All’improvviso tutto ha accelerato e ha cominciato a sembrare così fragile. E tutto è diventato possibile. Il terremoto del 7 ottobre 2023 ha scosso l’intera regione. L’onda d’urto non è stata istantanea. Ma più le settimane passavano, più le ondate si facevano forti, e più ci siamo resi conto di quanto appropriato fosse il nome dato da Hamas all’operazione: “Diluvio di Al Aqsa”.
Per alcuni mesi gli attentati del 7 ottobre hanno rappresentato una frattura simbolica, ma non strategica, per il Medio Oriente. Non c’è stata una ripresa del processo di pace israelo-palestinese. Non è stata messa in discussione la pace di paesi come Emirati Arabi Uniti o Marocco né la tregua di Egitto e Giordania con Israele. La posta in gioco era la sopravvivenza di Hamas nell’enclave palestinese e l’isolamento diplomatico che lo stato ebraico era pronto a subire per raggiungere i suoi obiettivi. Poi il 13 aprile l’Iran ha condotto per la prima volta nella sua storia un attacco diretto contro il suo nemico principale. E il conflitto ha assunto un’altra dimensione. La guerra tra Israele e Iran è uscita dall’ombra. E qualche mese dopo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu annunciava, per l’ennesima volta nella storia della regione, l’instaurazione di un “nuovo Medio Oriente”.
Il cessate il fuoco in Libano non è la fine della guerra ma l’inizio di una nuova fase, che può portare a scenari un anno fa impensabili
Oggi ci siamo dentro. Un castello di carte sta crollando in modo violento, mentre continuano ad agire cambiamenti più profondi. Il sisma del 7 ottobre non ha ancora prodotto tutti i suoi effetti. Non abbiamo idea di quanto ci vorrà perché la regione lo digerisca, né delle turbolenze o perfino degli stravolgimenti che provocherà. Ma nessuno, con diversi gradi d’intensità, ne sarà risparmiato. Né Israele né i palestinesi né il Libano né la Siria né l’Iraq né la Giordania né l’Egitto né l’Iran né l’Arabia Saudita né la Turchia né i gruppi islamisti sciiti né i gruppi islamisti sunniti né i jihadisti né la generazione delle primavere arabe.
La volontà israeliana di rompere l’asse iraniano in un contesto regionale così fragile e in un ordine internazionale incerto rimescola tutte le carte. Come annunciato, il cessate il fuoco in Libano non è la fine della guerra ma l’inizio di una nuova fase, che può portare a numerosi sviluppi fino a un anno fa considerati improbabili. Tutti i leader regionali hanno motivo di tremare perché nessuno, compreso Netanyahu, può controllare la tempesta in corso.
Il presidente siriano Bashar al Assad esibiva un grande sorriso quando, nel maggio 2023, ha fatto il suo ritorno nella Lega araba. Aveva vinto la guerra vendendo la sovranità alla Russia e all’Iran. Aveva schiacciato la rivolta grazie a questi alleati. L’uomo di cui nel 2011 si annunciava la caduta dimostrava che il tempo era il suo migliore alleato e che il mondo intero, nel nome del realismo, avrebbe finito per dimenticare tutti gli orrori commessi.
Poi il leader di Hamas Yahya Sinwar, incoraggiato o no dai suoi alleati iraniani, ha deciso di far saltare tutti gli argini. Il suo alleato siriano ha fatto di tutto per evitare di essere trascinato dall’alluvione, dopo gli avvertimenti di Tel Aviv che fin dal primo giorno ha minacciato di farlo saltare se avesse mosso un dito. Assad ha abbandonato quelli che lo avevano salvato ed è sparito nel momento in cui Hezbollah e l’Iran avevano più bisogno di lui. Ma non è bastato. La scossa è stata troppo forte, e la sua fortezza è troppo fragile. E il dittatore – che “non ha mai perdonato Hamas per aver sostenuto un tempo la rivoluzione”, secondo le confidenze di un dirigente di Hezbollah – è ripiombato anni indietro, all’epoca in cui la sopravvivenza del suo regime era minacciata. Senza poter contare stavolta sul soccorso di Hezbollah e dell’Iran.
Dai gruppi jihadisti ai lealisti, dagli Stati Uniti all’Iran, nessuno sembra in grado di controllare il territorio siriano
Il domino regionale ha il senso dell’ironia e della tragedia. L’attacco di Hamas ha spinto Hezbollah ad aprire un altro fronte con Israele, che ha portato all’assassinio del suo segretario Hassan Nasrallah e a un indebolimento senza precedenti della milizia filoiraniana in Libano e in tutta la regione. Il regime di Teheran è nudo, la Russia ha la testa impegnata in Ucraina e i ribelli e i jihadisti siriani, forse incoraggiati dalla Turchia, ne hanno approfittato per riprendere Aleppo, otto anni dopo esserne stati cacciati con la forza. La natura detesta il vuoto, in Medio Oriente ancor più che altrove. E con degli alleati indeboliti, la vittoria del presidente siriano si è mostrata alla fine per quello che era sempre stata: una menzogna. È illusorio pensare che la Siria possa essere stabilizzata finché ci sarà Assad.
Il terreno siriano, però, è troppo instabile per azzardare pronostici. Altre città e regioni potrebbero cadere, ma sembra precipitoso profetizzare la fine di un regime che può ancora contare sui bombardamenti russi, oltre che sulla paura suscitata dai jihadisti di Hayat Tahrir al Sham (Hts) presso le minoranze o le potenze occidentali e arabe. Il comportamento del gruppo, compreso quello nei confronti dei suoi alleati, sarà uno dei grandi temi delle prossime settimane. Ma oltre alla capacità di Mosca di sedare la ribellione, oppure di trattare con la Turchia, l’altra chiave per la sopravvivenza del regime siriano sembra essere nelle mani del tandem israelo-statunitense: come percepiscono gli eventi questi due paesi? Sono pronti a partecipare all’indebolimento o alla caduta di Assad, per far uscire la Siria dal girone iraniano? È tutto confuso: ne è una dimostrazione il recente incontro tra il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il leader degli Emirati Mohammed bin Zayed.
In Siria si gioca la continuazione di una guerra che non è mai finita, alla quale si è sovrapposta la volontà israelo-statunitense di spezzare l’asse iraniano in tutta la regione. Dai gruppi jihadisti e ribelli ai lealisti, dalla Turchia alla Russia, dagli Stati Uniti all’Iran, dalle forze armate curde ai paesi arabi, nessuno sembra in grado di controllare l’intero territorio siriano. Lo scenario più probabile potrebbe essere quindi quello di un’accelerazione della frammentazione del paese, già in atto da anni.
Il domino regionale non si fermerà. Con l’arrivo al potere di Donald Trump, nessuno potrà frapporsi ai piani israeliani per plasmare la regione. Tel Aviv non può governare o stabilizzare. La pax israeliana è un’illusione, la pax statunitense un fantasma del passato. Ma i due paesi possono cambiare le regole del gioco e obbligare tutti i protagonisti ad adeguarsi, non sul piano politico ma su quello militare.
Non si può escludere nulla. Con un Hezbollah indebolito e il sistema di difesa antiaereo iraniano distrutto, l’ipotesi di attacchi contro gli impianti nucleari del regime di Teheran diventa seria. Così come quella della sirianizzazione sul lungo termine del Libano e di una politica più aggressiva contro le milizie sciite asservite all’Iran in Iraq.
È tramontata l’epoca in cui l’asse iraniano era la forza più influente nella regione. Arretrerà ovunque. Ovunque sarà nel mirino del tandem israelo-statunitense. Non è dato sapere però fino a che punto questo si possa riflettere sulla realtà: tanto in Libano quanto in Iraq o in Siria, nessuno sembra pronto a prendere il posto dell’Iran. Benjamin Netanyahu e Donald Trump sono disposti a fare affidamento su qualcosa che non sia la forza? La loro politica del fatto compiuto può creare qualcosa di diverso dal caos?
L’Iran non è l’unico a doversi preoccupare. Come reagirà la Giordania se la Cisgiordania sarà annessa da Israele? Il regno hashemita riuscirà a scampare alla tempesta? E che farà l’Egitto, se la pulizia etnica a Gaza continuerà e l’amministrazione Trump farà pesare tutta la sua influenza per imporre al presidente Abdel Fattah al Sisi l’apertura della sua frontiera con l’enclave? E i paesi del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita? Il programma di sviluppo Vision 2030 di Mohammed bin Salman si fonda su una regione stabile. Come può essere realizzato in un contesto simile? Come può l’Arabia Saudita evitare gli scossoni di un’eventuale operazione israelo-statunitense in Iran?
L’ordine regionale è in trasformazione, in un momento in cui l’ordine internazionale sta mutando. Questa transizione potrebbe essere lunga e violenta. Tanto più che si sta compiendo in un momento in cui gli animi sono radicalizzati, con un ritorno possibile dell’odio confessionale tra sunniti e sciiti e la competizione tra progetti fondamentalisti, per esempio quelli israeliano, turco e iraniano.
E il Libano? Non potrà restare un’isola nel mezzo di una regione in fiamme. Non ha più gli strumenti per essere qualcosa di diverso da un semplice pedone in questa grande scacchiera. Ma può limitare i danni. Non per annegare in faide intestine, ma per comprendere che, a prescindere dai piani degli uni e degli altri, è l’unico rimedio ai suoi demoni. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1592 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati