Questo è il terzo album in altrettanti anni degli Smile, il progetto parallelo di Thom Yorke e Jonny Greenwood dei Radiohead. Cutouts è nato dalle stesse session che avevano prodotto Wall of eyes, uscito a gennaio. La strategia non è diversa da quella di Kid A e Amnesiac, album paralleli pubblicati a meno di un anno di distanza. Yorke e Greenwood sono artisti prolifici, quindi i tentativi di comprendere la loro produzione contemporanea confrontandola con quello che hanno fatto un quarto di secolo fa potrebbero sembrare folli. Ma quegli album forniscono un caso di studio. Come Amnesiac, Cutouts inizialmente sembra un ascolto più impegnativo di Wall of eyes, dando priorità all’atmosfera rispetto alla tradizionale scrittura di canzoni. L’album si apre con due brani simili a un lamento funebre: Foreign spies è un’ode cupa a un “bellissimo mondo lastricato d’oro” distrutto dall’arroganza dell’umanità, mentre Instant psalm rinuncia all’elettronica per un’atmosfera più terrena. Cutouts trova anche nuove strade da percorrere: Colours fly riflette la crescente immersione di Greenwood nella musica mediorientale, mentre i fiati ricordano Blackstar di David Bowie. La conclusiva Bodies laughing ha una struttura irregolare che non si risolve mai, ma è bella in modo sorprendente. Un discorso che probabilmente può valere per tutta la produzione degli Smile.
Lewie Parkinson-Jones, Slant
La musica degli Ezra Collective richiede movimento. Non è una cosa ovvia, visto che il jazz è spesso considerato un genere da gustarsi seduti, ma il gruppo abbraccia anche i suoni provenienti dal calypso, il dub, l’afrobeat, la jungle e il grime. L’anno scorso al Mercury prize con Where I’m meant to be hanno evitato il triste destino di tanti musicisti jazz che vengono nominati ma non vincono mai. Ora tornano con Dance, no one’s watching. Il disco trascina anche l’ascoltatore più ansioso sulla pista: impossibile resistere al groove funky del basso di TJ Koleoso o alla tromba di Ife Ogunjobi. A lungo la band londinese ha esaltato il potere della danza e stavolta lo dimostra. Non sorprende che il disco sia stato scritto in tour, mentre i cinque rimbalzavano come un flipper. Ogni brano riflette quel tipo di energia e la capacità di questi musicisti di scambiarsi idee mentre suonano. Certo, sono dei virtuosi, ma è l’abilità di fondere sonorità diverse a renderli speciali. Oltre a un disprezzo per le regole dei generi che è sempre bene in mostra.
Annabel Nugent, The Independent
Joshua Bell, Steven Isserlis e Jeremy Denk sono amici che occasionalmente si esibiscono insieme: hanno registrato i trii di Mendelssohn dopo un lungo tour. Nel disco c’è la raffinatezza che deriva dalla comprensione reciproca e una freschezza che a volte manca a gruppi più affermati. È a metà strada tra l’impetuosa lettura del Trio Wanderer e le lussuose effusioni di Itzhak Perlman, Yo-Yo Ma ed Emanuel Ax. L’interpretazione di Bell, Isserlis e Denk è più degna di nota per le sfumature che per l’iperbole, e si distingue per dinamiche sensibili e fraseggio sempre elegante. Ma nonostante tutta la loro sottigliezza, questi musicisti non sono mai ritrosi: nelle loro mani, l’andante del primo trio ha un calore avvincente; lo scherzo seguente ha un bordo tagliente; e pochi catturano altrettanto l’inquietezza dell’inizio del secondo trio. I tre hanno temperamenti diversi e mantengono le loro personalità: la sensazione è che stiano semplicemente suonando insieme senza compromessi. Questa nuova uscita regge il confronto con tutte le altre della discografia, tranne il primo trio di Heifetz, Piatigorskij e Rubinstein, che è fuori concorso. E probabilmente ha la registrazione migliore.
Peter J Rabinowitz, Gramophone
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