Due anni e mezzo dopo il golpe militare in Birmania, ci si chiede non tanto cosa possano fare gli altri paesi dell’Associazione delle nazioni del sudest asiatico (Asean), ma se l’organizzazione sopravvivrà alla crisi. Per i suoi detrattori, l’Asean ha mostrato ancora una volta i suoi punti deboli, scivolando dall’impotenza politica all’irrilevanza regionale. Tutti i segnali indicano che la Cina ha preso l’iniziativa rafforzando ulteriormente la sua posizione, mentre l’occidente, che di solito è presente quando si tratta di fare pressione sui generali al potere in Birmania, è occupato con la guerra in Ucraina.
Il primo, debole tentativo dell’Asean di affrontare la presa del potere del generale Min Aung Hlaing risale al 24 aprile 2021, quasi tre mesi dopo il golpe. Allora il capo della giunta militare aveva incontrato i leader degli altri nove stati membri a Jakarta accordandosi su una “intesa (consensus) in cinque punti”, che invocava l’immediata fine delle violenze e l’instaurazione di un “dialogo costruttivo” tra “tutte le parti coinvolte”. La parola consensus era stata scelta con molta attenzione perché è uno dei due princìpi cardine dell’Asean, insieme alla “non interferenza”. Di fatto significa che il blocco non può intervenire contro nessuno dei partner né in un loro conflitto. Dalla sua istituzione nel 1967, l’Asean ha vissuto molti momenti di questo tipo: l’invasione di Timor Leste da parte dell’Indonesia nel 1975; le infinite dispute di confine tra Thailandia e Laos, Cambogia e Vietnam e Malaysia e Filippine; gli scontri alla frontiera tra Thailandia e Cambogia. E non ha fatto nulla per risolvere questi problemi.
È stato sciocco aspettarsi che l’Asean potesse promuovere la democrazia
Non c’è da stupirsi, quindi, se Min Aung Hlaing ha creduto di poter ignorare l’intesa e continuare con la sua sanguinosa campagna contro la resistenza. Nel frattempo i manifestanti contrari al colpo di stato hanno bruciato la bandiera dell’Asean per le strade di Yangon e Mandalay, accusando l’organizzazione di non essere credibile e di aver legittimato il potere della giunta. Gli inviati dell’Asean in Birmania non hanno avuto il permesso di incontrare Aung San Suu Kyi, la leader di fatto del governo civile deposto dai generali, che oggi è in carcere. Lo stesso vale per gli inviati dell’Onu e per gli avvocati di Suu Kyi. Poi però l’11 giugno, a sorpresa, il ministro degli esteri tailandese Don Pramudwinai l’ha incontrata nel carcere di Naypyitaw. Don ha incontrato anche Min Aung Hlaing e, a margine di un incontro tra ministri degli esteri a Jakarta, ha informato gli altri stati dell’Asean.
Non è chiaro come e da chi sia stato organizzato il viaggio di Don. Un indizio è arrivato alla fine di luglio, quando Deng Xijun, inviato speciale della Cina, è andato in Birmania. Anche se non ci sono conferme ufficiali, pare che anche Deng abbia incontrato Aung San Suu Kyi, che a quel punto era stata trasferita dalla sua cella a un alloggio più comodo nella capitale. La giunta ha anche annunciato una grazia parziale per lei, una misura salutata da molti come un “passo avanti” o addirittura, per usare le parole di Don, come una “svolta”. A molti è sfuggito che la grazia era per lo più simbolica. Aung San Suu Kyi, condannata a 33 anni di carcere, dovrà scontarne ancora 27.
Gli incontri a Naypyitaw hanno spinto Malaysia e Filippine a dire che i paesi dell’Asean dovrebbero poter mettere in campo una loro strategia per affrontare la crisi birmana. In altri termini, l’Asean come gruppo è diventata superflua. L’8 agosto il presidente indonesiano Joko Widodo ha affermato che il blocco, Birmania inclusa, deve continuare a collaborare per risolvere la crisi: “L’Asean è una grande nave che deve andare avanti, non può affondare, perché abbiamo una responsabilità nei confronti delle centinaia di milioni di persone a bordo”. Il blocco però è già affondato. Secondo fonti interne, è stata la Cina ad aver preparato il terreno per gli incontri di Don a Naypyitaw, e la visita di Deng, un mese dopo, ha confermato il ruolo di Pechino. Mentre l’occidente presta poca attenzione alla Birmania, la Cina sta diventando l’unico giocatore in campo.
Non sono buone notizie per la Birmania, e comunque è stato sciocco aspettarsi che l’Asean potesse promuovere la democrazia. Nel febbraio 2021, due settimane dopo il golpe, l’ex premier australiano Kevin Rudd, all’epoca presidente dell’Asia society, aveva detto che bisognava percorrere la strada del dialogo con i golpisti sotto “la guida dell’Asean”. Il 30 aprile 2021 l’Unione europea, che ha imposto sanzioni contro i golpisti, dichiarava di “essere pronta a sostenere l’Asean per facilitare un dialogo costruttivo e riportare la Birmania su un percorso di democrazia”.
Si dimentica spesso, però, che l’Asean è un consesso di regimi per lo più non democratici. Vietnam e Laos sono dittature guidate da partiti comunisti e la Cambogia è governata da un regime autoritario che non ha mostrato nessun interesse ad aderire ai princìpi democratici. Il Brunei è una monarchia assoluta. La Malaysia ha alternato periodi di repressione ad altri di maggiore apertura. Singapore non è famosa per il rispetto delle opinioni dei dissidenti e in Thailandia l’esercito ha più volte fatto colpi di stato contro governi eletti (a maggio si sono tenute le elezioni, ma il senato, nominato dai militari, ha bocciato il governo del partito vincitore). Le Filippine hanno istituzioni democratiche ma sono tormentate dalla corruzione, mentre l’ex presidente Rodrigo Duterte è accusato dal procuratore capo della Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità. E poi naturalmente c’è la Birmania. Dei dieci paesi dell’Asean, solo l’Indonesia, ora presidente di turno, potrebbe essere considerata un paese stabile e ragionevolmente democratico. Proprio all’Indonesia gli organismi internazionali, inclusa l’Onu, si sono rivolti perché assumesse un ruolo di primo piano nella soluzione della crisi birmana. Progressi però non ce ne sono stati, a causa delle norme che stabiliscono ciò che l’Asean può o non può fare.
Nel frattempo ad agosto il primo ministro di Timor Leste Xanana Gusmão ha dichiarato che, se il blocco non fosse riuscito a risolvere il conflitto in Birmania il suo paese avrebbe riconsiderato l’idea di accedere all’Asean. “Timor Leste, un paese che ha sposato la democrazia, non può accettare in alcun modo regimi guidati da giunte militari e non potrebbe ignorare le violazioni dei diritti umani commesse in Birmania”, ha aggiunto Gusmão.
La presidenza dell’Asean ruota ogni anno seguendo l’ordine alfabetico dei nomi inglesi degli stati membri, il che vuol dire che nel 2024 toccherà al Laos (nel 2026 sarebbe la volta della Birmania/Myanmar, ma al vertice dell’Asean che si chiude l’8 settembre, dove il generale birmano Min Aung Hlaing non è stato invitato, si è deciso che salterà il turno). Vientiane non è famoso per prendere l’iniziativa in politica estera e dipende fortemente dalla Cina, che in Laos ha fatto grossi investimenti in progetti infrastrutturali: la ferrovia ad alta velocità che collega i due paesi, diverse dighe per la produzione di energia idroelettrica, l’istituzione di zone economiche speciali.
L’abbraccio di Pechino
L’esercito birmano, fortemente nazionalista, ha cercato per anni di alleggerire la sua dipendenza dalla Cina, prima avviando relazioni nella difesa con la Russia e con la Corea del Nord e poi, dopo le elezioni del 2010, cercando di stabilire un rapporto del tutto nuovo con l’occidente, che prevedeva l’apertura del paese e la concessione, senza precedenti, di libertà politiche. Tutto è cambiato nel 2021, con il golpe di Min Aung Hling. Le relazioni con la Russia sono più strette che mai e pare che la giunta abbia ristabilito un certo grado di cooperazione con Pyongyang. E alla fine i militari birmani hanno dovuto implorare il sostegno di Pechino per poter sopravvivere.
Il prezzo da pagare è stato molto alto. Il 22 agosto Irrawaddy ha scritto che la Cina sta aiutando la giunta a suon di miliardi, per un valore che copre il 23,5 per cento del totale degli investimenti stranieri. Vale la pena di osservare che quei soldi sono quasi tutti destinati allo sviluppo di impianti per l’energia idroelettrica – di cui Pechino sarà la principale beneficiaria –, di ferrovie e altre infrastrutture che legheranno in modo ancora più stretto il paese alla Cina. Il che vuol dire più soldi nelle tasche dei militari e pochi miglioramenti nelle condizioni di vita dei birmani.
Mentre l’Asean rischia di non avere un futuro, la Cina consolida il suo ruolo di potenza dominante nell’Asia sudorientale. Quando l’occidente se ne renderà conto, probabilmente dopo la fine della guerra in Ucraina, potrebbe essere troppo tardi. E il sogno di una Birmania democratica e federale sarà più lontano. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1528 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati