Issam Abdallah faceva parte della generazione che è scesa in piazza contro il governo nel 2019. Quella che voleva farla finita con il Libano di prima, il Libano della guerra e delle milizie, dei compromessi al ribasso e del settarismo religioso. Il 13 ottobre il giornalista della Reuters è stato ucciso da colpi israeliani diretti contro la regione di Alma al Shaab, nel sud del Libano. Nei video si vede un gruppo di giornalisti chiaramente identificabili e nient’altro all’orizzonte. Nulla che potesse giustificare che il luogo fosse preso di mira, se non la presenza di questi soldati dell’informazione, sei dei quali sono rimasti feriti. Israele è in grado di puntare dei bersagli in movimento con una precisione formidabile, come ha dimostrato più volte in Siria negli ultimi anni. Si può credere a una svista? Sembra poco probabile dato che lo stato ebraico ha seri precedenti in materia. Secondo l’ong statunitense Committee to protect journalists, tra il 2000 e il 2022 Israele ha ucciso venti giornalisti palestinesi. Dall’inizio dell’operazione israeliana su Gaza ne sono stati uccisi altri dieci.

Hezbollah ha reagito duramente alla morte di Issam Abdallah, accusando Israele e denunciando “la parzialità e la cecità dell’Onu, della sua forza nel sud del Libano (Unifil), della Casa Bianca, della Reuters e di molti altri mezzi d’informazione che hanno consapevolmente evitato di citare il responsabile”. Sull’onda dell’emozione si potrebbe quasi dimenticare che Hezbollah è accusato di aver ucciso molti intellettuali, giornalisti e politici negli ultimi vent’anni.

Tutti questi fatti tragici riassumono bene quello che è diventato il Libano nel 2023: un non-stato in un non-paese, che dichiara guerra agli omosessuali e ai rifugiati siriani, ma la cui piccolezza emerge quando si tratta di prendere una decisione o almeno di impedire a Hezbollah di decidere se entrare in guerra (vera, questa volta) contro l’esercito più potente della regione, appoggiato dall’esercito più potente del mondo.

Con chi prendersela

Nella sciagura, quello che sta succedendo ha almeno un merito: dipingere un quadro del Libano, spogliato di tutti i fronzoli, nella sua verità più cruda e crudele. Non conta più nulla, né il governo farsa, il cui primo ministro uscente ammette la sua impotenza di fronte al rischio di una guerra; né la sedicente opposizione, che passa il tempo a fare a gara a chi critica di più Hezbollah ma nel momento più importante assiste da spettatrice mentre il partito-milizia prende in ostaggio un intero paese; né i calcoli astrusi e discutibili degli uni e degli altri, troppo occupati a difendere i loro piccoli interessi per evitare che il Libano precipiti verso l’abisso.

Siamo tra il martello israeliano e l’incudine di Hezbollah. E in questa trappola infernale non abbiamo né stato né statisti a proteggerci.

Sarà l’ayatollah iraniano Ali Khamenei, dietro consiglio del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e di altre eminenze grigie, a stabilire se il Libano sarà o meno distrutto per la “causa iraniana” nelle prossime settimane. E noi ci piangeremo addosso per la nostra sorte, invocando la storia e la geografia, accusando l’occidente e gli arabi di averci abbandonato, insultando Israele che non avrà alcuna pietà per il Libano. Ma possiamo prendercela solo con noi stessi. Perché siamo stati noi libanesi, per paura o per opportunismo, ad aver consegnato il paese a Hezbollah. E siamo noi che accettiamo oggi di lasciargli decidere la nostra sorte senza reagire. ◆ fdl

Anthony Samrani è il direttore del quotidiano libanese L’Orient-Le Jour.

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Questo articolo è uscito sul numero 1534 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati