Il 12 marzo 2020, dopo aver affermato per settimane che la pandemia di covid-19 era “sotto controllo”, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump decise di chiudere i confini nazionali a tutti gli spostamenti “non essenziali”. Così mi trovai davanti a un dilemma. Avevo lasciato gli Stati Uniti, dove ero corrispondente del Groene Amsterdammer, per passare un periodo a casa, nei Paesi Bassi. Avevo ventiquattr’ore di tempo per decidere da quale lato del confine rimanere bloccato: scelsi gli Stati Uniti. Le leggi della domanda e dell’offerta cominciarono a fare il loro lavoro: il biglietto che comprai all’ultimo momento era assurdamente caro, e fu un primo esempio dell’aumento dei prezzi che avrebbe causato tanta rabbia durante la pandemia. Verso le sei di sera la polizia di frontiera mi timbrò il passaporto all’aeroporto Dulles di Washington. Welcome back. Un’ora più tardi il confine fu chiuso, e sarebbe rimasto così per quasi due anni.

Partendo dai Paesi Bassi avevo preparato una valigia in più che conteneva alimenti non deperibili, caffè e altre cose la cui scarsità per periodi lunghi avrebbe rischiato di mettermi in crisi. Al duty free dell’aeroporto di Amsterdam comprai una bottiglia grande di bourbon. Mi sembrava una buona merce di scambio, nel caso in cui si fosse arrivati al punto in cui avremmo smesso di usare i soldi per ottenere dei prodotti. Una temporanea carenza di pasta nei supermercati olandesi, ampiamente trattata sui social media, aveva reso quel timore piuttosto concreto. “La paura che la pandemia danneggiasse in modo irreparabile la vita economica e sociale portò molti consumatori a fare scorte di beni di prima necessità”, ricorda l’analista geopolitico Bruno Maçães nel suo libro appena uscito World builders: tech­nology and the new geopolitics (2025), in cui si sofferma sulle conseguenze a lungo termine della pandemia. “Da economisti dilettanti eravamo certi di una cosa: se il colpo è abbastanza forte, l’economia crolla come un castello di carte”.

Per un po’ sembrò che sarebbe andata proprio così. La prima volta che uscii per fare la spesa a Washington, accanto all’ingresso del supermercato Trader Joe’s c’erano due militari della guardia nazionale. Controllavano che nel negozio non entrassero troppe persone alla volta. Probabilmente erano lì anche per evitare saccheggi. Poco dopo i ristoranti chiusero. Mangiai un’ultima volta in un bistrot francese dietro l’angolo, da solo. Lo vissi come un pasto d’addio, anche se non era del tutto chiaro a cosa bisognava dire addio. Con il senno di poi, mi sembra tutto piuttosto ridicolo. Non ci fu alcuna grave carenza di viveri. Un anno dopo i ristoranti erano di nuovo aperti, anche se con meno tavoli.

La mia immaginazione, sarebbe emerso poi, era ancora troppo legata al mondo fisico e analogico. “Immaginate file lunghissime, affollate di persone spazientite con la mascherina e a due metri di distanza le une dalle altre, che aspettano ore per comprare un po’ di carta igienica”, aveva scritto il blogger statunitense Noah Smith nel marzo del 2021 in un articolo su Bloom­berg intitolato “Immaginare l’economia del covid-19 prima di Zoom e Amazon”. In effetti la tecnologia digitale ha reso più facile per tutti comprare e comunicare senza dover uscire di casa. Chi aveva il privilegio di svolgere un lavoro che non richiedeva la presenza fisica ha potuto portare avanti anche quella parte della sua vita senza troppi rischi.

Gli strumenti con cui si è combattuto il virus sono stati i provvedimenti sanitari e i vaccini ma, soprattutto nel primo periodo della pandemia, la curva dei contagi è calata grazie a internet. “La grande migrazione al digitale durante la pandemia ha mostrato gli enormi vantaggi di poter lavorare e vivere in un universo artificiale parallelo”, scrive Maçães.

Il trasferimento al digitale, già in pieno svolgimento prima della pandemia, è diventato permanente. Ordinare prodotti online invece di andare a comprarli, la casa come luogo principale in cui si svolge la vita, la rinuncia al contatto fisico: moltissime abitudini dei tempi del covid sono diventate la norma. Concetti come lockdown, attività essenziali o non essenziali, e distanziamento sociale sono ormai termini d’uso comune, pronti per essere usati ancora se dovesse presentarsi un nuovo virus. Le tecnologie per guidare il comportamento umano – i codici qr, il monitoraggio dei movimenti, il controllo delle temperature corporee – sono state testate e ulteriormente sviluppate, con tutti i rischi di un “autoritarismo digitale” che comportano.

Rimozione collettiva

Ormai l’inizio è storia antica, vista la quantità di eventi che si sono verificati da allora. Fa impressione quanto poco la pandemia sia presente nelle conversazioni, nei mezzi d’informazione e nell’arte, almeno rispetto all’impatto della crisi sanitaria e allo sconvolgimento totale che ne era seguito.

La rimozione è propria delle pandemie, come notarono diverse persone già nei primi giorni del virus. Sul New York Times, a marzo del 2020, l’editorialista David Brooks aveva paragonato la pandemia di covid a quella d’influenza spagnola dell’inizio del novecento. Era costata la vita a quasi settecentomila statunitensi, ma dopo non se n’era praticamente più né parlato né scritto. Secondo Brooks il motivo andava cercato nell’incapacità degli Stati Uniti di occuparsi dei malati. “Forse il paese si vergognava di ciò che era diventato”, scrisse Brooks. La pandemia di covid sembra aver rinnovato quella vergogna: tra tutti i paesi “sviluppati”, gli Stati Uniti sono quelli che hanno perso la percentuale più alta di popolazione. Il virus ha fatto più vittime di tutte le guerre in cui il paese ha combattuto nel novecento.

I paese usciti dal periodo della pandemia conservando un minimo di orgoglio non sono molti. I Paesi Bassi si aggrapparono a lungo all’idea secondo cui una popolazione caparbia e amante della libertà poteva decidere da sola cos’era sensato fare di fronte a un virus sconosciuto. Qui i lockdown furono definiti “intelligenti”, suggerendo implicitamente che gli altri agissero a casaccio. Il risultato fu una politica incoerente, una mortalità relativamente alta e una partenza rallentata della campagna vaccinale. Negli Stati Uniti io avevo già fatto il secondo vaccino quando nei Paesi Bassi i settantenni aspettavano ancora l’appuntamento per il primo. Così il covid arava i campi in cui seminavano i populisti olandesi.

O forse c’è un’altra spiegazione sul perché il capitolo del covid sembra concluso. Magari non sono i ricordi dolorosi ma la facilità con cui abbiamo cambiato stile di vita a impedirci di vedere la pandemia come un drammatico punto di rottura. “Se ci avessero chiesto di dipingere uno scenario pandemico prima dell’arrivo del fatale anno 2020, la maggior parte di noi si sarebbe immaginata momenti di caos e scompiglio, paragonabili al collasso di Firenze durante la peste, come descritto da Boccaccio nel Decamerone”, scrive Bruno Maçães in World builders. Ma, invece di un collasso, con il covid abbiamo visto un rapido adattamento alle nuove circostanze.

Un malato di covid a Cenate Sotto, in provincia di Bergamo, 15 marzo 2020 - Fabio Bucciarelli, The New York Times/Contrasto
Un malato di covid a Cenate Sotto, in provincia di Bergamo, 15 marzo 2020 (Fabio Bucciarelli, The New York Times/Contrasto)

In quasi tutte le democrazie il sostegno pubblico alle misure di contenimento del virus è stato molto maggiore rispetto al dissenso. “Le regole cambiavano di giorno in giorno e la vita seguiva modelli del tutto nuovi, una trasformazione che ricorda l’impatto delle grandi rivoluzioni politiche del passato”, sostiene Maçães. Si è visto che è possibile riorganizzare le società – a prescindere dalla loro posizione geografica e dal loro sistema politico o economico – in breve tempo e senza causare rivolte di massa.

La parte di popolazione a cui il covid sembra ancora in qualche modo presente è quella degli scontenti, che consideravano le misure di allora una violazione illegittima delle libertà personali e i lockdown, il divieto di riunirsi e la campagna vaccinale una prova definitiva che i governi, anche quelli eletti democraticamente, usano metodi autoritari per i loro piani sinistri. Le politiche adottate durante la pandemia hanno portato indubbiamente a gravi tensioni. Diritti e libertà, talvolta anche costituzionali, sono stati temporaneamente sospesi. Allo stesso tempo, il motivo di una simile violazione si basava sul principio di garantire a tutti la maggiore libertà possibile.

La politica durante il covid ha seguito la massima del filosofo liberale John Stuart Mill: la libertà di un cittadino finisce dove comincia quella di un altro. E il contagio con un virus potenzialmente mortale interferisce in modo piuttosto drastico con la libertà altrui. La dottrina liberale di Mill è stata completata con un pizzico di Carl Schmitt, il filosofo tedesco del novecento che affermò che il potere è determinato dalla capacità di dichiarare un’emergenza e di sospendere i diritti. Negli ultimi cinque anni gli elettori che vivono in paesi democratici hanno espresso un giudizio su come è stato gestito il potere dello stato. Anche se la lotta alle pandemie non è stata un argomento all’ordine del giorno, l’epoca del covid è presente soprattutto in modo implicito: le grandi correnti politiche che erano presenti sottotraccia già prima dell’inizio dei contagi hanno cominciato a farsi sentire con più forza.

Oltre all’insoddisfazione verso le élite al potere, si è fatto strada anche il tema dell’incapacità delle democrazie liberali di fornire a tutti i cittadini un terreno sufficientemente stabile sotto i piedi. Altre preoccupazioni riguardano un pianeta che rischia di diventare invivibile e la questione delle migrazioni. Negli anni del covid si diceva che chi voleva attraversare i confini andava fermato perché poteva portare con sé un agente patogeno. Così la retorica contro l’immigrazione e la politica del covid hanno formato un tandem ideale. Entrambe si basavano sull’idea “teniamo fuori loro per tenere al sicuro noi”, come ha scritto David Runciman nel 2024 sul Guardian.

Insieme da soli

Per un po’ è sembrato che il covid avrebbe potuto inaugurare una nuova epoca di unità e cooperazione. Infatti, anche se le persone reagiscono diversamete a un’infezione, davanti al virus erano tutte uguali. Solo che l’idea di una fratellanza creata dal covid era diametralmente opposta a tutto ciò che la pandemia ha finito per significare: gli altri sono diventati un pericolo da evitare, incontrarsi era impossibile. Perfino la morte e il lutto sono diventati un’esperienza solitaria. Qualunque cosa significasse la pandemia, presto è diventato chiaro che avrebbe spinto le persone a fare ancora di più affidamento sulle proprie forze, il che non è mai un buon punto di partenza per un dibattito pubblico ragionevole. Ecco il primo, grande paradosso del covid: era un evento mondiale che riguardava tutti, però tutti eravamo chiusi in casa con i nostri pensieri e le nostre paure. “La pandemia ha messo in risalto cosa ci unisce e cosa ci divide. Non ha fatto molto per cambiare i contorni di queste divisioni”, scrive Runciman.

La democrazia liberale è un sistema che si sostiene sulla soddisfazione della gente. Oggi quella soddisfazione è quasi inesistente

Anche sul piano internazionale la reazione al covid è stata un esercizio del “ciascun per sé”. Ogni paese doveva assicurarsi di avere vaccini e dispositivi medici – che all’inizio erano scarsi – sufficienti per la sua popolazione, prima di poter pensare a condividerli. Durante la pandemia i confronti tra stati sono diventati uno sport diffuso. Citare esempi di politiche sul covid che avevano successo o che, al contrario, erano fallimentari, era un modo per valutare il proprio pacchetto di misure sanitarie. Spesso queste discussioni non duravano molto. I picchi nel numero di contagi continuavano a spuntare in luoghi diversi.

Si preparava una nuova era di concorrenza tra nazioni. “L’ironia del covid-19” – così la chiamano gli scienziati Colin Kahl e Thomas Wright nel loro libro Aftershocks: pandemic politics and the end of the old international order (2021) – è che nel 2020 c’erano moltissime istituzioni internazionali che durante l’influenza spagnola del 1918-1920 non esistevano. “Eppure”, concludono, “i governi sono andati ognuno per la propria strada, spinti da rivalità strategiche e spinte nazionalistiche”. Questa è una descrizione accurata dell’ordine mondiale che si sta diffondendo nel burrascoso mondo postcovid.

Inizialmente l’aspettativa generale era che la pandemia e la chiusura improvvisa delle economie nazionali avrebbero aumentato ancora di più il divario tra ricchi e (sempre più) poveri. Le ricerche degli storici dell’economia avevano infatti mostrato che, di solito, tra le conseguenze di un’epidemia c’è una crescita della disuguaglianza. Nel caso della pandemia di covid non è successo, o è successo solo in misura ridotta, come ha constatato di recente l’istituto Bruegel, un centro studi europeo. Questo grazie agli enormi piani di aiuto che le autorità nazionali hanno messo a disposizione per attutire i colpi della paralisi economica. Sussidi per continuare a pagare gli stipendi nonostante il lavoro si fosse fermato, sconti sulle tasse e aiuti diretti in contanti hanno contribuito a evitare un’impennata della curva della disuguaglianza, sia all’interno di ciascun paese sia tra paesi diversi.

Insomma, il divario economico non è aumentato, ma non è nemmeno diminuito. Chi sperava in una rottura con il capitalismo neoliberale è rimasto deluso. “A tre anni dall’inizio della pandemia, è chiaro che le differenze tra ricco e povero, sicuro e precario, giovane e vecchio, urbano e rurale, con formazione pratica o teorica, causate da quarant’anni di neoliberalismo spinto, sono diventate ancora più incolmabili”, ha scritto Ewald Engelen nel suo libro Wappie. Coronadagboek (2023).

Pausa pranzo nella fabbrica della Dongfeng Honda a Wuhan, Cina, 23 marzo 2020 - Afp/Getty
Pausa pranzo nella fabbrica della Dongfeng Honda a Wuhan, Cina, 23 marzo 2020 (Afp/Getty)

Una scelta politica

Anche per quanto riguarda la questione climatica, la realtà è andata in modo diverso da quello che si sperava quando il virus ha messo in pausa intere società. Dato che anche le attività più inquinanti – prendere un aereo, guidare l’auto, l’intero modello di consumo capitalista – si erano in gran parte fermate, era cresciuta la speranza di una svolta sostenibile. Per esempio il geografo Danny Dorling, in un’intervista al quotidiano olandese Nrc Handelsblad, aveva previsto che dopo il covid ci sarebbe stato un “mondo più lento”. “Cos’altro avrebbe potuto succedere per farci smettere di prendere l’aereo? Eravamo dipendenti dai viaggi aerei. Ci comportavamo in modo irresponsabile, e su vasta scala. Per cui in questa crisi ci sono dei lati positivi”, dichiarò Dorling.

Il problema dei viaggi in aereo aveva un significato soprattutto simbolico: l’umanità era sulla strada sbagliata, ma non riusciva a correggersi. In quest’ottica sarebbe stato possibile vivere il covid, per quanto terribile, come un’esperienza purificante. Solo che le cose non sono andate così. Il numero annuo di passeggeri degli aerei è tornato ai livelli di prima della pandemia, le vacanze al sole e sulla neve sono tornate a essere la normalità. Appena i confinamenti sono stati revocati, le emissioni mondiali di anidride carbonica sono schizzate di nuovo alle stelle.

La facilità con cui l’economia fossile si è fermata per poi ripartire immediatamente ha portato a un amaro stupore. “Perché gli stati del nord del mondo hanno agito per contrastare il covid, ma non fanno niente contro il cambiamento climatico?”, si chiede l’ambientalista svedese Andreas Malm nel suo libro Clima, corona, capitalismo (Ponte alle Grazie 2021). Il parallelo cercato da Malm è chiaro: proprio come la pandemia di covid, anche la crisi climatica è un evento mondiale. Il virus ha conseguenze mortali, esattamente come le emissioni incontrollate di gas serra. E in entrambi i casi le conseguenze sono distribuite in modo ingiusto. Chi può permetterselo trova il modo di salvarsi, almeno temporaneamente. Gli altri devono affrontare per primi e più duramente il pericolo. Una delle verità messe a nudo dalla pandemia è che lasciar peggiorare la crisi climatica è una scelta politica. Nella domanda di Malm si nasconde un desiderio del movimento per il clima e dei suoi simpatizzanti: dichiarare lo stato di emergenza anche a causa delle temperature che mettono a rischio la vita di tutti.

La cosa particolare della crisi del covid è che sono stati duramente contraddetti i soliti argomenti per cui è impossibile realizzare piccoli o grandi cambiamenti del sistema. Appena si presentava una nuova variante il potere politico, che fosse stato eletto o no, si rivelava più forte di ogni sistema economico e sociale. Anche la difficoltà di cambiare i comportamenti umani non è stata insormontabile. A tutti è capitato di avvicinarsi troppo a qualcuno, di tossire in aria invece che nel gomito, o di avere un paio di invitati di troppo a casa. A grandi linee, però, è risultato perfettamente possibile rinunciare ad abitudini sociali profondamente radicate.

New York, 24 maggio 2020 - Al Bello, Getty
New York, 24 maggio 2020 (Al Bello, Getty)

Anche forze astratte come “il mercato” o “l’economia” si sono dimostrate molto più malleabili di quanto si credesse. La catastrofe economica, normalmente conseguenza logica dell’interruzione degli scambi, è stata sventata con investimenti pubblici mai visti prima. Sono state smontate le dottrine sul debito pubblico e sulle possibilità d’intervento dei governi. Il mercato, inoltre, si è rivelato estremamente dinamico. Una fabbrica d’armi si è potuta rapidamente convertire alla produzione di respiratori. Vaccini che normalmente richiedono anni di ricerca sono stati sviluppati in pochi mesi. La reazione al virus, conclude Bruno Maçães in World builders, ha mostrato il nostro sistema sociale ed economico per ciò che era: “Una costruzione, un mondo virtuale”. Una “verità nascosta”, che però “una volta svelata non si può più dimenticare”.

Il colpo finale

E questo è il secondo paradosso del covid. Il grande tema della pandemia è stato la limitazione. Da un momento all’altro le occupazioni che davano struttura alla vita quotidiana hanno smesso di essere possibili. Luoghi e persone che erano punti fermi dell’esistenza di un individuo sono improvvisamente diventati irraggiungibili. Allo stesso tempo, la pandemia ha dimostrato che quasi tutto è possibile. I limiti erano immaginari e accettati volontariamente. Viene da pensare a Truman Burbank, il cittadino modello interpretato da Jim Carrey in The Truman show. Alla fine del film Truman va letteralmente a sbattere contro il confine di quello che risulta essere un mondo artificiale. Si può aprire una finestrella ed entrare in un mondo del tutto nuovo. Non è così strano che alcuni siano arrivati alla fine della pandemia totalmente sfasati. La scoperta che le strutture sono illusorie è liberatoria e, allo stesso tempo, spaventosa. Le due emozioni in conflitto possono facilmente causare un cortocircuito psicologico, soprattutto nei gruppi che dalle vecchie strutture ottenevano un vantaggio.

Così si può spiegare in parte il successo dei populisti negli anni dopo il covid. Le elezioni dopo la pandemia hanno messo fine a molte carriere politiche, in particolare quelle al servizio dell’ordine dominante. Molte sconfitte elettorali degli ultimi tempi sono dovute a elettori che ne hanno abbastanza delle persone al potere. Questo sentimento era già presente nelle democrazie occidentali prima che arrivasse il virus, ma qui va citata un’osservazione di David Runciman: “La pandemia e le sue conseguenze – i lockdown, lo sconvolgimento economico, l’inflazione, l’insofferenza verso le élite politiche – si sono sommate ai punti deboli già presenti nella nostra politica, e li hanno aggravati”.

Ad avere avuto più successo sono state le figure politiche con una retorica e uno stile di leadership che offrono proprio ciò di cui la pandemia ci aveva privato: certezze assolute. Donald Trump, bocciato nelle urne quando i contagi aumentavano in modo incontrollato, e tornato a pandemia finita, è l’esempio perfetto. Il fatto che lo stesso presidente possa prima essere responsabile di una politica sul covid disastrosa e poi sia scelto per ripulire le macerie dell’epoca postcovid, dimostra che gli elettori non hanno basato il loro giudizio sul modo di affrontare la pandemia.

Molto più importante è la misura in cui i movimenti politici hanno recepito le nuove verità messe in luce dal covid. Il messaggio secondo cui era possibile un sistema sociale ed economico diverso da quello liberaldemocratico dominante risuonava già da un po’. L’idea di una democrazia liberale universale come inevitabile capolinea di secoli di lotta politico-ideologica si stava già erodendo. Il covid è stato il colpo finale, in primo luogo perché è emerso che in determinate circostanze anche le società libere usano mezzi autoritari: il divieto di uscire di casa e la sorveglianza sono stati applicati ovunque per contrastare il virus, e anche nelle democrazie le procedure parlamentari sono state in un certo modo messe da parte. In secondo luogo perché i princìpi che avevano organizzato il mondo nei decenni precedenti si sono rivelati contingenti.

In World builders, Maçães paragona la società liberale al film Matrix, in cui il protagonista Neo capisce che il mondo in cui vive è una simulazione. L’ideologia è una forma di simulazione, afferma Maçães: “È la rappresentazione di un mondo ideale nelle menti degli oppressi per nascondere la dura realtà della loro esistenza”. Chi aveva già rinunciato a credere nell’ordine costituito, durante la pandemia non ha avuto motivo di ricominciare a crederci. Chi ha sperato che il lockdown, la chiusura dei confini e il distanziamento sociale sarebbero stati un percorso di purificazione verso un mondo più giusto e sostenibile, è rimasto deluso. Il mondo postcovid ha lasciato quasi tutti scontenti. La democrazia liberale è un sistema che si sostiene sulla soddisfazione della gente. Cinque anni dopo l’inizio della pandemia, quella soddisfazione è quasi inesistente.

La doppia crisi
Percentuale di voti ottenuti dai partiti di estrema destra nelle democrazie europee - our world in data, ParlGov, The PopuList
Percentuale di voti ottenuti dai partiti di estrema destra nelle democrazie europee (our world in data, ParlGov, The PopuList)

Caos in ritardo

A questo si aggiunge uno slittamento generale dall’ottimismo e dalla convinzione che il futuro sarà migliore a un’immagine del mondo più pessimista o, se si preferisce, più realista. “In generale gli occidentali della nostra generazione non si aspettano che possano vincere i cattivi, perché ci è stato insegnato a credere nel progresso”, ha scritto di recente il giornalista Simon Kuper sul Financial Times. “Quella fede ci ha fornito un quadro concettuale sbagliato per capire il mondo”. La “nostra generazione” a cui fa riferimento Kuper è piuttosto ampia. Sua nonna novantenne non ci rientra, secondo lui, e gli appartenenti più giovani sono all’incirca coetanei di Kuper (nato nel 1969).

Comunque, probabilmente la nostra nuova esistenza digitale è causa di insoddisfazione per tutti. “Trascorriamo in media sette ore al giorno online, da soli, sempre più frammentati, derubati della privacy, assorbendo assurdità”, scrive Kuper. Sembra una descrizione di una tipica giornata ai tempi della prima ondata di covid. Kuper intende la vita oggi, in cui tutte le restrizioni sono già state eliminate da un pezzo. Forse quell’universo artificiale parallelo non è poi così soddisfacente. Contro il covid è stato trovato un vaccino. Contro il malessere politico e sociale no.

Ora che la fiducia in un mondo migliore sta diminuendo, la sostituzione della democrazia liberale è pienamente in corso. In quasi tutte le elezioni a cui partecipa, la destra autoritaria ottiene i migliori risultati degli ultimi decenni. La vittoria di Trump è la maggiore leva di questo meccanismo illiberale.

Così, passo dopo passo, nasce un ordine mondiale in cui valgono nuovi presupposti: il potere ha ragione, le obiezioni della stampa e della giustizia sono una seccatura, un governo burocratico che controlla regole e procedure è un intralcio, le società sono tormentate da “nemici interni”. La tragedia è che il covid, sotto molti punti di vista, è stato un esercizio di questi princìpi. E, se prima potevano aiutare a tutelare la sanità pubblica, ora possono essere usati anche con altri obiettivi.

A Washington, la città che ho lasciato mentre il covid si trasformava da pericolo in ricordo, è evidente. Sono in arrivo altre crisi, non solo sotto forma di pandemie, concludevano nel 2021 Colin Kahl e Thomas Wright in Aftershocks, e pertanto gli Stati Uniti devono “prepararsi collaborando con altre società libere”. Ormai è invece chiaro che gli Stati Uniti si sentono vicini a un tipo di società completamente diverso. La ripercussione più seria della pandemia emerge ora: il terreno fertile per la democrazia liberale nel mondo si è ridotto a una sottile strisciolina. Ed ecco che arrivano, con un certo ritardo, il caos, lo scompiglio e il collasso che ci saremmo aspettati da una pandemia. ◆ oa

Casper Thomas è un giornalista olandese , ex corrispondente dagli Stati Uniti del settimanale Groene Amsterdammer.

La prima foto di questo articolo è di Stephen Wilkes. Dalla serie Day to night (courtesy Galerie Gadcollection, Paris).

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Questo articolo è uscito sul numero 1608 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati