Nel 1968, quando il giovane avvocato Kevin Phillips lavorava nell’ufficio sondaggi di Richard Nixon, sapeva che il suo ruolo non era solo studiare le intenzioni di voto alle presidenziali all’interno dei vari gruppi etnici per conto del comitato elettorale repubblicano. Come raccontò allo scrittore Garry Wills, la sua specialità era capire il “segreto stesso della politica: sapere chi odia chi”. L’anno successivo, dopo la vittoria di Nixon, Phillips si guadagnò la fama di enfant prodige della politica con il saggio The emerging republican majority (La maggioranza repubblicana emergente), un’analisi di quella che all’epoca era chiamata la “strategia del sud” del Partito repubblicano. L’elemento chiave consisteva nell’alimentare le tensioni razziali per strappare il voto dei bianchi al Partito democratico. “Numerose prove storiche e teoriche supportano la tesi che l’era democratica liberale sia finita e che ne sia cominciata una nuova di repubblicanesimo consolidato”, osservava Phillips. Il sud era dominato dai democratici da quando il partito si era aggrappato al suo ruolo di difensore del privilegio e del potere bianco alla fine della ricostruzione, il breve periodo successivo alla guerra civile in cui il governo degli Stati Uniti decise di percorrere la strada dell’equità razziale ed economica. Il dominio democratico, sosteneva Phillips, poteva essere sostituito da un’egemonia repubblicana cavalcando i temi dell’identità e del risentimento per mettere le diverse fasce della popolazione l’una contro l’altra, rendendo così meno centrali i programmi politici.

Nel suo libro Phillips spiegava come le intenzioni di voto degli statunitensi potevano essere “strutturate e analizzate” per rivelarne la logica. “Il miglior approccio al mutato allineamento degli elettori”, scriveva, “è un’analisi regione per regione volta a far emergere i molti conflitti tra le sezioni e le molte divergenze tra i gruppi”. Una serie di appelli razzialmente e socialmente polarizzanti, pronosticava, potevano spaccare i blocchi elettorali e cementare per generazioni il predominio dei conservatori, alimentato da quello che veniva descritto come uno spirito “di rabbia e contro-solidarietà bianca”. Anche se il suo libro oggi è considerato profetico, Phillips non ha inventato la politica del divide et impera; già un secolo prima, i democratici del sud proprietari di piantagioni avevano sfruttato queste tattiche a loro vantaggio, preparando il terreno per l’imposizione delle leggi a favore della segregazione razziale. Phillips, però, ha contribuito a professionalizzare questo metodo. La nostra società è ancora attraversata da una serie di conflitti e divergenze tra gruppi che una potente élite bipartisan sfrutta a proprio vantaggio, economicamente e politicamente. In questo è facilitata dai tanti commentatori di sinistra che sostengono di volere più moderazione nella vita politica degli Stati Uniti ma che, in realtà, stanno compromettendo seriamente la possibilità di una nuova maggioranza democratica (e non in riguardo al partito) progressista e multirazziale.

Un’analisi dei dati elettorali in Europa lo conferma: per la sinistra adottare politiche di destra su temi come l’immigrazione e l’economia non è una strategia vincente

Nel 1974 Nixon si dimise dopo essere caduto in disgrazia nello scandalo Watergate. Per un periodo, Phillips cominciò a frequentare degli attivisti che preparavano la nascita di una “nuova destra”, ma poi, dopo le presidenze di Ronald Reagan e di George H.W. Bush si allontanò dal partito repubblicano. Come spesso succede a chi esce da una formazione politica, Phillips maturò un profondo disprezzo per il partito che aveva contribuito a rinvigorire e rafforzare. In The politics of rich and poor (La politica dei ricchi e dei poveri), scritto nel 1990, stroncava il reaganismo, mentre in Una dinastia americana (Garzanti 2004) se la prendeva con la famiglia Bush. Negli anni successivi ha scritto un libro per denunciare la destra religiosa e ha criticato ferocemente l’effetto della concentrazione della ricchezza sulla vita politica statunitense. Phillips, tuttavia, non si è mai assunto la responsabilità di aver contribuito a creare quella disuguaglianza economica che tanto disprezzava. Anzi, ha scritto volumi di analisi e ha mostrato stima e nostalgia per i grandi uomini (bianchi) del passato. Anche di fronte all’evidenza, non ha mai capito che il risentimento razziale da lui entusiasticamente alimentato si è ritorto proprio contro chi gli stava più a cuore, lasciando la classe lavoratrice bianca a morire nella disperazione, in balia di ciarlatani e despoti e sotto il giogo del potere economico. Secondo Phillips, la classe lavoratrice bianca era stata tradita da Reagan, dai Bush che avevano studiato a Yale, ma non da lui.

Nel 2008, nel pieno della crisi dei mutui, Phillips partecipò a Democracy now!, un programma televisivo d’informazione di sinistra che andava in onda da anni. La conduttrice Amy Goodman sembrava entusiasta che il suo ospite fosse un noto repubblicano. Phillips era lì per promuovere il suo libro Soldi sporchi. Finanza spericolata, errori politici e crisi globale (Garzanti 2010). Parlò appassionatamente delle malefatte di Wall street e delle speculazioni avventate sulle materie prime, rilanciando le tesi di tante voci critiche di sinistra del neoliberismo. “Abbiamo un’economia finanziarizzata che non produce più molto. La finanza ormai è salita al 20-21 per cento del pil degli Stati Uniti, mentre la manifattura è scesa al 12”. Parlò diffusamente delle conseguenze per i cittadini comuni, soffermandosi sull’aumento del tasso d’indebitamento delle famiglie per la casa. “La crescita della finanza ha portato alla crescita di un’industria del debito e del credito”, osservava. “Sono sempre di più le persone costantemente indebitate, e il debito che i privati hanno accumulato e devono ripagare sono sempre di più un peso eccessivo”. Poiché “i gruppi d’interesse hanno il controllo del congresso”, continuava Phillips, i tempi imponevano un presidente abbastanza coraggioso da “presentarsi alla gente con un serio programma di riforme, e alcune di queste devono essere la ri-regolamentazione della finanza”.

Le osservazioni di Phillips oggi mi sembrano profetiche, ma anche pericolosamente ottuse, proprio per la sua mancata attenzione al razzismo. Già nel 2008 era evidente che i mutui subprime (prestiti concessi a tassi onerosi a debitori considerati inaffidabili), su cui poggiava la truffa del sistema bancario, si concentravano nelle comunità nere, in linea con una lunga tradizione di prestiti predatori su base razziale. Nel 2009, per esempio, il New York Times scrisse che un impiegato addetto ai prestiti della Wells Fargo aveva dichiarato in una deposizione giurata che i dipendenti della banca chiamavano gli strumenti subprime ghetto loans, “prestiti del ghetto”. Secondo un’ex impiegata, “l’ufficio mutui della Wells Fargo aveva un’unità addetta ai mercati emergenti che si concentrava specificamente sulle chiese afroamericane, perché immaginava che i leader religiosi avessero molta influenza e potessero convincere i fedeli a sottoscrivere prestiti subprime”.

Risultato? La crisi spazzò via circa la metà della ricchezza delle famiglie afroamericane degli Stati Uniti. Per le famiglie latine l’impatto fu perfino peggiore. E, naturalmente, milioni di famiglie bianche persero casa, risparmi e posti di lavoro. Ma a chi fu data la colpa della crisi finanziaria? A chi era stato più colpito dal crollo delle banche. A lanciare queste accuse non erano solo programmi e testate conservatrici come Fox News. Lo confermò implicitamente anche Bloomberg Businessweek in una sconcertante illustrazione di copertina del 2013 in cui si vedevano delle caricature razziste di quattro persone in quattro diverse stanze di una casa: una che faceva il bagno nei soldi, un’altra che dava i soldi in pasto al cane e un’altra che li sperperava al gioco. Era la strategia del sud adattata alla nuova era della crisi finanziaria. La sua logica razzista e colpevolizzante nei confronti delle vittime ha preparato il terreno per la presidenza di Donald Trump, che ha portato a un nuovo livello il metodo di Phillips.

Non sono solo i conservatori del movimento trum­piano Make America great again ad aver assorbito come per osmosi questa logica mercenaria. Un buon numero di opinionisti liberal si schiera pubblicamente su posizioni tanto ostili alla solidarietà quanto a quelle un tempo sostenute dai repubblicani, anche se molti strabuzzeranno gli occhi di fronte a un paragone simile.

Molti editorialisti di primo piano ripetono di continuo che dare spazio alle istanze dei gruppi emarginati è divisivo e dannoso. Per conquistare una possibile maggioranza, sostengono – e in particolare per conquistare gli uomini – bisogna abbandonare le cosiddette posizioni “estremistiche” sulla giustizia razziale, sociale ed economica. Allo stesso modo, per vincere le elezioni bisogna convergere al centro e fare appello a ciò che è già popolare, assecondando le preferenze e i pregiudizi degli elettori invece di provare a fargli cambiare idea ed espandere il loro campo di possibilità.

Anche se gli opinionisti si presentano come persone preparate e di buon senso, il loro moderatismo aggressivo non fa che favorire la strategia reazionaria tratteggiata da Phillips quasi sessant’anni fa. Prendiamo il sedicente esperto di previsioni Ruy Teixeira, veterano della scena degli influenti centri studi democratici di Washington; nel 2022 ha lasciato il Center for american progress, di orientamento liberal, per il più conservatore American enterprise institute. Più di recente è stato autore, insieme al suo storico collaboratore, il giornalista John B. Judis, di Where have all the democrats gone? The soul of the party in the age of extremes (Dove sono finiti tutti i democratici? L’anima del partito nell’era degli estremismi). Il libro, pubblicato nel 2023, è una tardiva sconfessione del loro best seller del 2002, The emerging democratic majority (La maggioranza democratica emergente), che secondo molti ha avuto il merito di pronosticare la coalizione di professionisti, donne, minoranze e lavoratori che ha eletto Barack Obama, regalando notorietà e credibilità ai due autori. A differenza di quella di Phillips, tuttavia, la loro tesi non ha retto alla prova del tempo. Gli autori sono i primi ad ammettere di essersi sbagliati. I democratici stanno lottando per rimanere a galla invece di veleggiare verso la vittoria sull’onda di un’inarrestabile avanzata demografica. Cosa è successo? La loro risposta, in sostanza, è l’ideologia woke. La soluzione? Il centrismo.

Where have all the democrats gone? poteva essere un tentativo interessante di rimettere in discussione le conclusioni del passato attraverso il bagno d’umiltà del senno di poi; ma gli autori non hanno la virtù dell’umiltà. Nel 2002, Judis e Teixeira commentavano in tono di approvazione che la coalizione da loro immaginata rispecchiava “la prospettiva dei movimenti sociali nati negli anni sessanta”. A distanza di decenni, dopo che le intuizioni degli attivisti dell’epoca erano state ormai metabolizzate dalla cultura dominante e spogliate di ogni radicalità, Judis e Teixeira apprezzavano le conseguenze positive delle battaglie per l’uguaglianza razziale e sessuale. Ma cosa avrebbero pensato all’inizio di quelle battaglie, quando la stragrande maggioranza degli statunitensi era fieramente, e spesso violentemente, contraria ai diritti civili? Se avessero seguito il loro stesso consiglio di prendere posizione basandosi sui sondaggi avrebbero consigliato a tutte quelle femministe arroganti, ai militanti queer, al clero antirazzista e agli attivisti di darsi una calmata per non rischiare di alienarsi le simpatie del decantato centro.

Judis e Teixeira mostrano una scarsissima curiosità per come si sono evolute e per come potrebbero cambiare le categorie che usiamo oggi o per come potrebbero emergerne delle nuove. Sembrano avere una fede cieca nell’idea che le categorie esistenti non cambieranno mai, un tratto comune a molti critici delle politiche identitarie, che spesso finiscono per ricadere in una concezione essenzialista dell’identità, rafforzando quelle politiche. L’indignazione verso i movimenti per i diritti dei trans, per esempio, li spinge a difendere il tradizionale binarismo di genere; la rabbia verso le femministe li porta a una rivendicazione reazionaria dei diritti maschili. Sta di fatto, però, che le identità non sono statiche, come dimostra la storia e l’evoluzione della categoria dei “lavoratori”. La fissazione per un passato idealizzato – un feticismo congelato e nostalgico per il lavoro manifatturiero codificato al maschile – rende impossibile riconoscere la classe lavoratrice che sta emergendo: una classe che, come chiarisce Tamara Draut nel suo saggio Sleep­ing giant (Il gigante addormentato), è più femminile e multirazziale, ed è impiegata in grande maggioranza nel settore dei servizi, molto più difficile da delocalizzare all’estero delle fabbriche di un tempo. Judis e Teixeira disprezzano i leader del congresso che però sono rappresentanti autentici di questa classe lavoratrice emergente e diversificata in un parlamento pieno di milionari: Alexandria Ocasio-Cortez faceva la barista; Jamaal Bowman era preside in una scuola; Cori Bush è un’ex infermiera.

Christian Dellavedova

Nel loro saggio più recente, Judis e Teixeira si confermano più interessati alle maggioranze già esistenti che a quelle emergenti. In realtà, il loro è solo l’ultimo contributo a un genere logoro e abusato. Da quando ho una coscienza politica, leggo invettive di maschi arrabbiati su come la politica identitaria, in senso lato, avrebbe sabotato la lotta per la democrazia economica e rovinato il Partito democratico (il primo libro che ho letto di questo filone, What’s the matter with Kansas? di Thomas Frank, fondatore del giornale The Baffler, è stato illuminante e prezioso, anche se non sono d’accordo con alcuni elementi della sua tesi: i predecessori e gli imitatori di Frank tendono a essere meno documentati dal punto di vista storico, meno politicamente radicali e molto meno divertenti). Con vari gradi di sfumature e di astio, tutte le argomentazioni alla fine battono sullo stesso punto: i movimenti per l’uguaglianza razziale, per i diritti delle donne, per la liberazione dei gay e dei trans, per la giustizia e per l’ambiente hanno distratto dalla battaglia universalista per la socialdemocrazia. Senza questi fastidiosi agitatori, potremmo tornare al liberalismo popolare del new deal degli anni trenta e vincere.

Per tornare a questa veneranda tradizione, i democratici dovrebbero “scaricare la sinistra intersezionale”, come ha scritto senza mezzi termini Teixeira di fronte al montare della solidarietà con la Palestina. Come altri liberal ostili alla sinistra, Judis e Teixeira sono per un atteggiamento più misurato verso le disuguaglianze e le ingiustizie: un femminismo all’acqua di rose, rigorosamente non diversificato e inclusivo, e un ambientalismo che si concentra sulla condizione degli orsi polari invece di mettere in evidenza le disparità socioeconomiche. Immaginando frotte di bianchi con l’elmetto protettivo inorridire ogni volta che dei militanti di sinistra cercano di allargare e rafforzare le coalizioni collegando le aspirazioni sociali tra loro, ignorano o fingono d’ignorare che l’intersezionalità fa già parte della vita dei lavoratori. Per esempio, il sindacato United auto workers (Uaw) sostiene apertamente la comunità lgbt+ ed è stato tra i primi a proporre un cessate il fuoco a Gaza. Il presidente dell’Uaw Shawn Fain lo ha detto chiaramente in un discorso in cui indossava una felpa con sopra un arcobaleno: “Siamo un sindacato che vuole essere inclusivo. È fondamentale che ci battiamo per tutti. La lotta di ognuno è la nostra lotta”.

La concezione che Judis e Teixeira hanno del Partito democratico è fantasiosa quanto la loro immagine nostalgica della classe lavoratrice. A sentire loro, una cricca ristretta di attivisti, centri studi radicali e filantropi progressisti decide le priorità del parlamento, formando un inarrestabile “partito ombra”. Secondo questa ricostruzione astrusa, una manciata di professori universitari afroamericani avrebbe più potere dei leader del movimento dei diritti civili degli anni sessanta, e i tweet incendiari degli attivisti arrabbiati sarebbero più influenti dei politici. La sinistra del Partito democratico è dipinta come un gruppo di ideologi distruttori, anche se sono stati due senatori di centro a fare di tutto per affossare i provvedimenti-bandiera di Joe Biden.

Eppure è la sinistra, e non gli ostruzionisti appoggiati dal potere economico, che Judis e Teixeira vorrebbero mettere alla gogna.

Christian Dellavedova

In realtà, quando era candidato alle elezioni del 5 novembre prossimo Biden assecondava regolarmente Judis e Teixeira, rinunciando a qualsiasi ambizione progressista per mettere in mostra le proprie credenziali centriste. Basti pensare al suo discorso sullo stato dell’unione del 2022, quando il paese si stava ancora riprendendo dalle grandi manifestazioni di protesta per l’uccisione di George Floyd da parte della polizia. “La risposta non è tagliare i fondi alla polizia. È dare più fondi alla polizia. Più fondi. Più fondi”, aveva ripetuto Biden. Di conseguenza i finanziamenti alla polizia in tutto il paese non sono scesi, ma aumentati. Nonostante questo, per Judis e Teixeira la sinistra intersezionale rimane onnipotente, anche quando i suoi slogan vengono derisi e le sue raccomandazioni disprezzate.

L’insofferenza per questa sinistra prepotente prevale su qualsiasi valutazione strategica equilibrata. Judis e Teixeira elogiano Biden per gli aspetti più progressisti del suo programma economico, dal rilancio della politica industriale all’atteggiamento conciliante del governo nei confronti della classe lavoratrice. Come loro stessi riconoscono, a denti stretti e quasi di sfuggita, Biden si è mosso in questa direzione solo perché era sotto pressione da sinistra. Durante le primarie del 2020, i senatori Bernie Sanders ed Elizabeth Warren e le rispettive coalizioni hanno spinto Biden a prendere una serie d’impegni di stampo progressista. Allo stesso tempo, la campagna di Alexandria Ocasio-Cortez per un green new deal, appoggiata dalla mobilitazione dal basso del movimento giovanile, ha contribuito a creare le condizioni che hanno portato all’approvazione dell’Inflation reduction act, la legge sulla riduzione dell’inflazione (con miliardi di finanziamenti per l’energia pulita). Anche quando si rallegrano per la rinascita del movimento dei lavoratori, Judis e Teixeira non riescono a tenere conto del contesto più ampio. Le correnti di sinistra emerse negli ultimi dieci anni hanno convinto migliaia di giovani a organizzarsi negli Starbucks, nei magazzini di Amazon, nei campus universitari e fuori, spingendoli a prendere posizione – in quanto lavoratori sindacalizzati – su una serie di temi, dalla cancellazione del debito studentesco alla giustizia razziale fino alla pace a Gaza.

Questo non significa che dovremmo preoccuparci del fatto che molte persone della classe lavoratrice – tra cui un numero non trascurabile e crescente di maschi afroamericani e latini – sta passando al Partito repubblicano e spesso alle sue frange di estrema destra. Ma non le riconquisteremo, e a maggior ragione non vinceremo le elezioni, scomunicando una parte fondamentale dell’attuale elettorato democratico per assecondare i presunti pregiudizi dei fantomatici “elettori indecisi” o le recriminazioni retrograde di chi non riesce a fare i conti con il progresso. Come altri intellettuali a loro vicini, Judis e Teixeira consigliano di contrastare la destra sul clima e l’immigrazione, nella convinzione che una parte consistente dell’elettorato sarebbe pronta a buttarsi tra le braccia dei democratici se solo fossero meno aggressivi sulla transizione alle energie rinnovabili e fossero più apertamente ostili ai migranti. Purtroppo, è una tattica che i democratici hanno sperimentato molte volte, respingendo orgogliosamente i richiedenti asilo o aprendo i terreni demaniali alle perforazioni. In realtà, questo atteggiamento non fa che allontanare la base democratica segnalando allo stesso tempo ai conservatori che fanno bene a insistere sulla chiusura dei confini e sulla dipendenza dai combustibili fossili. Una recente analisi dei dati elettorali in Europa lo conferma: per la sinistra adottare politiche di destra su temi come l’immigrazione e l’economia non è una strategia vincente. Ed è logico che sia così. Perché dovremmo dare il nostro voto a una pallida imitazione quando si può scegliere l’originale in tutto il suo sanguigno splendore?

Durante le primarie democratiche del 2016, quando Sanders era ancora in corsa, Hillary Clinton fece infuriare molti progressisti ed elettori di sinistra – me compresa – con una serie di commenti rivolti al suo rivale e ai suoi sostenitori: “Se domani smembrassimo le grandi banche – e lo farò se è quello che meritano; se rappresentano un rischio sistemico, lo farò – finirebbe il razzismo? Finirebbe il sessismo? Finirebbero le discriminazioni contro la comunità lgbt? La gente diventerebbe di colpo più accogliente verso gli immigrati?”. Queste domande retoriche erano sconvolgenti nel loro cinismo: la loro unica funzione era accusare Sanders e la sua coalizione di essere insensibili alla realtà della discriminazione e distogliere l’attenzione dai lunghi e radicati legami tra Clinton e Wall street.

La cosa infastidì anche Teixeira. Secondo lui, il discorso di Clinton serviva solo a distrarre dalla necessità delle riforme economiche, e su questo non posso dargli torto. Ma vale la pena di rovesciare la domanda di Clinton. Se smettessimo di parlare di razzismo, di sessismo, della comunità lgbt e degli immigrati, vorrebbe dire che finalmente potremmo smembrare le banche?

Ho i miei dubbi. Nel 2011 ho contribuito a fondare il Debt collective, un sindacato sperimentale di debitori con cui collaboro ancora oggi. Sotto certi aspetti, abbiamo costruito un movimento intorno ai problemi su cui Kevin Phillips richiamava l’attenzione anni fa. Il settore finanziario era ben organizzato, sempre in grado di fare pressioni sul governo centrale per far prevalere i suoi interessi. Perché milioni di persone costrette a indebitarsi fino al collo dall’avidità delle élite non provavano a fare lo stesso? Se non altro, i miei anni di attivismo sulla giustizia economica mi hanno insegnato che non si possono semplicemente scavalcare le questioni identitarie. Il potere trasformativo di un’organizzazione di debitori deriva dal fatto che le persone che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese sono centinaia di milioni, di tutte le estrazioni sociali, ma il debito le colpisce in modo diverso, come ha rivelato la crisi dei mutui subprime. Oggi, per fare solo un esempio, i debiti studenteschi e i prestiti a breve termine gravano in modo sproporzionato sulle donne afroamericane per colpa della discriminazione salariale e della mancanza di ricchezza intergenerazionale. Per costruire la solidarietà – una serie di rapporti di cura e impegno che ci unisca al di là delle nostre molteplici differenze – bisogna innanzitutto riconoscere che siamo diversi e in questa società ancora profondamente stratificata siamo trattati diversamente. Negarlo non ci libera dalla gabbia dell’identità: anzi, l’universalismo senza colore troppo spesso fa sua e riafferma una concezione essenzializzante e reazionaria della mascolinità bianca.

Smembrare le banche, come qualsiasi battaglia di sinistra, richiederà una straordinaria forza organizzativa, una forza che possiamo costruire solo creando un movimento inclusivo, multirazziale e con una coscienza di classe. Possiamo rimboccarci le maniche per dare forma a questa nascente maggioranza democratica (non solo nel senso del Partito democratico) oppure sottometterci a una minoranza sempre più famelica, antidemocratica e autoritaria, pronta a imporre il suo programma folle grazie a tutti i vantaggi che le sono stati concessi dal sistema politico statunitense: un collegio elettorale che sabota il voto popolare, una corte suprema autoritaria, la distribuzione iniqua dei collegi del senato al congresso, una carta dei diritti che non include il diritto affermativo di esprimere il proprio voto. Gli architetti della costituzione degli Stati Uniti volevano assicurare la continuità del dominio di classe, razza e genere di uomini come loro. La strategia del sud di Phillips non funzionò non perché era una novità, ma perché partiva dai metodi del passato.

Kevin Phillips è morto l’anno scorso, all’età di ottantadue anni. Dato il tono freddo e calcolatore con cui da giovane pensava di manipolare il risentimento e l’ostilità per ottenere un vantaggio politico, non mi sorprende che non abbia mai avuto un risveglio morale. Quello che mi colpisce ancora, invece, è che non ne abbia avuto uno strategico. Malgrado la sua indignazione per la discesa degli Stati Uniti verso una nuova epoca di forti disuguaglianze e sfruttamento, Phillips non ha mai riflettuto sul suo ruolo di tattico al servizio dei cultori delle forze di mercato che diceva di detestare, e non ha mai riconosciuto che il contenimento di quelle forze partiva dalla ricostruzione del tessuto sociale che lui si era diligentemente impegnato a sfibrare. Non è riuscito a capire che la lotta al razzismo era un elemento fondamentale per combattere l’avidità e il marciume che i suoi ultimi libri denunciavano nei dettagli più cruenti e che possiamo combattere la “contro-solidarietà” da lui cinicamente invocata solo coltivando attivamente una solidarietà vera, in grado di cambiare le cose. La costruzione consapevole di legami che vanno oltre le divisioni sociali – specialmente, ma non solo, quelle razziali – è l’unico modo per creare una maggioranza politica davvero degna di essere costruita. ◆ fas

Astra Taylor è una giornalista, regista e attivista politica canadese. Vive negli Stati Uniti. Questo articolo è un adattamento dal libro Solidarity: the past, present, and future of a world-changing idea, di Astra Taylor e Leah Hunt-Hendrix (Pantheon 2024). È uscito sulla rivista The Baffler con il titolo Divided and conquered.

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Questo articolo è uscito sul numero 1583 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati