“Dovremmo rimettere in discussione il concetto di aree protette, che comprende i parchi nazionali e le riserve naturali”, sostiene l’esperto keniano di tutela ambientale Mordecai Ogada in un articolo sul sito The Elephant. “È un concetto sbagliato. Molto spesso le aree protette sono terre che sono state strappate ai loro legittimi proprietari: i popoli indigeni. Quest’idea si basa sul mito di una natura idealizzata che esiste in un ambiente selvaggio incontaminato, svuotato della presenza umana”.
In Africa, continua Ogada, i parchi naturali furono creati come “spazi per bianchi” e oggi sono ancora tali. “L’unico cambiamento è che con ‘bianco’ non s’intende più solo chi appartiene alla popolazione caucasica: la definizione è stata ampliata per includere le élite di altri gruppi etnici e alcuni tipi di attività. In Kenya i parchi e le riserve sono gestiti dal servizio forestale Kenya wildlife service o da varie autorità regionali, che hanno una caratteristica in comune: la necessità quasi nevrotica di assecondare lo sguardo bianco. Quando il governo coloniale fondò i parchi nazionali per garantire ai bianchi degli spazi in cui divertirsi, lo fece con l’idea che lo stile di vita dei colonizzatori fosse più importante della necessità delle popolazioni locali di sostenersi. In tutto questo tempo non siamo riusciti a cambiare quella mentalità. Nell’area di Loliondo, nel nord della Tanzania, i masai sono stati violentemente allontanati dalle loro terre e dai loro pascoli per fare spazio a un progetto di conservazione, che prevede tra l’altro la caccia sportiva. Questo dimostra che il benessere degli animali selvatici non è il primo pensiero delle politiche di tutela della natura: il primo è espandere il turismo. Le vite delle persone del posto vengono per ultime, ed è quest’ordine di priorità che dovremmo cambiare. Bisognerebbe capire che il turismo dovrebbe essere un effetto dei nostri sforzi di conservazione, non la ragione principale. Sapevamo prenderci cura della natura prima che arrivassero coloni e turisti, e potremmo farlo ancora, anche senza il loro patrocinio”, conclude Ogada.
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Questo articolo è uscito sul numero 1583 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati