L’estate è stata particolarmente complicata per l’autoproclamato asse della resistenza (libanesi, palestinesi, siriani e altri gruppi sostenuti dall’Iran ostili a Israele). La sua capacità di deterrenza è stata intaccata. Le vittorie tattiche di Israele diventano sempre più difficili da sopportare. E le prospettive strategiche cominciano a farsi più fosche.
Certo, è soprattutto una questione di percezione. La guerra a Gaza è cominciata ormai da quasi undici mesi e nel frattempo le dinamiche si sono evolute, e in alcuni casi anche capovolte. Il conflitto è tutt’altro che finito e nessuno oggi può dire che aspetto avrà il Medio Oriente una volta concluso questo ciclo di violenza.
L’attacco condotto dalla Repubblica islamica contro Israele il 13 aprile scorso non ha ottenuto l’effetto sperato. E quello di Hezbollah probabilmente avrà la stessa sorte
Gli iraniani sono campioni di pazienza e possono pensare che nessuno dei colpi finora subiti sia determinante se non mette a repentaglio i due pilastri della loro politica estera: la rete di milizie e il programma nucleare. Tuttavia, anche per il più fanatico seguace dell’asse sarebbe difficile non riconoscere che la situazione è degenerata. Il doppio omicidio del comandante di Hezbollah Fuad Shukr e del leader di Hamas Ismail Haniye, a Beirut e a Teheran, ha riportato in vantaggio Israele. Lo stato ebraico può eliminare i quadri della “resistenza” quando vuole, e senza subire gravi ritorsioni.
Gli iraniani hanno rinviato la loro risposta militare, forse ci hanno perfino rinunciato. E l’operazione condotta da Hezbollah nella notte tra il 24 e il 25 agosto non sembra in grado di ripristinare la capacità di deterrenza del gruppo. Il suo leader Hassan Nasrallah potrà anche dichiarare che l’attacco è stato un successo, ma è difficile credergli. Nasrallah ammette tra l’altro che lui stesso ora “aspetta di vedere se i risultati sono soddisfacenti”. Tradotto: se questo basterà a dissuadere Israele dal considerare il Libano, compresi i sobborghi meridionali di Beirut, una nuova Siria, un campo su cui poter agire a piacimento.
L’asse è in una situazione di stallo. È caduto nella sua stessa trappola. Non riesce a scoraggiare azioni militari senza rischiare uno scontro diretto (che vuole assolutamente evitare) con Israele e Stati Uniti. L’attacco condotto dalla Repubblica islamica contro lo stato ebraico il 13 aprile scorso non ha ottenuto l’effetto sperato. E quello di Hezbollah probabilmente avrà la stessa sorte. Se si vuol credere alla versione israeliana, si sarebbe trattato addirittura di un fallimento. Tel Aviv conosceva i dettagli e i suoi attacchi preventivi ne hanno limitato la portata.
Hezbollah può dire di non aver usato i missili a lunga gittata e che l’obiettivo dell’operazione era dimostrare che può colpire un bersaglio vicino a Tel Aviv. Ma l’attacco mette soprattutto in luce i limiti dell’asse. L’Iran non è a suo agio nello scontro diretto, perché il suo arsenale è piuttosto limitato. Hezbollah ha più possibilità, ma è anche più esposto. Al contrario di quanto aveva dichiarato, non è affatto pronto a una guerra totale.
Benjamin Netanyahu potrebbe essere tentato di approfittarne per guadagnare terreno, colpendo obiettivi nel sud del Libano, nella valle della Beqaa e forse anche, in via straordinaria, nei sobborghi meridionali di Beirut. Più questa guerra continua, più il governo israeliano sposta il limite dell’ammissibile. E più lo fa, più è difficile per l’asse, e soprattutto per Hezbollah, ristabilire le regole sul campo.
Lo stallo è aggravato dal fatto che per l’Iran e i suoi alleati le prospettive di uscire dalla crisi si affievoliscono. Non possono accettare un cessate il fuoco a Gaza che permetta agli israeliani, in un secondo momento, di riprendere l’offensiva contro l’enclave. Ma che alternativa hanno?
Il tempo gioca a favore di Netanyahu. Il suo partito, il Likud, è in testa ai sondaggi. La pressione internazionale ha avuto un peso scarso. Un’eventuale vittoria di Donald Trump alle presidenziali statunitensi lo rafforzerebbe. E nel frattempo il leader israeliano può portare a casa nuovi successi militari sia a Gaza sia nel sud del Libano. Solo una decisa presa di posizione degli Stati Uniti potrebbe ribaltare la situazione. Netanyahu ha capito che l’asse farebbe di tutto per evitare lo scontro totale, e questo lo lascia libero di condurre tutte le guerre di logoramento che vuole.
Gli insuccessi dell’asse iraniano, tuttavia, non sono sinonimo di una vittoria israeliana. Lo stato ebraico non ha soluzioni credibili sul lungo periodo per Gaza, il Libano meridionale, la Cisgiordania e la questione del nucleare iraniano.
Ecco perché la fine di questo conflitto, qualunque sarà l’esito dei negoziati in corso al Cairo, che nel migliore dei casi potrebbero portare a una tregua di media durata, è ancora lontana. Anche se stavolta per fortuna si è evitata l’escalation, probabilmente la guerra finirà solo se ci sarà un grande sconvolgimento strategico nella regione. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1578 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati