L’11 settembre 2005 fu ammainata l’ultima bandiera israeliana sulla Striscia di Gaza. Dopo aver mandato via i coloni che si erano stabiliti lì, le truppe dello stato ebraico abbandonarono quel territorio, conquistato nel 1967 durante la guerra dei sei giorni. Bastione della resistenza all’occupazione israeliana, Gaza passò sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), come previsto dal piano di “disimpegno” voluto dal premier israeliano dell’epoca, Ariel Sharon.
L’enclave costiera di 360 chilometri quadrati e due milioni di abitanti, un concentrato di collera e miseria, avrebbe detto addio alle armi? Sarebbe diventata l’espressione dei sogni dei palestinesi, il prototipo dello stato a cui aspiravano?
Per guidare i suoi primi passi fu scelto un multimilionario ebreo statunitense che aveva familiarità con i grandi del mondo: James Wolfensohn. A 73 anni l’ex presidente della Banca mondiale, appena andato in pensione, accettò il ruolo d’inviato speciale del “quartetto” (Stati Uniti, Unione europea, Russia, Nazioni Unite). La sua missione era risollevare l’economia della striscia di sabbia, dissanguata dalla repressione della seconda intifada (2000-2005). Usando i suoi contatti, Wolfensohn aveva già raccolto nove miliardi di dollari in promesse di donazioni. Sembrava lecito sperare. L’editorialista del New York Times Thomas Friedman prevedeva per Gaza un destino da “Dubai sul Mediterraneo”.
Il covo del male
Un pronostico che oggi lascia un sapore amaro. Sotto assedio dal 2007, bombardato a intervalli regolari, questo lembo di terra palestinese si è trasformato in un vulcano. E all’alba del 7 ottobre ha cominciato a eruttare. Tra raffiche di razzi, più di mille uomini armati di Hamas, il movimento islamista al potere nella Striscia di Gaza dal 2006, hanno sfondato la barriera che separa il territorio da Israele. I miliziani sono arrivati nelle località israeliane vicine, con pick-up, moto e perfino parapendii, seminando il terrore. Secondo l’esercito israeliano, il bilancio dell’attacco è stato di almeno 1.400 morti, per la stragrande maggioranza civili, e 199 persone rapite. La peggiore strage di israeliani dalla creazione dello stato ebraico nel 1948.
In risposta, una pioggia di bombe e missili si è abbattuta su Gaza, decimando intere famiglie. Edifici alti più di dieci piani si sono polverizzati uno dopo l’altro. Quasi 3.500 persone, anche qui per la maggior parte civili, sono morte in un’operazione che probabilmente è solo all’inizio (il 17 ottobre un bombardamento su un ospedale di Gaza ha provocato centinaia di vittime).
Diciotto anni dopo il ritiro del 2005, l’esercito israeliano potrebbe invadere di nuovo la Striscia. Si preparano piani nell’ipotesi di una lunga campagna per smantellare l’infrastruttura militare di Hamas. Nella mente dei leader israeliani il movimento palestinese è “il nuovo Stato islamico”, “un flagello”. E “il covo” di questo male assoluto è Gaza. La stigmatizzazione dell’enclave palestinese ha una storia antica. All’inizio degli anni novanta, dopo la prima intifada (1987-1993), in Israele si usava l’espressione “lekh le-Azza!” (va’ a Gaza!) per dire “va’ al diavolo”. Anche prima degli attentati suicidi che segnarono quel decennio, la Striscia di Gaza era considerata un luogo pericoloso e ripugnante.
Questa anomalia geografica è però opera dei fondatori di Israele. Alla fine del 1948, in piena “guerra d’indipendenza”, David Ben Gurion, primo capo del governo israeliano, rinunciò ad attaccare Gaza, dove erano trincerate le truppe egiziane andate in soccorso dei palestinesi. Nel 1949 l’armistizio firmato con Il Cairo diede vita a questo angusto territorio, popolato da 80mila abitanti originari del luogo e da 200mila rifugiati palestinesi che erano stati cacciati dalle loro case, a nord e a est, dalle milizie sioniste. Temendo che lì scoppiasse un focolaio nazionalista, Ben Gurion cercò di neutralizzarlo. Nel suo libro Storia di Gaza (2012), lo storico e arabista francese Jean-Pierre Filiu spiega che il primo ministro israeliano aveva proposto all’Onu di annettere Gaza, in cambio di un reinsediamento dei rifugiati in terra israeliana. Gli egiziani si erano opposti, diventando automaticamente gli amministratori della regione. Così un’anomalia nata dalla guerra si è consolidata.
Fu allora, negli anni cinquanta, che la resistenza palestinese ottenne i primi successi militari. Israele rispose con l’occupazione di Gaza, dal novembre 1956 al marzo 1957. Una parentesi che causò la morte di un migliaio di palestinesi. Le azioni dei fedayin, i guerriglieri palestinesi, proseguirono dopo l’occupazione del 1967. Al comando sul fronte meridionale, Ariel Sharon reagì nel 1971 lanciando blindati e bulldozer israeliani contro i campi profughi. Rastrellamenti, uccisioni, espulsioni, demolizioni di massa tramortirono Gaza. L’anno seguente i toni cambiarono: Israele concesse ai palestinesi dei territori occupati un “permesso di uscita generale”, che li autorizzava a muoversi senza restrizioni tra il mare e il fiume Giordano. Il numero di abitanti di Gaza che lavoravano in Israele come operai, camerieri, autisti, cuochi o giardinieri salì da cinquemila nel 1968 a 61mila nel 1973. La manovra aveva l’obiettivo di diluire il nazionalismo palestinese nel mondo del lavoro israeliano. E in un primo momento funzionò. Gli stipendi offerti erano nettamente superiori a quelli di Gaza e procurarono una forma di pace sociale. Ma gli effetti dell’occupazione e della colonizzazione, con le violenze e le umiliazioni che portavano, ripresero il sopravvento. La prima intifada esplose nel dicembre 1987. Gaza fu l’epicentro della sollevazione popolare che il ministro della difesa israeliano Yitzhak Rabin promise di sedare “rompendo le ossa” dei giovani lanciatori di pietre.
Verso la chiusura
Hamas emerse in quel momento. Si appoggiava alla rete di un’organizzazione religiosa, Al Mujamaa al islami (Il centro islamico), che si era stabilita nella Striscia di Gaza con il sostegno – inizialmente tacito, poi attivo – dell’occupante. La burocrazia militare israeliana aveva scommesso su questa filiazione dei Fratelli musulmani, che si disinteressava alla politica, per indebolire il fronte nazionalista incarnato dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat. Nella Striscia di Gaza tra il 1967 e il 1986 il numero di moschee affiliate alla confraternita passò da 76 a 150.
Nel 1987 Ahmed Yassin, il leader di Al Mujamaa, decise di dare priorità alla lotta contro l’occupante rispetto all’islamizzazione della società. Le basi del movimento Hamas erano pronte.
Il rallentamento della prima intifada nel 1991 coincise con una misura molto importante: la revoca del “permesso di uscita generale”. Da diritto concesso a tutti i palestinesi, la libertà di spostarsi tra Gaza, Israele e la Cisgiordania si trasformò in un privilegio, accordato solo ad alcune categorie sociali (studenti, uomini d’affari e chi lavorava in Israele). Questa decisione, presa alla vigilia della prima guerra del Golfo (gennaio-febbraio 1991) fu presentata come una misura precauzionale temporanea. Ma la sua portata era molto più ambiziosa. I generali israeliani avevano capito che, favorendo con il “permesso di uscita generale” una riunificazione di Gaza e della Cisgiordania, avevano generato uno slancio che non era estraneo allo scoppio della prima intifada. I teorici in divisa a Tel Aviv raccomandavano ora la “separazione”. Si trattava di disgregare il corpo sociale e politico palestinese.
A questo nuovo regime di mobilità si aggiunse la chiusura. Bastava che l’esercito desse l’ordine per sbarrare il checkpoint di Erez, la porta di uscita da Gaza verso Israele e la Cisgiordania. Il primo ordine arrivò nel marzo 1993, un anno prima che Hamas – che nega ogni legittimità a Israele – lanciasse una serie di attentati suicidi. Ogni giorno di chiusura significava centinaia di migliaia di shekel di stipendi persi.
Il paradosso è che in quel momento cominciava il processo di pace a Oslo. Yitzhak Rabin era diventato primo ministro. “Vorrei che Gaza sprofondasse nel mare, ma questo non accadrà e una soluzione si deve trovare”, dichiarò all’epoca. Furono elaborati dei progetti per creare zone industriali miste alle porte dell’enclave, con capitale israeliano e manodopera palestinese. Ma a ogni azione violenta di Hamas lo stato maggiore israeliano stringeva la morsa sulla Striscia. Chiusure, riduzione dei permessi: queste misure, denunciate come “punizioni collettive”, fecero salire il tasso di disoccupazione nel territorio fino al 70 per cento.
Nel 2000, quando scoppiò la seconda intifada, Israele intensificò la strategia punitiva. Il corridoio aperto qualche mese prima per facilitare i viaggi verso la Cisgiordania fu chiuso. L’aeroporto di Gaza, in funzione da un anno, fu bombardato. Agli studenti di Gaza iscritti all’università in Cisgiordania fu revocato il permesso di uscita. Lo stato ebraico, che controllava il registro anagrafico palestinese, vietò anche i cambiamenti di domicilio tra i due territori. I palestinesi di Gaza che abitavano in Cisgiordania senza un’autorizzazione apposita furono rispediti nella Striscia.
Poi arrivò il ritiro israeliano da Gaza nel 2005. Yasser Arafat era morto nel 2004 e Abu Mazen, il suo successore alla guida dell’Anp, vide l’opportunità di rilanciare il processo di pace. Sperava di restituire un po’ di credito al suo regime, logorato dal fiasco del processo di Oslo, e contenere così la spinta di Hamas. Il movimento islamista riteneva, non a torto, che il disimpegno israeliano fosse la conseguenza della sua strategia armata. A Ramallah gli sforzi di Abu Mazen per coordinare la partenza da Gaza degli 8.500 coloni israeliani si scontrarono con la tattica unilaterale di Ariel Sharon, diventato premier di Israele. Qualche mese prima del ritiro, il consigliere di Sharon, l’avvocato Dov Weissglas, confessava al quotidiano israeliano Haaretz: “Il senso del disimpegno è congelare il processo di pace. Tutto il pacchetto chiamato stato palestinese è stato rimosso a tempo indeterminato dalla nostra agenda”. L’11 settembre 2005 i pezzi grossi di Gaza boicottarono la cerimonia del ritiro dell’esercito israeliano. Avevano la sensazione che invece di restituirgli la chiave di quel territorio le loro controparti l’avessero buttata via.
Constatare il fallimento
Il miliardario James Wolfensohn si mise al lavoro. Il suo strumento principale si chiamava Agreement on movement and access, un accordo israelo-palestinese firmato con il sostegno di Condoleezza Rice, all’epoca segretaria di stato statunitense, che aveva l’obiettivo di rompere l’isolamento di Gaza. Prevedeva il ripristino dei passaggi e dei collegamenti stradali con la Cisgiordania, la creazione di un porto e l’eventuale riapertura dell’aeroporto.
Ma molto rapidamente le cose presero un’altra direzione. Il terminal di Karni, via di accesso al mercato israeliano, apriva solo a intermittenza. Nei giorni in cui era chiuso un ingorgo di camion pieni di pomodori e peperoni si formava davanti ai cancelli. Molti prodotti dovevano essere buttati. Karni si trasformò in un vicolo cieco. Questioni di sicurezza, rispondeva Israele. Il 13 gennaio 2005 sei civili israeliani furono uccisi da miliziani di Hamas che si erano infiltrati nel terminal. Tra il 2005 e il 2006 i lanci di razzi e mortai sulle località nel sud di Israele aumentarono del 300 per cento. La strategia degli islamisti alimentò l’ossessione d’Israele per la sicurezza.
Wolfensohn non si scoraggiò. A Karni furono installati scanner giganti per permettere ai militari israeliani di rilevare la più piccola minaccia nascosta nel rimorchio di un camion. Ma l’interlocutore di Wolfensohn era Amos Gilad. Generale in pensione, capo dell’ufficio politico e di sicurezza del ministero della difesa israeliano, era lui l’uomo dietro il blocco di Gaza. “Con lui la minima richiesta può richiedere mesi”, raccontò all’epoca un diplomatico occidentale. “Non dice mai di no, mai di sì, ma ‘bisogna vedere’ oppure ‘valuteremo’. Inventa tutte le scuse per non fare nulla”.
Le sessioni di lavoro tra la squadra di Wolfensohn e quella di Amos Gilad erano spesso molto animate. Ma nel gennaio 2006 le controversie si appianarono. Hamas aveva appena vinto le elezioni legislative, logica conseguenza del discredito dell’Anp tra la popolazione. Per Washington la priorità non era più risollevare Gaza, ma piuttosto distruggere gli islamisti. Sotto l’influenza di Elliott Abrams, viceconsigliere per la sicurezza nazionale e conservatore, restio a fare qualunque pressione su Israele, la diplomazia statunitense abbandonò l’inviato speciale del “quartetto”, che si dimise nell’aprile 2006. Il suo ultimo rapporto constatava il fallimento: Karni chiuso un giorno sì e uno no, nessun porto, nessun aeroporto, nessun corridoio con la Cisgiordania.
Keith Dayton, coordinatore degli Stati Uniti per la sicurezza in Israele e Palestina, raccolse il testimone. Propose di far uscire i prodotti di Gaza dall’Egitto, attraverso altri due terminal, Kerem Shalom e Rafah. Ma i suoi tentativi s’infransero contro l’intransigenza israeliana e gli sgambetti dei falchi di Washington. “Invece di ritrovare la speranza, i palestinesi hanno capito di essere stati rimessi in prigione. Con un tasso di disoccupazione al 50 per cento il conflitto è inevitabile”, dichiarò Wolfensohn.
A metà giugno del 2007 le forze di Al Fatah, fedeli ad Abu Mazen, furono sconfitte da Hamas nel corso di una guerra civile durata cinque giorni. Il movimento islamista s’impadronì di tutta la Striscia di Gaza, sotto lo sguardo affranto dei negoziatori palestinesi, che avevano lavorato per ridarle ossigeno. Uno di loro spiegò: “Se Karni, Rafah e Kerem Shalom fossero stati aperti prima del colpo di mano di Hamas la situazione sarebbe stata diversa. Viene da chiedersi se gli israeliani non abbiano deliberatamente favorito l’ascesa di Hamas”. Secondo un dispaccio del dipartimento di stato statunitense reso pubblico da WikiLeaks, il 13 giugno, un giorno prima del naufragio di Al Fatah, il capo dei servizi d’intelligence militari israeliani disse all’ambasciatore di Washington a Tel Aviv: “Israele sarebbe felice se Hamas s’impossessasse di Gaza, perché così l’esercito potrebbe trattare Gaza come uno stato ostile”.
A intervalli regolari
I sedici anni successivi sono la cronaca di un cataclisma annunciato. Dichiarato “entità ostile” da Israele, il fazzoletto di terra palestinese è sottoposto a un blocco quasi ermetico dal 2007. È occupazione sotto un’altra forma, il controllo a distanza. “L’idea è mettere i palestinesi a dieta, senza farli morire di fame”, spiegava Dov Weissglas, che dopo l’ictus di Sharon passò al servizio del nuovo primo ministro israeliano, Ehud Olmert. I nutrizionisti dell’esercito israeliano hanno calcolato la razione che permette di mantenere un abitante medio di Gaza appena al di sopra della soglia di malnutrizione: 2.279 calorie al giorno. Sulla base di questa stima lo stato maggiore ha stabilito che ogni giorno potevano entrare a Gaza 131 camion. Ma secondo l’ong israeliana Gisha, specializzata nei problemi di accesso nella Striscia, spesso non si raggiungeva quel numero.
La lista dei prodotti vietati, accusati di “duplice uso”, ha sconcertato gli osservatori. “Avete mai visto bombe a base di lenticchie? Qualcuno ucciderà con la pasta?”, chiedeva nel 2009 il deputato democratico statunitense Brian Laird, di ritorno da una visita a Gaza. Il contrabbando attraverso i tunnel di Rafah, fiorente in quegli anni, ha permesso di evitare penurie troppo gravi.
A intervalli regolari i cacciabombardieri israeliani hanno attaccato Gaza in risposta al lancio di razzi di Hamas: 2008-2009, 2012, 2014 e 2021. Si sono susseguite quattro guerre, che hanno provocato la morte di migliaia di palestinesi. Si trattava di “falciare l’erba”, hanno spiegato gli strateghi israeliani, cioè di mantenere le capacità offensive di Hamas a un livello sopportabile. Una ricetta per la guerra perpetua. Hamas e Al Fatah hanno annunciato più volte una riconciliazione o la formazione di un governo di unità nazionale. Ma queste iniziative sono sempre fallite. Nessuno dei due gruppi rivali era pronto a condividere l’esiguo potere esercitato nel suo feudo.
Pressato dalla comunità internazionale, nel 2017 Hamas ha modificato il suo manifesto, un testo spesso astruso, infarcito di frasi antisemite. Il nuovo documento, più presentabile, parlava di uno stato in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza come di una “base comune per tutte le fazioni palestinesi”. Ma non riconosceva Israele, la condizione dei paesi occidentali per aprire un dialogo con il movimento.
Nel 2018 e nel 2019 Hamas e altre organizzazioni palestinesi hanno partecipato alle “marce del ritorno” lungo la recinzione di Gaza, un’iniziativa della società civile per protestare contro un assedio soffocante. La mobilitazione è stata repressa con violenza. Nel giro di un anno i cecchini israeliani hanno ucciso quasi duecento persone e ne hanno ferite 7.100.
La rabbia che montava a Gaza e la disperazione della popolazione non hanno allarmato Benjamin Netanyahu, al potere dal 2009. Valigie di dollari dal Qatar, accordi occasionali e riservati con Yahya Sinouar (il capo di Hamas), bombardamenti meticolosamente dosati: Netanyahu credeva di aver trovato la formula giusta per contenere gli islamisti e realizzare il suo piano. “Chiunque voglia ostacolare la creazione di uno stato palestinese deve sostenere la nostra politica di rafforzamento e d’invio di denaro a Hamas”, spiegava nel marzo 2019 ai parlamentari del Likud, il suo partito. “Fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza da quelli della Cisgiordania”. Mezzo secolo di occupazione ha creato un mostro. Il 7 ottobre quel mostro si è svegliato. ◆ fdl
◆ La sera del 17 ottobre 2023 un’esplosione ha colpito l’ospedale Al Ahli al arabi nella città di Gaza. Il bilancio delle vittime è ancora incerto, ma fonti del ministero della salute locale parlano di almeno cinquecento morti. Nell’ospedale avevano trovato rifugio migliaia di persone le cui case erano state distrutte dai bombardamenti israeliani. Le autorità palestinesi hanno attribuito la responsabilità dell’attacco a Israele, secondo cui invece l’ospedale sarebbe stato colpito per errore da un missile del gruppo palestinese Jihad islamica. Dopo la notizia del massacro, a Ramallah, in Cisgiordania, sono scoppiate proteste contro l’Autorità nazionale palestinese, represse dalla polizia palestinese. Altre manifestazioni si sono svolte davanti alle ambasciate israeliane in Turchia e in Giordania, e a quella statunitense in Libano, dove le forze di sicurezza hanno lanciato gas lacrimogeni contro i manifestanti. Reuters
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Questo articolo è uscito sul numero 1534 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati