Tutto si svolge come se non fosse cambiato nulla. Bruno Vespa, ottant’anni, di cui 62 passati nella tv pubblica, domina il suo regno. A sinistra del conduttore siedono degli ospiti che sostengono i partiti di destra, alla sua destra degli ospiti che appoggiano quelli di sinistra e del centro.
Porta a porta è uno dei programmi più importanti della Rai e va in onda in seconda serata dal martedì al giovedì. Questa sera è stato visto da più di 400mila persone. In onda dal 1996, è definito la “terza camera del parlamento”. All’indomani delle elezioni europee del 9 giugno 2024 si commenta la vittoria della presidente del consiglio di estrema destra Gorgia Meloni, presentata come una leader ormai imprescindibile.
Vespa, volto eterno della televisione italiana, è un uomo di relazioni sopravvissuto a tutte le alternanze. Nella labirintica geografia del potere romano è a una telefonata di distanza da qualsiasi ministro, star dello spettacolo, persona d’affari o cardinale.
Ha saputo tessere la sua tela con il governo attuale (come con i precedenti), al contrario di altri nomi importanti che hanno preferito fare i bagagli quando sono cominciate a piovere le accuse di un controllo dell’ estrema destra sulla Rai.
Retorica nazionalista
In studio si passa a parlare dello scioglimento del parlamento in Francia, sullo sfondo appare una schermata del sito di Le Monde. Vespa ne approfitta per cambiare argomento: “Un collega di Le Monde è nostro ospite. Sono venuti a vedere com’è la Rai durante il governo di Giorgia Meloni, perché le voci sono molto inquietanti, come sapete. E abbiamo cercato di tranquillizzarli, non vediamo questo spettro della censura. Volete fare un governo autoritario?”, chiede ironico a Giovanni Donzelli, deputato e dirigente di Fratelli d’Italia, il partito guidato da Meloni.
Donzelli nega qualunque censura e attribuisce i dubbi di Le Monde a un’opposizione impegnata a “parlare male dell’Italia all’estero”. Chiara Braga, del Partito democratico, ricorda che i vertici Rai hanno cancellato la messa in onda di un discorso dello scrittore Antonio Scurati che criticava Meloni per il suo rifiuto di dirsi antifascista. Vespa riprende la parola per dire che si sarebbe dovuto dare voce anche a un intellettuale di destra.
Braga gli chiede se l’eredità antifascista è solo di sinistra. Alla fine Vespa afferma che in realtà si trattava di un attacco dello scrittore contro Meloni, mascherato da catechismo repubblicano. Le voci si alzano. L’ultima parola ce l’ha Donzelli, che critica la sua avversaria accusandola di avere “la pretesa di dare delle patenti di democraticità”.
Tra riferimenti a una storia mal digerita e a una retorica nazionalista, lo scontro è sintomatico di una crisi in corso nella Rai trasformata in campo di battaglia. La classe dirigente di estrema destra presenta la sua “nuova narrazione nazionale” per togliere alla sinistra uno dei suoi bastioni storici. L’opposizione parla di “Tele-Meloni”. A destra invece si parla di ritorno al pluralismo.
Prima della trasmissione, quando gli ho chiesto come andava la Rai, Vespa ha risposto con un grande sorriso: “Sono qui da mezzo secolo. Se sono sopravvissuto io allora non bisogna preoccuparsi per la Rai!”. Per lui “il parlamento è il caporedattore della Rai e la maggioranza ha sempre esercitato la sua influenza sulle nomine: la Rai è sempre stata culturalmente condizionata dalla sinistra, anche durante il periodo di Berlusconi. Per la prima volta un governo è riuscito a rompere questo tetto di cristallo. Di fatto adesso abbiamo un maggiore pluralismo”.
La Rai non è solo un gruppo radiotelevisivo, ma è una vera e propria istituzione della repubblica. Nata nel 1954 ha accompagnato l’Italia del dopoguerra nelle sue trasformazioni. È cresciuta insieme alla repubblica e, come lei, potrebbe essere a un punto di rottura.
Funzione educativa
Per capire il suo ruolo nella vita e nella memoria degli italiani bisogna andare a Torino. In centro c’è un edificio la cui architettura ricorda i momenti di splendore della radiotelevisione pubblica. Sulla facciata campeggia la sigla Rai, con caratteri tipici degli anni settanta. All’interno c’è un piccolo museo dove ci si può muovere tra gli archivi audiovisivi, le radio d’epoca che ripetono la dichiarazione di guerra del 1939 e le scenografie di programmi per bambini. Una tastiera collegata a cinque schermi permette di viaggiare nel tempo. Si preme un pulsante ed ecco il programma Non è mai troppo tardi, lanciato nel 1960 per combattere l’analfabetismo degli adulti, ancora alto nei decenni del dopoguerra. La lavagna nera era il simbolo di una Rai con scopi educativi che ha imposto l’italiano sui dialetti. Una Rai creatrice di una cultura nazionale attraverso gli adattamenti di grandi opere letterarie, come L’idiota di Dostoevskij nel 1959 o Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi nel 1972. Un altro pulsante e ci si ritrova nel 1958. Domenico Modugno canta Nel blu, dipinto di blu, colonna sonora del miracolo economico, sul palcoscenico del festival di Sanremo. Il festival della canzone italiana, trasmesso dalla Rai, ancora oggi riunisce il paese in un fervore simile a quello dei mondiali di calcio.
“Gli italiani la chiamano ‘Mamma Rai’”, spiega Alberto Allegranza, direttore del museo. “Questa istituzione rappresenta al tempo stesso il grembo materno, la casa, l’autorità e una figura rassicurante”. La Rai ha accompagnato le mode e fatto da tramite tra il popolo e le élite. Ha modellato e unificato il paese, a tal punto che Pier Paolo Pasolini l’ha accusata negli anni settanta di “genocidio culturale” a danno delle tante identità locali.
La Rai ha avuto certamente un ruolo educativo, ma come le altre istituzioni della repubblica è sempre stata anche un luogo di potere. La sua antenata, l’Unione radiofonica italiana, nacque nel 1924, sotto il fascismo, come organo di propaganda. La Rai è nata sotto la Democrazia cristiana (Dc), il partito dominante nel dopoguerra. Poi la Dc apre il secondo canale ai socialisti nel 1975, prima che i comunisti arrivino sulla terza rete nel 1979. Un partito, una rete. Questa divisione dei canali e dei posti è chiamata lottizzazione. Un termine preso in prestito dal vocabolario della speculazione edilizia, che nello stesso periodo sta devastando il paesaggio italiano.
Ed è proprio un imprenditore del settore immobiliare a cambiare radicalmente il panorama televisivo: Silvio Berlusconi lancia la tv privata negli anni ottanta. Dai suoi programmi trasuda un edonismo apolitico accolto con favore dopo la violenza degli anni di piombo. “La società aveva bisogno di leggerezza. Berlusconi ha mostrato la strada e la Rai ha seguito l’esempio”, ricorda il fotografo Stefano De Luigi, che ha documentato questa evoluzione nella mostra Televisiva. All’inizio degli anni novanta il sistema dei partiti crolla in seguito a numerosi casi di corruzione, ma la Rai non si emancipa dalla politica.
“La Rai è diventata un grande mercato dove i politici si scambiano influenza, reputazione, immagine, posti, stipendi e contratti per le aziende di produzione. E allo stesso tempo è un servizio pubblico”, spiega un dirigente che ha preferito restare anonimo. E come lui hanno fatto tutti i lavoratori dell’azienda che abbiamo contattato, di destra e di sinistra, segno di un certo livello di tensione al suo interno.
La riforma voluta dal governo di Matteo Renzi nel 2015 ha formalizzato le relazioni incestuose tra la Rai e il potere. Stabilisce che sia il governo a nominare il presidente e l’amministratore delegato. Due componenti del consiglio d’amministrazione sono designati dal senato, altri due dalla camera dei deputati e uno dall’assemblea dei dipendenti. Questa politicizzazione investe tutta la catena gerarchica.
Una rivoluzione culturale
Al cambiare delle maggioranze la Rai ha oscillato da un lato all’altro dell’arco parlamentare, anche se un substrato di sinistra è rimasto dominante. È del tutto logico quindi che Giorgia Meloni, una volta arrivata al governo nell’ottobre 2022, abbia voluto imporre la sua influenza. Ma la presidente del consiglio vuole qualcosa più di un’alternanza. Vuole una rivoluzione culturale e si è impegnata a nominare le persone che dovranno portarla a termine.
La nuova dirigenza della Rai ha fatto fuggire i nomi più famosi
Uno dei suoi compagni di strada, l’intellettuale Giampaolo Rossi, 58 anni, è stato nominato nel maggio 2023 direttore generale. Sostenitore di Vladimir Putin e di Donald Trump, è scettico sui vaccini e combatte il “nuovo ordine mondiale” e colui che considera uno dei suoi rappresentanti, il miliardario George Soros.
Il posto di direttore del settore intrattenimento day time è stato affidato ad Angelo Mellone, 51 anni, scrittore ed ex militante delle organizzazioni giovanili neofasciste. Paolo Corsini, 56 anni, è stato nominato direttore dei programmi di approfondimento. “Stiamo vincendo la battaglia delle parole”, si era rallegrato nel 2023 durante la festa di Fratelli d’Italia, ricordando il suo passato di militante nell’organizzazione giovanile del partito, responsabile dell’evento. Si era poi scusato, dopo che dall’opposizione avevano denunciato la sua mancanza d’indipendenza.
A giugno un’inchiesta del sito di informazione Fanpage ha rivelato che in questa organizzazione politica il razzismo, l’antisemitismo e un certo folclore fascista sono ancora molto presenti tra i giovani. “Meloni privilegia i suoi compagni di lotta, gli unici a cui dà fiducia”, spiega Alessandra Ravetta, direttrice della rivista Prima Comunicazione, che si occupa del mondo dell’informazione.
La nuova dirigenza della Rai ha fatto fuggire i nomi più famosi. Nella primavera del 2023 è andato via il conduttore televisivo di centrosinistra Fabio Fazio, anche se la sua trasmissione Che tempo che fa, in cui ha ospitato Michail Gorbačëv, Barack Obama e il papa Francesco, aveva ottimi ascolti. “La Rai ha messo fine ai negoziati sul rinnovo del suo contratto. Matteo Salvini voleva la sua testa e Meloni gliel’ha concessa”, racconta una fonte a conoscenza della vicenda.
“Se sei popolare e di sinistra, fai paura”, spiega un dirigente. “È così che interi settori del servizio pubblico passano alla concorrenza”.
Potere invadente
Tra le altre perdite importanti negli ultimi anni si conta quella di Amadeus, conduttore di Sanremo, che secondo alcune indiscrezioni è stato assunto dal gruppo Discovery per diversi milioni di euro. Sotto la sua guida le recenti edizioni del festival hanno battuto i record di ascolto, in particolare con i 14,3 milioni di telespettatori della serata finale del 10 febbraio 2024. Ma sono anche state edizioni con un carattere molto politico, perché gli ospiti a Sanremo si sono mostrati spesso progressisti e più in sintonia con i tempi. Del resto è stato dopo l’edizione del 2023 che il sottosegretario alla cultura ed ex sovrintendente all’organizzazione del festival di Sanremo, Gianmarco Mazzi, aveva chiesto di “modificare la narrazione del nostro paese” in un senso più conservatore, per protestare contro le prese di posizione degli artisti. Anche se nel 2024 il tono del festival è stato più moderato, Amadeus ha preferito comunque andare via e la Rai non l’ha trattenuto.
Le persone vicine a Meloni avevano preso di mira la Rai già prima di arrivare al governo. Durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 2022, Federico Mollicone, uno degli intellettuali organici della destra meloniana, aveva chiesto alla Rai di non trasmettere un episodio del cartone animato Peppa Pig perché un personaggio aveva genitori omosessuali. L’arrivo dell’estrema destra ai posti di comando ha innescato una lunga serie di accuse di censura. Nel luglio 2023 una di queste ha riguardato Roberto Saviano, l’autore del best seller mondiale Gomorra e oppositore del governo Meloni: dopo che aveva criticato Salvini, la Rai ha sospeso il programma sulla mafia che lo scrittore avrebbe dovuto condurre la stagione successiva.
Domenica 11 febbraio il programma Domenica in è stato a sua volta al centro delle polemiche quando, in risposta a un appello per “fermare il genocidio” a Gaza – lanciato il giorno prima al festival di Sanremo da Ghali, rapper italiano di origine tunisina – la conduttrice Mara Venier ha letto un comunicato di sostegno a Israele e ha interrotto il cantante Dargen D’Amico che cercava di dire la sua opinione sull’accoglienza dei migranti. Secondo alcuni dipendenti Rai, si è trattato di una forma di autocensura.
In aprile il caso Scurati ha fatto esplodere le tensioni. Invitato a parlare sul set del talk show Chesarà, per l’anniversario della liberazione, il 25 aprile 1945, dal nazismo e dal fascismo, l’autore di alcuni famosi romanzi su Mussolini aveva preparato un testo in cui accusava il governo di non essere antifascista. Il suo intervento è stato annullato, ma la conduttrice Serena Bortone ha letto lo stesso il testo durante il programma.
Di fronte al clamore suscitato Meloni ha pubblicato sul suo account di Facebook il discorso integrale, per provare che non c’era stata nessuna forma di censura ai danni dello scrittore. Troppo tardi.
L’opposizione ha parlato di censura e sono emerse testimonianze sul precedente annullamento di interventi sulle violenze della polizia o sull’aborto. Il 2 luglio Serena Bortone è stata punita con sei giorni di sospensione per aver letto il testo di Scurati.
All’inizio della campagna per le elezioni europee Giorgia Meloni ha attaccato direttamente la trasmissione Report. Il programma d’inchiesta si era occupato dell’accordo tra Roma e Tirana su due centri di detenzione in Albania per i migranti soccorsi dalle autorità italiane in acque internazionali.
Durante un comizio la presidente del consiglio ha accusato la trasmissione di aver “linciato” il presidente albanese Edi Rama “per aver cercato di aiutare la nostra nazione”. A sua volta Rama si era lamentato con la Rai per l’inchiesta, ma aveva finito per ricevere i giornalisti italiani.
L’8 luglio una nuova polemica è nata a proposito del ridotto spazio riservato dalle reti Rai ai risultati delle elezioni politiche francesi. In particolare la rete d’informazione RaiNews24 è stata accusata di aver aperto il tg delle dieci di sera con un reportage sul festival Città identitarie, un evento pensato da intellettuali e giornalisti di destra, invece di dedicare l’apertura al ballottaggio in Francia, dove la sinistra era in testa.
“La pressione è senza precedenti”, afferma Daniele Macheda, segretario del sindacato dei giornalisti della Rai, Usigrai. “C’è un atteggiamento invadente del potere nei confronti dell’autonomia del servizio pubblico”. Anche se il tg di Rai 1 ha sempre sostenuto chi era al governo, fonti interne descrivono oggi uno zelo mai visto, mentre il canone di abbonamento è sceso da 90 a 70 euro limitando l’autonomia finanziaria della Rai. In risposta a questi cambiamenti i giornalisti della Rai hanno organizzato il 6 maggio uno sciopero per denunciare il “controllo pervasivo degli spazi di informazione da parte della politica”.
Con la destra sono arrivati programmi che esaltano il paese e il suo territorio
Pene più severe
Anche all’esterno la situazione non sembra migliore. Il giornale di opposizione Domani ha subìto una perquisizione in seguito a delle inchieste giornalistiche su alcune persone del governo. E ora una proposta di legge sostenuta dal partito di Meloni prevede il carcere per i giornalisti che diffondono notizie false a mezzo stampa. Inoltre l’agenzia giornalistica Agi (Agenzia giornalistica Italia) rischia di essere comprata dal deputato della Lega Antonio Angelucci.
“Si vedono delle analogie con l’Ungheria e la Slovacchia. Di fatto il settore radiotelevisivo pubblico è uno dei principali obiettivi dei governi illiberali, che l’indeboliscono o se ne servono come strumento di propaganda”, osserva Renate Schroeder, direttrice della Federazione europea dei giornalisti. Nel 2024 l’Italia ha perso cinque posizioni nella classifica di Reporters sans frontières sulla libertà di stampa nel mondo, scendendo alla 46a posizione.
La situazione italiana ha attirato l’attenzione anche di Bruxelles. In un rapporto pubblicato alla fine di luglio, la Commissione europea ha affermato che in Italia la libertà di stampa è a rischio. Nonostante i discorsi in difesa del pluralismo dell’informazione, pronunciati dal presidente della repubblica Sergio Mattarella, garante dei valori repubblicani, nulla sembra poter fermare Meloni.
Controllare la Rai, ma per fare cosa? La destra meloniana ha un’ambizione culturale che viene da lontano. Meloni ha recentemente definito il Fronte della gioventù, l’organizzazione dei giovani dell’Msi di cui ha fatto parte, un “mondo minoritario” costretto a difendersi. E ora aspira a formare un grande partito conservatore e a governare a lungo per trasformare l’Italia. Per questo vuole costruire una nuova “egemonia culturale”, imporre una nuova visione del mondo. Vecchia ambizione di un ambiente intellettuale neofascista influenzato dalla destra francese fin dagli anni ottanta. Il concetto è paradossalmente preso in prestito dal pensiero del filosofo comunista italiano Antonio Gramsci, morto nel 1937 nelle prigioni fasciste. Il suo principio è semplice: legittimare attraverso la cultura la visione del potere per assicurarsi il consenso dei cittadini, declinandolo in questo caso in un disegno nazionalista e conservatore.
“Se oggi si facessero votare i giornalisti della Rai, la sinistra vincerebbe e il risultato non rappresenterebbe il paese”, sostiene un responsabile di destra arrivato con il governo Meloni, che afferma di aver letto “tutto Gramsci” e che vuole mantenere l’anonimato. Ci sarebbe quindi “un’asimmetria culturale” a cui bisogna rimediare grazie a questa famosa “nuova narrazione” nazionale. “Ci vogliono meno promozione delle comunità lgbt e più contenuti favorevoli alla tradizione familiare”, raccomanda il dirigente Rai, citando l’emergenza demografica che tanto preoccupa la presidente del consiglio.
I personaggi trascurati
L’attenzione delle reti pubbliche, secondo la “nuova narrazione”, dovrà anche andare oltre le grandi città per spostarsi verso i piccoli paesi dimenticati, i cui abitanti sarebbero considerati dalla sinistra urbana come dei “cittadini di serie b”. Un altro punto importante è “l’orgoglio nazionale”, per “insegnare agli italiani ad amare quello che siamo e per ricordargli che l’Italia non è nata nel 1946 con la repubblica”. Di conseguenza più fiction biografiche su grandi personaggi italiani trascurati dalla tradizione repubblicana, più attenzione alla cultura locale, ai territori e alle “eccellenze” italiane in materia di artigianato, industria e gastronomia, che sono diventati i cavalli di battaglia del nuovo racconto nazionale.
Ai vertici della Rai si pensa che questi temi siano stati trascurati e che valga la pena, in un contesto culturale cambiato, valorizzare i successi dell’Italia ottenuti grazie a Meloni, considerata al centro dei giochi europei.
Restare anonimi
Anche la scelta delle priorità e delle parole deve cambiare, l’emergenza non è più ambientale ma migratoria, e bisogna mettere in evidenza la politica del governo italiano nei confronti dell’Africa per controllare i flussi. Per quanto riguarda l’informazione si possono “presentare le cose in modo diverso”, si osserva alla Rai. Così le morti sul lavoro potrebbero essere trattate come fatti di cronaca invece che come problemi strutturali della società.
Le trasformazioni in corso nella tv pubblica sono una rivincita per alcuni e una grande fortuna per altri. I nuovi equilibri sono descritti da alcuni responsabili come fattori capaci di promuovere professionisti che non sono di sinistra. Il cambiamento deve essere profondo e non interessare solo alcune persone. A questo scopo la destra può contare su talenti convinti di essere stati trattati in passato come “pecore nere”. Ora questi giornalisti e autori possono fare affidamento su un sindacato di destra, UniRai, creato nel novembre 2023 e in sintonia con le linee direttrici del governo.
“Il nostro sindacato è nato grazie al clima che si respira dopo la vittoria della destra il 25 settembre 2022”, sintetizza il segretario generale Francesco Palese. “Molte persone in disaccordo con il pensiero dominante hanno trovato il coraggio di manifestarsi dopo anni in cui la sinistra ha fatto il bello e il cattivo tempo”. Secondo il giornalista “si è aperta un’epoca che vedrà la liberazione della cultura e dell’informazione. Anche se la sinistra, sedimentata da decenni nel potere, resiste”. Palese crede in una “maggioranza silenziosa conservatrice che vuole vedere valorizzata la tradizione”.
Le lingue si sciolgono. In aprile Incoronata Boccia, vicedirettrice del Tg1 e stella in ascesa della destra televisiva, ha affermato che l’aborto non è un diritto ma “un delitto”, suscitando polemiche e l’indignazione dell’opposizione.
E i contenuti evolvono. Dopo l’arrivo dell’estrema destra al potere hanno debuttato programmi che esaltano il paese e il suo territorio. C’è stata una serie televisiva su Goffredo Mameli (1827-1849), autore delle parole dell’inno italiano, segno di una riappropriazione dei simboli nazionali; sono stati trasmessi programmi su alcune figure storiche come il poeta nazionalista Gabriele D’Annunzio (1863-1938) o lo scrittore Tommaso Marinetti (1876-1944), due precursori del fascismo. Ma altri tentativi sono falliti per mancanza di pubblico. In altre parole, è difficile trovare il materiale per riscrivere questa “narrazione nazionale”.
L’obiettivo per la prossima stagione è doppio: da un lato promuovere la fiction storica, con un contenuto “metapolitico” in grado di influire sull’immaginario nazionale, per riprendere un termine caro all’estrema destra; dall’altro la direzione della Rai vuole favorire i programmi d’inchiesta, per esempio con una versione di destra di Report, invece di puntare sulle “chiacchiere” dei talk show. I massimi dirigenti del gruppo spiegano che l’obiettivo è studiare cos’ha fatto la sinistra per poi arrivare a un cambiamento graduale, meno traumatico. Così lo scrittore Roberto Saviano ha ritrovato il suo posto nei palinsesti della prossima stagione.
Il problema è che gli ascolti dei programmi Rai sono calati. Nel 2023 sono scesi a una media del 37 per cento, superati da Mediaset, il gruppo della famiglia Berlusconi, che ha raggiunto il 37,5 per cento. “I dirigenti si sono resi conto di aver perso il pubblico e che non avrebbero dovuto lasciar partire i grandi nomi”, spiega una figura della destra culturale, compagna di strada di Meloni. Quest’uomo, che intrattiene strette relazioni con la direzione Rai, assicura che i vertici dell’azienda pubblica ormai s’interrogano sull’opportunità di “una grande sostituzione culturale”.
Nella cerchia dei dirigenti Rai si ammette che la costruzione di una “contro-narrazione” non è semplice. Di fatto sono venute meno le competenze intermedie. Per Roberto D’Agostino, giornalista, regista e fondatore di Dagospia, un sito d’informazione specializzato in indiscrezioni, “la destra non ha le truppe necessarie per portare a termine il progetto di ‘egemonia culturale’”.
Fa la stessa constatazione un grande nome del settore televisivo che ha voluto restare anonimo: “La destra ha voglia di rivincita, ma Meloni non ha avuto bisogno di dominare dal punto di vista culturale per vincere le elezioni. Il guadagno politico del ‘cambiamento di narrazione’ è inesistente”. In Rai ci sono anche voci moderate che rifiutano di opporsi ai cambiamenti in corso e secondo cui gridare al lupo fascista non ha senso e sarebbe addirittura controproducente se la minaccia diventasse più concreta.
Ma chi si preoccupa per l’evoluzione della Rai osserva che questo cambiamento arriva in un contesto molto particolare. Il governo guidato da Meloni si è lanciato in una riforma delle istituzioni ora all’esame del parlamento. Una riforma che prevede il rafforzamento del capo del governo, un ridimensionamento del presidente della repubblica, e la fine del parlamentarismo, ereditato dalla costituzione del 1948, a sua volta frutto della resistenza antifascista. Il partito di Meloni non si riconosce in questa eredità.
L’opposizione parla di deriva autoritaria. Gli intellettuali della sinistra e alcuni nomi importanti del giornalismo Rai vedono un rapporto molto stretto tra questa volontà di trasformare in profondità le istituzioni e i cambiamenti in corso nel settore radiotelevisivo pubblico.
Intanto nello studio di Porta a porta le telecamere si sono spente. Gli invitati chiacchierano. Chiedo a Vespa, il giornalista che ha visto e saputo tutto degli ultimi sessant’anni della politica italiana, se nel paese c’è una deriva autoritaria. Il giornalista sembra sgomento: “In Italia? Ma scherza? Assolutamente no!”. Ma questa destra meloniana non sta forse cambiando l’Italia? Vespa distoglie lo sguardo: “Sta cominciando”. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1578 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati