assad) e in Libano.
L’Arabia Saudita ha fatto una doppia scommessa: sulla neutralità della Cina e sulla sincerità dell’Iran. Se otterrà un risultato nello Yemen, potrà ritenersi soddisfatta. Nulla la costringe a cedere terreno al suo rivale in Libano, in Siria o in Iraq. La regione potrebbe beneficiare di un calo della tensione tra i due rivali e di un dialogo più diretto. Ma bisogna restare prudenti. A meno che l’Iran e il regime di Assad non facciano delle vere concessioni, non si capisce davvero l’interesse dell’Arabia Saudita a impegnarsi nei tre paesi. In Libano ogni schieramento pensava che l’accordo gli sarebbe tornato utile, soprattutto nella corsa per l’elezione del presidente della repubblica. Ma la verità è che Teheran farà alcune concessioni tattiche (e non strategiche) per ottenere un accordo al ribasso con Riyadh in Libano. La normalizzazione tra i due rivali può aiutare il Libano, ma non lo salverà. Il ministro degli esteri saudita Faisal bin Farhan ha riassunto così la situazione: “Quello di cui il Libano ha bisogno è una riconciliazione libanese”. Per riuscirci ci vorrà molto più della mediazione di Pechino. ◆ fdl
Anthony Samrani è vicedirettore del quotidiano L’Orient-Le Jour e opinionista di Internazionale.
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Questo articolo è uscito sul numero 1503 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati