Meno di quattro anni fa, quando ho cominciato a indagare sull’azienda non profit di tutela ambientale African Parks (Ap), non avevo idea di cosa mi aspettasse. In Benin sono stato accusato di spionaggio e ho trascorso quattro giorni in carcere in mezzo ad agenti armati di kalashnikov, per poi essere espulso dal paese. In Zambia ho incontrato dei guardaparco pronti a raccontarmi dei metodi di tortura che adottavano. Nella Repubblica Democratica del Congo ho parlato con i familiari di persone che non erano sopravvissute a uno scontro con i ranger. Infine due mesi prima della pubblicazione del mio libro nei Paesi Bassi, il mio editore e io abbiamo ricevuto un avvertimento dall’Ap, che ci avrebbe considerato responsabili di un’eventuale perdita di profitti se i donatori avessero ritirato il loro appoggio a causa della mia inchiesta. “Si parla di vari milioni di euro”, precisava la lettera.
Difensori della natura che vogliono salvare dall’estinzione rinoceronti, leoni ed elefanti: non dovevano essere delle brave persone?
In prima linea
Ho sentito parlare dell’Ap all’inizio del 2020, poco prima che la pandemia di covid-19 paralizzasse il pianeta. Mi trovavo nello Zambia per un reportage in un parco naturale. L’organizzazione, praticamente sconosciuta al grande pubblico, si è fatta un nome nel mondo della conservazione ambientale ed è presente in dodici paesi, dove gestisce ventidue parchi che in totale occupano un territorio grande quanto il Regno Unito.
Nel 2003 l’industriale olandese Paul Fentener van Vlissingen fu uno dei fondatori dell’African Parks bv, che per anni ebbe la sede nelle scuderie del suo castello medievale a Langbroek, in provincia di Utrecht, nei Paesi Bassi. Fin dall’inizio l’Ap ha ricevuto regolari donazioni dalla Postcode loterij (una lotteria di beneficenza olandese). Nel corso degli anni hanno contribuito anche i ministeri degli esteri, dell’economia e dell’agricoltura olandesi. Il principale finanziatore oggi è l’Unione europea, con 142 milioni di euro. L’African Parks oggi è un’azienda non profit con sede a Johannesburg, in Sudafrica, e ha sviluppato un modello di gestione delegata: con il consenso di un governo africano assume il pieno controllo di un parco naturale nel rispetto delle leggi nazionali, per un periodo che di solito va da dieci a 25 anni.
Addestra i ranger alla lotta armata contro i bracconieri e costruisce recinzioni intorno ad alcuni parchi, in modo da tenere fuori gli esseri umani e dentro gli animali. I parchi sono difesi come fortezze, non solo dai bracconieri a caccia di avorio o di corni di rinoceronte, ma anche da pescatori, pastori e taglialegna locali che si avventurano illegalmente. Inoltre l’Ap costruisce e gestisce hotel e lodge per attirare i turisti, in modo che il parco generi guadagni e diventi autosufficiente dal punto di vista economico. È definito a business approach to conservation, un approccio aziendale alla tutela ambientale.
La posta in gioco è alta: il continente africano e i suoi abitanti sono quelli che contribuiscono meno di tutti alla crisi climatica, eppure ne subiscono più duramente le conseguenze. I deserti avanzano, le stagioni piovose ritardano e sono più corte, i raccolti scarseggiano. “Se alcune zone dell’Africa diventano inabitabili a causa dell’aumento delle temperature e della deforestazione, gli africani fanno le valigie e vanno via”, ha dichiarato un paio d’anni fa l’ex commissario europeo per il clima Frans Timmermans nel corso della trasmissione televisiva olandese Buitenhof, per sottolineare l’urgenza della sua politica sul clima.
Gli animali selvatici non possono “fare le valigie e andare via”, tanto meno verso l’Europa, come sottintendeva Timmermans. Perfino nelle riserve naturali devono competere con pastori e agricoltori, che mirano a impossessarsi del loro habitat. Secondo le stime, in Africa vivono ancora circa diecimila ghepardi, 23mila leoni e altrettanti rinoceronti, più di 300mila gorilla e più di 400mila elefanti. Ognuna di queste popolazioni è più piccola della popolazione (umana) del Lussemburgo. Se vogliamo che queste specie sopravvivano – e chi non lo vorrebbe? – bisogna fare qualcosa.
Così l’Ap ha preso l’iniziativa. Si considera una delle protagoniste della campagna per raggiungere l’obiettivo internazionale di rendere area protetta almeno il 30 per cento della superficie terrestre entro il 2030, come proposto dall’Unione mondiale per la conservazione della natura (Iucn), affiliata delle Nazioni Unite. Attualmente in Africa la percentuale è intorno al 15 per cento, ma secondo l’Ap il territorio protetto è al massimo un terzo di quel 15 per cento, perché la maggior parte dei parchi e delle riserve è tutelata solo sulla carta. Arrivare al 30 per cento è un’impresa enorme, ma l’Ap è pronta ad ampliare il suo portafoglio con l’acquisizione di nuovi parchi nei prossimi anni.
Colonialismo verde
All’inizio della mia inchiesta mi sono imbattuto in resoconti entusiastici sull’Ap, che parlavano di trasferimenti su ampia scala di elefanti e animali reintrodotti in posti dov’erano scomparsi. Leggevo di guardaparco eroici che si battevano contro bracconieri spietati e di parchi naturali dati per spacciati che invece venivano recuperati. “Sembrava proprio che [i bracconieri] avrebbero ucciso ogni singolo elefante del Ciad. Ma nel 2010 un’organizzazione privata di nome African Parks prese in carico la gestione del parco di Zakouma”, si legge in un articolo del National Geographic.
Anche il settimanale britannico The Economist ne parlava con entusiasmo ritenendo molto probabile che altri governi africani avrebbero delegato a organizzazioni private come l’Ap la gestione dei loro parchi naturali.
Nel 2020, sulla stampa francese sono apparsi due articoli critici sull’Ap che ne mettevano in evidenza alcuni aspetti discutibili, come la militarizzazione della tutela ambientale e la prevalenza di persone bianche ai vertici. L’Ap ha reagito indignata, accusando il quotidiano Le Monde di aver pubblicato “deliberate manipolazioni della verità”, “imprecisioni evidenti”, “estrema tendenziosità”, “totale parzialità”, “malignità nel fornire le informazioni” e “un tipo di giornalismo che contrasta con l’etica professionale”. Invece Le Monde Diplomatique, dov’era uscito un altro articolo, era accusato di peccare di “disinformazione”, “volute omissioni” e “accuse infondate”.
Nel frattempo io avevo deciso di scrivere non un articolo, ma un intero libro sull’Ap. Ero affascinato dalle sue dimensioni e dalle sue ambizioni, unite alla poca visibilità. Chi erano quelle persone? Perché il loro modello di gestione delegata aveva tanto successo nel mondo della conservazione ambientale, della politica, degli affari e dei donatori? In cosa consisteva un “approccio aziendale alla tutela ambientale” e quali erano le conseguenze, non solo per gli animali ma anche per gli esseri umani?
L’Ap rappresenta qualcosa di più vasto dell’organizzazione stessa. Il modello di gestione delegata – quasi una privatizzazione della tutela ambientale – lo applicano anche la Wildlife conservation society, negli Stati Uniti, e la Noé, in Francia, ed è sempre più diffuso in Africa.
Volevo verificare se l’acquisizione di alcuni poteri pubblici fondamentali, come l’applicazione della legge e la politica di controllo degli accessi, non fosse in realtà una violazione della sovranità dei paesi coinvolti. E com’è possibile che ancora oggi dei manager bianchi decidano il destino della popolazione nera che vive nei dintorni dei parchi naturali, lasciandole poca voce in capitolo?
Nel libro L’invention du colonialisme vert (Flammarion 2020) lo storico francese Guillaume Blanc afferma che la tutela ambientale è un settore non ancora decolonizzato. L’Ap promuove una visione occidentale – coloniale, secondo alcuni – della protezione ambientale, in base a cui esseri umani e animali devono restare il più possibile separati. Invece molti popoli africani hanno una lunga tradizione di convivenza con gli animali.
Anche se l’Ap ha reagito con scarso entusiasmo quando ho annunciato il mio progetto, inizialmente si è mostrata collaborativa proponendo di organizzare una visita al parco nazionale Akagera, in Ruanda, considerato uno dei suoi più grandi successi. Ma nel momento in cui la visita doveva concretizzarsi, non ha più risposto a email, messaggi o telefonate.
La caccia – e il timore dei cacciatori bianchi di perdere il loro hobby – è ancora oggi uno dei motori delle organizzazioni di tutela della natura
Impulsi distruttivi
L’episodio è emblematico del mio rapporto difficile con l’Ap. Tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023 ho ottenuto il permesso di intervistare Peter Fearnhead, il suo numero uno, e di visitare uno dei parchi che gestisce, ma ho svolto la maggior parte della mia inchiesta senza la loro collaborazione. Ho visitato sei paesi africani, ho parlato con quasi trecento fonti e grazie ad alcuni contatti sono riuscito a ottenere montagne di documenti riservati.
Un tema ricorrente nelle conversazioni sull’Ap è la mentalità coloniale che le attribuiscono i suoi critici. Mavuso Msimang, un ex combattente per la libertà dell’African national congress sudafricano, nel 2003 è stato l’unico nero tra i fondatori dell’organizzazione. Per diciassette anni è stato nel suo consiglio di amministrazione. Ha definito i suoi leader “parte del vecchio Sudafrica” e “tuttora molto bianchi”. “Dobbiamo fare del nostro meglio per trasformarla in un’organizzazione davvero africana”, mi ha detto durante un’intervista molto schietta a casa sua a Johannesburg. “A volte penso che Peter Fearnhead sia talmente concentrato sul successo da scordarsi che bisogna creare un migliore equilibrio”.
Anche se l’impostazione aziendale e i metodi dell’Ap contengono elementi innovativi, il suo atteggiamento ha inequivocabilmente radici coloniali. Al centro c’è l’idea di un’Africa come paradiso terrestre, non ancora toccato dalle rivoluzioni industriali e dalle attività umane che in Europa hanno ridotto la natura a qualche misero francobollo tra autostrade e linee ferroviarie. In Africa esistono ancora savane incontaminate, foreste pluviali e boschi vergini, e vaste aree selvatiche. Lì si può trovare il giardino dell’Eden che si credeva perduto.
Per molti versi, la percezione occidentale dominante si rifà alla tradizione coloniale di Ernest Hemingway, Karen Blixen (La mia Africa), Joseph Conrad o al fumetto belga Tintin in Congo. Più di sessant’anni dopo le indipendenze africane, l’immagine dell’“Africa selvaggia” continua a essere trasmessa da film come il Re Leone della Disney o da programmi come quelli del popolare documentarista britannico David Attenborough. L’Africa è un continente in cui gli animali sono i protagonisti e gli esseri umani (neri) quasi non compaiono.
Anche la cantante Taylor Swift si è inserita in questa scia con la canzone Wildest dreams, parte del cui ricavato è andato all’Ap. Il video mostra la cantante su un set cinematografico in stile La mia Africa, in cui lei s’innamora di un uomo bianco, circondata da una troupe bianca e da animali selvaggi. “Taylor Swift sogna un’Africa molto bianca”, ha titolato un articolo critico uscito sul sito della radio pubblica statunitense Npr.
Ironicamente, sostiene lo storico Blanc, gli esploratori e i colonizzatori europei che in Africa credevano di aver trovato il paradiso terrestre lo piegarono ai loro impulsi distruttivi. Avviarono uno sfruttamento su larga scala delle risorse naturali tagliando alberi, estraendo materie prime dal suolo e sparando agli animali selvaggi. Alla fine dell’ottocento si uccidevano circa 65mila elefanti all’anno.
Viene spesso ricordata una spedizione di caccia d’inizio novecento a cui partecipò Theodore Roosevelt, poco dopo la fine del suo mandato come presidente degli Stati Uniti. Roosevelt partì per un safari in Africa orientale che durò più di un anno, accompagnato dal figlio Kermit e dal cacciatore e conservazionista britannico Frederick Selous. La compagnia, assistita da decine di portatori e servitori neri, uccise migliaia di animali, tra cui alcuni rinoceronti bianchi settentrionali, compresi le femmine e un piccolo, che erano già a rischio di estinzione. Ormai questa specie, che l’Ap voleva salvare, è “funzionalmente estinta”: ne restano solo due femmine in una riserva in Kenya.
Alla fine dell’ottocento, quando gli europei si resero conto che in molti posti le popolazioni di animali selvatici stavano calando drasticamente, crearono le riserve di caccia, nelle quali i “cacciatori” bianchi come Roosevelt erano più che benvenuti, diversamente dai “bracconieri” neri. Non importava se i primi uccidevano gli animali per divertimento o a scopi commerciali, mentre i secondi lo facevano il più delle volte in misura ridotta e, soprattutto, per il proprio sostentamento.
Nella prima metà del novecento le autorità coloniali fondarono i primi parchi naturali in Africa. Il parco Albert (ora Virunga) nell’attuale Repubblica Democratica del Congo fu il primo, nel 1925. Seguirono il Kruger, in Sudafrica, e il Serengeti, in Tanzania. Oggi nel continente ci sono più di trecento parchi, oltre a centinaia di riserve protette. In generale in questi territori non c’era (e non c’è) più posto per gli esseri umani che per secoli avevano vissuto in armonia con il loro ambiente. Sono stati costretti a trasferirsi altrove.
Non sono capaci
La decolonizzazione degli anni sessanta non ha interrotto questa politica. In molti paesi i conservazionisti europei hanno continuato ad avere in mano la situazione, apertamente o dietro le quinte. Vari funzionari coloniali si sono reinventati come esperti di qualche organizzazione internazionale o ong. Tra il 2019 e il 2023 il Gabon ha avuto un ministro dell’ambiente con il passaporto britannico, il conservazionista Lee White. Anche i governi africani hanno tratto vantaggio dai parchi nazionali, usandoli per aumentare il loro controllo su un territorio e sui suoi abitanti, a scapito delle autorità locali o regionali.
La privatizzazione e l’attribuzione di competenze dello stato vanno a braccetto con la militarizzazione della tutela ambientale
La caccia – e il timore dei cacciatori bianchi di perdere il loro hobby – è ancora oggi uno dei motori delle organizzazioni di tutela della natura. Il principe olandese Bernhard, appassionato di caccia grossa, nel 1961 fu uno dei cofondatori del Wwf insieme, tra gli altri, al britannico Filippo, che lo stesso anno in India uccise una tigre del Bengala. Anche Fentener van Vlissingen è stato un fanatico cacciatore e da giovane in Africa sparava agli elefanti e ad altre specie a rischio d’estinzione. Molti degli attuali direttori dei parchi dell’Ap hanno un passato da cacciatori, e in tre dei parchi che gestisce è ammessa la caccia al trofeo.
Secondo quanto dichiarato da Fentener van Vlissingen all’inizio degli anni duemila, l’obiettivo dell’Ap era riportare le lancette dell’orologio indietro di cent’anni. Cioè tornare ai tempi in cui la natura era incontaminata, la popolazione africana dieci volte inferiore a quella attuale e le potenze europee dettavano legge praticamente ovunque.
“I governi ci vedevano come una sorta di nuovi colonialisti, ma ovviamente non era così”, ha affermato Dick de Kat, l’ex braccio destro di Fentener van Vlissingen, in un’intervista sugli inizi dell’African Parks. “Dovevamo gestire il parco e assicurarci che ci fossero risorse sufficienti, perché i neri non erano in grado di farlo”.
Ancora oggi l’Ap non sembra avere grande fiducia nella leadership africana nera. A Johannesburg tre quarti dei top manager sono bianchi. Alla metà del 2022, stando al sito web, la direzione era composta interamente da persone bianche. Anche in altre sedi le cariche più alte sono ricoperte in gran parte da bianchi.
I difensori della natura sono spesso convinti che il cosiddetto Eden africano debba essere protetto prima di tutto dagli africani. Da questo punto di vista il pericolo non sono solo i bracconieri, ma anche la popolazione locale, che essendo in crescita costante ha bisogno di nuovi terreni per i campi e per i pascoli. La soluzione offerta dall’Ap viene da conservazionisti animati da uno spirito aziendalista, turisti abbienti e imprenditori miliardari con intenti filantropici. Spesso sono persone che hanno fatto fortuna nell’industria fossile, considerano il consumo uno scopo di vita e, da soli, lasciano un’impronta ecologica probabilmente più grande di quella di molti stati africani.
Il principe britannico Harry è uno di loro. Intorno ai trent’anni ha deciso di spendersi per “l’Africa”, seguendo l’esempio di sua madre Diana. Il principe ha sempre avuto una passione viscerale per tutto ciò che riguarda l’esercito e la guerra, e a diciassette anni aveva scatenato un polverone presentandosi a una festa in maschera vestito da Erwin Rommel, il generale nazista degli Afrika korps. Nel 2015, durante un viaggio in alcuni paesi africani, elicotteristi e guardie forestali gli avevano raccontato quanto fosse dura la situazione nella giungla: era in corso una guerra per salvare il pianeta.
“Ho sentito bene, una guerra? Contate su di me”, ha scritto il principe nella sua autobiografia Spare. Il minore (Mondadori 2023). Prima di aderire all’Ap ha dovuto fare i conti con il fratello, il principe ereditario William. Quest’ultimo gli avrebbe fatto capire che l’Africa era “sua”. Quando un amico comune ha chiesto perché non potevano impegnarsi entrambi per il continente, William sarebbe sbottato: “Perché i rinoceronti, gli elefanti, sono roba mia!”.
“Due principi inglesi si fanno la guerra per decidere di chi è l’Africa?”, ha commentato sul Guardian l’autore anglonigeriano Nels Abbey. “Ora, ditemi che la mentalità coloniale è morta”.
Il principe Harry non si è fatto mettere i piedi in testa. Nell’estate del 2016 ha partecipato al trasferimento di numerosi elefanti tra diversi parchi gestiti dall’Ap in Malawi. Le cose sono andate talmente bene che nel 2018 al principe è stato proposto di diventare “presidente”, una carica simbolica. Fearnhead ha dichiarato di essere “molto fortunato” ad avere Harry a bordo, ne ha elogiato la competenza nell’ambito della salvaguardia ambientale e un anno dopo è stato puntualmente invitato al suo matrimonio con Meghan Markle.
All’interno dell’Ap qualcuno ha sollevato dei dubbi, soprattutto dopo la rinuncia di Harry ai titoli reali e quando, in un’intervista rilasciata a Oprah Winfrey, Meghan ha accusato di razzismo la casa reale britannica. Le polemiche non erano forse rischiose per l’Ap? Evidentemente no, perché nel novembre 2023 l’organizzazione ha proposto a Harry di entrare nel consiglio d’amministrazione internazionale. Potrebbe sembrare una carica meno prestigiosa della “presidenza”, ma gli permette di avere realmente voce in capitolo. Ora Harry ha mansioni di supervisione della gestione ed è coresponsabile delle politiche dell’organizzazione.
La bugia di fondo
È arrivato, però, il momento di farla finita con tutta questa bianchezza nella protezione della natura, sostengono John Mbaria, giornalista, e Mordecai Ogada, ex responsabile di un parco. In The big conservation lie (Lens&Pens 2016), i due autori keniani mettono in evidenza che i neri africani continuano a essere visti come un pericolo o un ostacolo, come “quelli che si riproducono troppo e rovinano il panorama”, mentre gli eroi della natura selvaggia – i vari Fentener van Vlissingen, Fearnhead e Harry – sono immancabilmente bianchi. Nel loro libro Mbaria e Ogada non risparmiano critiche a persone famose come Dian Fossey, la zoologa esperta di gorilla; Jane Goodall, l’antropologa ed etologa studiosa di scimpanzé; J. Michael Fay, l’ecologo statunitense che in poco più di un anno ha percorso a piedi più di tremila chilometri in Africa.
Ma gli autori ce l’hanno soprattutto con il loro connazionale bianco Richard Leakey (1944-2022). Paleoantropologo ed ex direttore del servizio forestale del Kenya, Leakey era uno scienziato rispettabile, ma secondo Mbaria e Ogada soffriva di gravi manie di grandezza ed esagerava sistematicamente il suo ruolo nella salvaguardia della natura. Il titolo della sua autobiografia La natura in pericolo. La mia lotta per salvare i tesori naturali africani (Dalai 2002) parla da sé.
Le critiche di Mbaria e Ogada non sono isolate. Ogni tanto negli ambienti intellettuali africani si parla di “una nuova corsa all’Africa”, un accaparramento territoriale in veste moderna, questa volta delle aree naturali. Secondo Frank Matose, condirettore del centro Environmental humanities south dell’università di Città del Capo, in Sudafrica, l’ambizione della comunità internazionale di proteggere il 30 per cento della superficie terrestre entro il 2030 fa parte del gioco. “Il carico della tutela ambientale pesa sulle spalle di coloro che, di per sé, creano meno problemi”, dice quando lo incontro nel campus dell’università, che sorge sulle pendici della Table mountain. “L’atteggiamento verso le popolazioni locali che vivono nelle aree naturali protette è praticamente lo stesso che i colonizzatori riservavano agli ‘indigeni’”, scrive in The violence of conservation in Africa (Edward Elgar publishing 2022).
Matose sostiene che la loro esperienza non viene presa sul serio, non hanno diritti sulla loro terra né sulle risorse e quindi è a rischio la loro stessa esistenza. Inoltre devono fare i conti con la violenza e un sistema di governo coercitivo, diverso da quello in vigore nel resto del paese in cui vivono.
La mia inchiesta sull’Ap arriva più o meno alle stesse conclusioni. “I difensori della natura si presentano come benefattori, ma mettono a repentaglio la sovranità degli stati africani”, continua Matose. “Abbiamo dovuto lottare così tanto, in questo continente, per conquistare l’autodeterminazione. Gli stati sono responsabili dei cittadini, del territorio e delle risorse. Non possono svenderli”.
Competenze dello stato
I timori di Matose sono fondati. L’Ap svolge una serie di compiti che sono parte delle responsabilità fondamentali di uno stato sovrano e che in occidente, di solito, non sono presi in considerazione per la privatizzazione. Con il consenso del governo, l’Ap si occupa della sicurezza, di far rispettare le leggi e delle politiche di accesso. Ha il diritto di arrestare la gente e di usare “un minimo di violenza” a sua discrezione. Può togliere la libertà a persone considerate sospette, rinchiudendole in cella prima di consegnarle alla polizia.
Dalle mie ricerche è emerso inoltre che ha ampliato queste competenze, anche se i contratti non lo prevedono. Pur non avendo la formazione necessaria, in Benin i ranger si occupano di antiterrorismo, e secondo diverse fonti anche la sorveglianza delle frontiere è stata delegata all’Ap. Inoltre, ranger di “unità fantasma” pattugliano una riserva naturale che si trova nel territorio del vicino Burkina Faso. A questo proposito l’organizzazione ha preferito non rispondere.
L’African Parks vuole entrare anche nelle questioni di polizia e nel sistema giudiziario, per punire i bracconieri il più severamente possibile. La sede centrale ha incaricato il direttore di un parco in Zambia di assicurarsi che fosse condannato almeno il 75 per cento delle persone accusate di bracconaggio e che meno del 10 per cento dei condannati se la cavasse con una sanzione. Questo significa che l’Ap vuole che la gran parte finisca dietro le sbarre, indipendentemente dalla gravità del reato.
La privatizzazione e l’attribuzione di competenze dello stato vanno a braccetto con la militarizzazione della tutela ambientale. La violenza è al centro della strategia dell’Ap, e la base del suo successo. La disponibilità a operare anche in aree pericolose, come la Rdc, la Repubblica Centrafricana e il Sud Sudan, è fonte di prestigio ma anche di molto denaro. Presentando come una guerra la lotta contro i bracconieri – termine che include i pescatori locali e i raccoglitori di legna – l’Ap mostra che c’è davvero qualcosa in gioco e l’urgenza della situazione.
Di solito gli abitanti del posto sono meno smaniosi di combattere, specialmente se nel loro paese c’è una guerra vera in corso. In alcuni parchi, i ranger si rendono impopolari con la loro prepotenza. Chi vive nei villaggi vicini corre il rischio di essere sequestrato di notte, anche senza il minimo indizio, nel corso di vaste perquisizioni casa per casa. “L’Ap riesce a creare i nemici della tutela ambientale”, osserva una delle mie fonti.
Quanto è sostenibile usare le armi per proteggere un territorio da un mondo ostile? Può sembrare una domanda retorica ma non lo è.
Considerando la potenza economica e il supporto costante dei donatori, probabilmente l’Ap riuscirà a tenere duro ancora per un bel po’ nella maggior parte dei parchi africani. Ma in prospettiva nascono dei dubbi, anche perché è possibile che i governi, allo scadere dei contratti, vogliano riprendere il controllo dei loro parchi.
“L’African Parks sembra Hans Brinker, il personaggio di un romanzo che infila il dito nel buco della diga per fermare l’acqua”, dice Francis Vorhies, direttore dell’African wildlife economy institute, un centro studi dell’università sudafricana di Stellenbosch. “Il punto è guadagnare tempo e sperare che intanto si studino soluzioni sostenibili”. Dunque, l’African Parks costruisce nell’Africa postcoloniale un proprio dominio, voltando le spalle ai territori circostanti e avvalendosi in buona parte della violenza. I neri non erano in grado di farlo: è questa la convinzione che sta alla base dell’Ap, e che ha spinto bianchi africani, europei, statunitensi e israeliani a unire le forze per salvare dalla rovina l’Eden africano.
Resoconti esagerati
Dal canto suo, l’Ap contesta le critiche che le attribuiscono una mentalità coloniale. “Si tratta di una terminologia e di una caratterizzazione che non capisco”, dice Peter Fearnhead quando lo intervisto. “Chiunque dimostri sensibilità per l’Africa e per le conseguenze del colonialismo dovrebbe usare con attenzione il termine, perché minimizza il vero colonialismo. È esattamente il contrario di quello che facciamo. Colonialismo è dominio di uno stato esercitato su un altro stato, da un punto di vista economico, culturale e politico. Noi non siamo uno stato. La nostra presenza dipende dalla volontà del paese ospitante. È neocoloniale, semmai, pensare che un governo non sia capace di gestire il suo paese”.
Ma i metodi dell’African Parks funzionano? I donatori sono entusiasti e nel suo settore l’organizzazione ha una reputazione eccellente. La mia inchiesta, però, rivela che il racconto dei suoi successi è spesso esagerato o, semplicemente, non corrisponde a realtà.
È raro che gli abitanti delle zone adiacenti a un parco la considerino un “faro di speranza” o “un’ancora di stabilità”, come l’Ap si descrive nei bilanci annuali riccamente illustrati. Piuttosto la ritengono una presenza violenta e destabilizzante che sconvolge la vita delle persone e minaccia la loro esistenza.
Per dirla con le parole dell’ex combattente per la libertà Msimang: “Dobbiamo accettare il fatto che il parco non termina con la recinzione, e che le comunità sono spesso ostili nei nostri confronti. Non abbiamo elaborato una filosofia per affrontare la situazione. La vecchia mentalità coloniale è rimasta e mancano persone con idee nuove. Nella salvaguardia della natura serve un cambiamento”. ◆ oa, cn
L’African Parks ha letto le bozze del libro Ondernemers in het wild (in uscita per Add editore all’inizio del 2025). Nella sua replica sostiene che il testo contiene numerosi errori e dichiarazioni fuorvianti, e che giunge a conclusioni errate. L’organizzazione cita alcuni passaggi ritenuti inesatti o ingannevoli, ma non intende entrare nei dettagli finché le “conclusioni sbagliate” non saranno rettificate.
In una comunicazione scritta, ha aggiunto: “Da più di vent’anni l’Ap opera attraverso accordi di lungo termine con dodici governi sovrani e ha ricevuto finanziamenti da enti e agenzie governative di tutto il mondo, tra cui la Commissione europea, l’agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid), l’Istituto di credito per la ricostruzione tedesco (Kfw) e la Banca mondiale, che in cambio chiedono rendicontazioni dettagliate. Non sarebbe stato possibile raggiungere un accordo se le loro indagini approfondite avessero fatto emergere le criticità sistematiche di cui van Beemen accusa l’African Parks. Inoltre i donatori svolgono regolarmente degli audit (verifiche) e dal 2004 ci sono stati controlli finanziari annuali. Anche queste verifiche hanno sempre avuto esiti favorevoli”.
Il cofondatore sudafricano dell’organizzazione, Mavuso Msimang, si è rammaricato di essersi espresso con franchezza durante l’intervista concessa all’autore e sottolinea che ha molti ricordi positivi dell’African Parks. De Groene Amsterdammer
Olivier van Beemen è un giornalista investigativo olandese. Nel 2020 ha pubblicato in Italia Heineken in Africa (Add editore, che pubblicherà anche il suo nuovo libro sull’African Parks).
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Questo articolo è uscito sul numero 1583 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati