Chiaramente i leader occidentali – e più in generale dei paesi del G7 – non sono mai stati totalmente d’accordo sulle prospettive politiche, ma hanno sempre condiviso un’intesa di fondo sulla loro adesione a un occidente guidato dagli Stati Uniti. Questa costellazione politica si è disintegrata con il ritorno al potere di Donald Trump e il cambiamento che si è messo in moto negli Stati Uniti (anche se, formalmente, il destino della Nato per il momento resta una questione aperta). Da un punto di vista europeo, questa frattura epocale ha grandi conseguenze, sia per l’evoluzione e la possibile conclusione della guerra in Ucraina sia per la necessità, la volontà e la capacità dell’Unione di trovare un riscatto nella risposta alla nuova situazione. Altrimenti anche l’Europa sarà trascinata nel vortice della superpotenza statunitense in declino.

L’incomprensibile miopia della politica europea mette in evidenza il triste rapporto tra questi due problemi. È difficile capire perché i leader europei, e soprattutto quelli tedeschi, non hanno visto cosa stava per succedere, o almeno perché hanno chiuso un occhio di fronte alla crisi che da tempo scuote il sistema democratico degli Stati Uniti. Dopo che Washington non ha fatto neanche un tentativo di avviare dei negoziati per scongiurare la minaccia di un attacco della Russia, che aveva schierato le truppe al confine con l’Ucraina, era sicuramente necessario un aiuto militare per garantire la sopravvivenza dello stato ucraino. Ma è incomprensibile come gli europei, partendo dal presupposto sbagliato che l’alleanza con gli Stati Uniti sarebbe rimasta salda, abbiano potuto cedere completamente l’iniziativa al governo ucraino senza avere nessun obiettivo proprio e senza nessuna strategia, promettendo un sostegno incondizionato ai suoi sforzi bellici. E la Germania, con la sua incrollabile fiducia nella “unità dell’occidente”, ha commesso un errore politico imperdonabile sottraendosi ripetutamente alla sfida, evidente già da tempo, di rafforzare la capacità d’azione internazionale dell’Unione europea.

Prima dei colloqui tra Stati Uniti e Ucraina alla Casa Bianca. Washington, 28 febbraio 2025 - Doug Mills, The New York Times/Contrasto
Prima dei colloqui tra Stati Uniti e Ucraina alla Casa Bianca. Washington, 28 febbraio 2025 (Doug Mills, The New York Times/Contrasto)

È questo che rende così opprimente la prospettiva ristretta del dibattito sullo sforzo decisamente inusuale di riarmare l’esercito tedesco in un clima di accesa ostilità verso la Russia. Così si alimentano vecchi pregiudizi. Perché la preoccupazione immediata di questo programma di riarmo a lungo termine non può essere il destino dell’Ucraina, che oggi è particolarmente a rischio e giustamente allarmante; e non è nemmeno una possibile o sbandierata minaccia russa ai paesi della Nato. Il suo obiettivo è invece affermare e difendere l’esistenza di un’Unione europea che non può più contare sulla protezione degli Stati Uniti, in un contesto geopolitico sempre più imprevedibile.

Il comportamento bizzarro e il confuso discorso d’insediamento di Trump hanno avuto un effetto esplosivo, mandando in frantumi – perfino in paesi come la Germania o la Polonia – le ultime illusioni sulla stabilità degli Stati Uniti e sul loro ruolo di leader mondiali. Se Michelle Obama ha avuto l’intelligenza di non esporsi a questo spettacolo inquietante rifiutandosi di partecipare alla cerimonia d’insediamento, gli ex presidenti statunitensi hanno dovuto subire in silenzio. Per un’opinione pubblica abituata ai rituali del passato, la fantasiosa evocazione trum­piana di una nuova età dell’oro e la sua postura narcisistica hanno fatto pensare a una presentazione clinica di un caso psicopatologico. Ma i fragorosi applausi che ha ricevuto e l’approvazione carica di aspettative di Elon Musk e degli altri imprenditori della Silicon valley non hanno lasciato dubbi sulla determinazione del presidente e dei suoi collaboratori a stravolgere le istituzioni statunitensi secondo i princìpi del centro studi conservatore Heritage Foundation. Come sempre gli obiettivi politici sono una cosa e la loro realizzazione un’altra. Gli esempi europei, come l’Ungheria del primo ministro Viktor Orbán o il regime ora superato dei fratelli Kaczyński in Polonia (presidente e primo ministro), somigliano ai piani di Trump solo per gli attacchi al sistema giudiziario.

Fantasia oscena

Le prime decisioni di Trump si sono concentrate su proposte popolari tra gli elettori, come l’espulsione degli immigrati irregolari, molti dei quali vivono negli Stati Uniti da decenni. Poi è arrivata la cancellazione, molto discutibile a livello giuridico, di importanti programmi di aiuto internazionali. Non è un caso che questi primi interventi, in larga misura illegali, sull’apparato amministrativo del governo federale siano stati orchestrati da Musk, che aveva fatto qualcosa di simile con Twitter dopo avere preso il controllo dell’azienda.

Il fronte di guerra al confine tra Ucraina e Russia, l’8 gennaio 2025 - Finbarr O’Reilly, The New York Times/Contrasto
Il fronte di guerra al confine tra Ucraina e Russia, l’8 gennaio 2025 (Finbarr O’Reilly, The New York Times/Contrasto)

Questi primi provvedimenti rivelano l’obiettivo politico più ampio di una riduzione drastica dell’apparato statale e suggeriscono una politica economica libertaria. Ma è una descrizione insufficiente, perché a lungo termine il “ridimensionamento” dello stato andrà probabilmente a braccetto con la creazione di una tecnocrazia digitale.

La Silicon valley ha questo sogno libertario di “abolire la politica” già da tempo: l’idea è trasformare l’attività politica in una gestione aziendale guidata dalle nuove tecnologie. È ancora impossibile dire se queste idee si accorderanno al modo di governare di Trump, fatto di decisioni improvvise e arbitrarie. Lo stile da negoziatore imprevedibile che guarda agli interessi a breve termine del paese non è l’unico elemento destinato a suscitare irritazione. Come nel caso dell’oscena fantasia da immobiliarista sulla ricostruzione della Striscia di Gaza, l’irrazionalità del presidente – un’imprevedibilità forse voluta – potrebbe scontrarsi con i piani a lungo termine del vicepresidente JD Vance o dei suoi nuovi amici del settore tecnologico.

Più difficile da prevedere è la realizzazione politica del cambiamento di regime pianificato e già avviato, che – pur mantenendo formalmente una costituzione svuotata di contenuti – punta a una nuova forma di governo tecno-autoritario. Poiché i problemi che richiedono una regolamentazione politica stanno diventando sempre più complessi, un regime simile andrebbe incontro alle richieste di un’opinione pubblica depoliticizzata, sollevata dall’onere di decisioni importanti. È una tendenza che ha trovato già da tempo una definizione nelle scienze politiche, in cui si parla di democrazie “regolatorie”. In questi casi si considera sufficiente organizzare elezioni democratiche puramente formali, indipendentemente dal reale grado di partecipazione informata e consapevole degli elettori. Questo nuovo autoritarismo non somiglia al fascismo storico. Negli Stati Uniti non si vedono colonne che marciano in uniforme. La vita continua come al solito, con la sola eccezione delle orde di rivoltosi che quattro anni fa presero d’assalto il campidoglio di Washington per ordine di Trump, che poi li ha graziati all’inizio del suo secondo mandato. La popolazione resta più o meno equamente divisa secondo linee sociali e culturali relativamente chiare. Le cause giudiziarie contro le palesi violazioni della costituzione commesse dal governo hanno appena cominciato a essere discusse nei tribunali. La stampa in parte si è adeguata alla nuova situazione, ma non è stata ancora messa in riga. Nelle università e in altri settori culturali ci sono dei segnali iniziali di resistenza. Ma non ci sono dubbi che l’amministrazione Trump si sta muovendo in fretta.

Questo sconvolgimento era prevedibile da tempo. All’inizio degli anni novanta gli Stati Uniti guidati da George H.W. Bush potevano ancora rivendicare lo status indiscusso di superpotenza: era perfettamente credibile che l’occidente fosse in grado di promuovere i diritti umani in tutto il mondo. La fine della guerra fredda aveva portato la speranza di una società mondiale pacificata. All’epoca in molte zone del mondo nascevano nuovi sistemi democratici. L’intervento umanitario era un tema centrale, anche se le operazioni riuscite non avrebbero avuto risultati duraturi. Nel 1988 fu approvato lo statuto di Roma, che istituiva la Corte penale internazionale. La guerra in Kosovo fece nascere dibattiti che portarono al riconoscimento della “responsabilità di proteggere”.

Ma questa prospettiva idealistica cambiò all’inizio degli anni duemila, quando negli Stati Uniti andò al potere George W. Bush, anche grazie a una contestata decisione della corte suprema contro Al Gore, candidato del Partito democratico. Il clima politico nel paese si trasformò radicalmente dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, la successiva “guerra al terrorismo”, le discutibili limitazioni dei diritti fondamentali e il rafforzamento della sorveglianza interna. L’atmosfera febbrile di allora fu lo sfondo per la svolta aggressiva contro “gli stati canaglia” e l’invasione dell’Iraq in violazione del diritto internazionale, per l’autorizzazione delle pratiche di tortura e la creazione della prigione di Guantanamo, insomma per il tentativo di mobilitare aggressivamente l’occidente.

Mani libere

Bush fu rieletto nonostante tutto e il suo primo mandato fu un punto di svolta. Da allora si è cominciato a parlare del declino della potenza statunitense. L’elezione di Barack Obama, il primo presidente afroamericano, non ha portato i cambiamenti che ci si aspettava. Durante il suo primo mandato Washington ha cominciato a usare i droni controllati a distanza per uccidere “nemici” in varie zone del mondo, una pratica discutibile secondo il diritto internazionale. E nel 2016 la vittoria di un candidato come Trump (all’epoca accolta da grandi proteste negli Stati Uniti) ha evidenziato le divisioni politiche e culturali dell’elettorato, che ovviamente avevano cause socioeconomiche più profonde.

Quell’elezione avrebbe dovuto allertare gli europei sullo stravolgimento delle istituzioni politiche statunitensi. Le infiltrazioni plebiscitarie nel Partito repubblicano, cominciate alla fine degli anni novanta, hanno portato al collasso del sistema bipartitico. Oggi è chiaro che istituzioni come queste, avviate a un declino a lungo termine, non possono essere ricostruite nell’arco di un solo mandato, anche se la fazione trumpiana fosse stata di nuovo bocciata dagli elettori. Non meno allarmante è la politicizzazione della corte suprema. Nel 2024, durante la campagna elettorale, il massimo organo della giustizia statunitense ha concesso a Trump una parziale immunità sostenendo che i presidenti non possono essere processati per quello che hanno fatto quando erano in carica. Una decisione che dà a Trump mano libera anche per le decisioni più aggressive del suo mandato attuale.

Solo con il passare del tempo gli storici potranno esprimere un giudizio sulle diverse valutazioni dei fatti che hanno portato all’invasione russa dell’Ucraina e se poteva essere evitata. A prescindere dalle conclusioni, la situazione politica dopo il 24 febbraio 2022 era chiara: l’Europa, con l’aiuto degli Stati Uniti, ha dovuto fornire rapidamente assistenza all’Ucraina sotto attacco per fare in modo che continuasse a esistere come stato. Ma invece delle grida di guerra e delle aspirazioni alla “vittoria” su una potenza nucleare come la Russia proclamate a gran voce, in quel momento sarebbe servita una riflessione realistica sui rischi di una guerra prolungata. C’è stata una mancanza di consapevolezza critica sul pericolo di una frattura del sistema economico globale e di una società mondiale che fino ad allora era stata più o meno equilibrata. Sarebbe anche stato interesse dell’occidente cercare di negoziare il prima possibile con la Russia – una potenza imperiale irrazionale da tempo in declino – un accordo accettabile per l’Ucraina, ma stavolta con garanzie occidentali. Il giorno stesso dell’invasione russa uno sguardo lucido alla data delle successive elezioni presidenziali statunitensi avrebbe dovuto convincere gli europei della fragilità dell’ormai vacillante alleanza atlantica.

Una manifestazione contro il riarmo europeo. Roma, 15 marzo 2025 - Matteo Minnella, Reuters/Contrasto
Una manifestazione contro il riarmo europeo. Roma, 15 marzo 2025 (Matteo Minnella, Reuters/Contrasto)

Per le persone della mia generazione il trionfalismo compiaciuto per l’unità dell’occidente e la rinascita della capacità di azione della Nato, che era già stata dichiarata morta, risulta del tutto inspiegabile. Altrettanto sconcertante è l’insensibilità dell’opinione pubblica di fronte alla violenza militare in Europa. Sembra essere svanita ogni percezione della violenza della guerra e del fatto che le guerre sono facili da cominciare ma difficili da concludere.

Per questo è ancora più sconvolgente che l’avvicinamento di Trump a Putin stia dividendo l’Europa e mettendo in discussione le ragioni, giustificate dal punto di vista del diritto internazionale, per sostenere l’Ucraina. Ma anche se gli alleati possono ancora giustificare il loro impegno con solidi argomenti giuridici, devono ammettere che il successo dipende dalla dura politica di potere di Trump. A dimostrarlo sono bastati due giorni sul fronte di Kursk dopo che gli Stati Uniti hanno sospeso la condivisione delle informazioni d’intelligence con l’Ucraina. Regno Unito e Francia hanno dovuto astenersi a malincuore dal votare una mozione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sull’Ucraina approvata congiuntamente da Stati Uniti, Russia e Cina. Mentre la Francia sottolinea la necessità che l’Unione europea si renda indipendente dagli Stati Uniti sul piano della politica di sicurezza e sostiene che potrà farlo solo estendendo l’ombrello nucleare francese a tutto il continente, il primo ministro britannico Keir Starmer ripete la tiepida promessa di sostegno all’Ucraina con una coalizione di trenta paesi più o meno “volenterosi”.

A quanto pare nessuno sembra infastitido dal fatto che al gruppo è stato dato lo stesso nome – “coalizione dei volenterosi” – usato da George W. Bush per la sua guerra che violava il diritto internazionale. È irritante che l’Unione non stia giocando un ruolo politicamente significativo nei negoziati per un possibile cessate il fuoco. Sono gli Stati Uniti e la Russia, e al massimo il Regno Unito e la Francia, che stanno negoziando per e con l’Ucraina.

Acceleratore geopolitico

A prescindere da quale sarà il risultato finale delle trattative, il voltafaccia degli Stati Uniti sulla Russia è solo un colpo di scena sorprendente in un’evoluzione geopolitica che si preparava già da qualche tempo e si è intensificata con la guerra in Ucraina. Indipendentemente dal suo eventuale successo, l’avvicinamento di Trump a Putin sembra un’ammissione del fatto che gli Stati Uniti, nonostante la loro superiorità economica, hanno perso la supremazia globale, o almeno hanno abbandonato la loro pretesa di egemonia.

Da sapere
Riarmo europeo

◆ Dopo che l’amministrazione statunitense di Donald Trump ha messo in dubbio la collaborazione politica e militare con l’Europa, il 4 marzo 2025 la Commissione europea ha proposto nuove misure per aumentare gli investimenti per la difesa dei paesi dell’Unione. Il piano, chiamato ReArm Europe, prevede due misure principali. La prima è una clausola di salvaguardia per consentire ai paesi dell’Unione europea di fare debito per le spese militari senza violare il patto di stabilità e crescita, che impone regole rigide sulle politiche di bilancio. L’eccezione varrà per un massimo di 650 miliardi di euro per un periodo di quattro anni, e dovrebbe consentire in media ai singoli stati un aumento della spesa militare pari all’1,5 per cento del pil. La seconda misura prevede la creazione di un fondo da 150 miliardi di euro da cui i paesi dell’Unione potranno avere prestiti per finanziare le spese militari. Il 6 marzo il Consiglio europeo dei capi di stato e di governo lo ha approvato informalmente. Il via libera definitivo dovrebbe arrivare al consiglio europeo che si terrà a giugno. Bbc


La guerra in Ucraina ha solo accelerato i cambiamenti geopolitici: l’inesorabile ascesa mondiale della Cina e i successi più a lungo termine dell’ambizioso progetto della via della seta, frutto di una strategia astuta, a cui si accompagnano le ambiziose rivendicazioni dell’India e di potenze di media grandezza come Brasile, Sudafrica e Arabia Saudita. Anche la regione del sud­est asiatico è in una fase di progressiva trasformazione. Non è un caso che negli ultimi dieci anni siano usciti tanti saggi sulla riorganizzazione di un mondo multipolare. Questo cambiamento geopolitico, che è stato solo drammatizzato dalla divisione dell’occidente, mette il riarmo tedesco in una luce completamente diversa rispetto a quanto suggeriscono le speculazioni su una minaccia della Russia all’Unione europea.

A mio giudizio la Germania si è lasciata trascinare nel vortice dell’ostilità reciproca con l’aggressore, spinta anche da un’opinione politica che si è spostata su posizioni uniformi. Naturalmente la decisione del parlamento tedesco di modificare la costituzione per consentire gli investimenti sul riarmo e aiutare l’Ucraina è anche un segnale inequivocabile della volontà di non permettere che Kiev cada vittima di un accordo fatto sulla sua testa. Ma lo scopo principale del piano di riarmo a lungo termine è diverso: gli stati dell’Unione devono rafforzare e soprattutto mettere in comune le loro forze militari perché altrimenti non conteranno più politicamente in un mondo agitato da turbolenze geopolitiche e in via di disgregazione. Solo con un’Unione in grado di avere una politica indipendente i paesi europei possono far sentire collettivamente il loro peso economico globale a sostegno delle loro convinzioni giuridiche e dei loro interessi.

Germania armata

Questo solleva una domanda che finora è stata ignorata: l’Unione europea può essere percepita come un fattore di potenza militare indipendente a livello globale finché ciascuno dei suoi stati mantiene la sovranità sulle decisioni che riguardano la struttura e l’impegno delle sue forze armate? L’Unione diventerà indipendente dal punto di vista geopolitico solo se sarà capace di agire collettivamente, anche nell’uso della forza militare.

I temi dell’Unione
Le questioni di cui dovrebbe occuparsi il parlamento europeo secondo i cittadini italiani e dell’Unione, sondaggio condotto tra gennaio e febbraio del 2025. - eurobarometro
Le questioni di cui dovrebbe occuparsi il parlamento europeo secondo i cittadini italiani e dell’Unione, sondaggio condotto tra gennaio e febbraio del 2025. (eurobarometro)

Ovviamente questo implica un compito del tutto nuovo per il governo tedesco. Dovrà varcare una soglia politica dell’integrazione europea da cui si era tenuto accuratamente distante sotto la guida di Angela Merkel e Wolfgang Schäuble (per non parlare dell’ignoranza e dell’inattività in Europa della coalizione di governo tedesca da poco uscita di scena, il tutto davanti agli sforzi di lunga data della Francia).

Per ragioni storicamente comprensibili, i paesi meno disposti a compiere questo passo sono proprio i nuovi e quelli non troppo nuovi della parte orientale e nordorientale dell’Unione. Perciò anche in questo caso la “cooperazione rafforzata” su base volontaria consentita in casi specifici dai trattati ai singoli paesi dovrà probabilmente venire soprattutto dal nucleo storico dell’Unione. È una sfida enorme che potrebbe permettere a Friedrich Merz – lea­der dei cristiano-democratici che ha vinto le ultime elezioni in Germania e cancelliere in pectore – di crescere in modo sorprendente, proprio perché la fiducia pubblica nelle sue capacità di leadership non è altissima.

Tuttavia, per ora il piano di riarmo sta assumendo toni più aspri. Non solo in chi da sempre fa leva sul nazionalismo – un sentimento storicamente superato – ma anche nei politici decisi a sollecitare la generazione più giovane (che ha buoni motivi per adottare un atteggiamento post-eroico) reintroducendo il servizio militare obbligatorio. E questo succede in paesi che da tempo hanno quasi tutti abolito o sospeso il servizio di leva, per ottime ragioni.

L’abolizione del servizio militare obbligatorio è un riflesso del processo di apprendimento della storia mondiale, vale a dire la consapevolezza raggiunta nei campi di battaglia e nei rifugi della seconda guerra mondiale che questa forma sanguinaria di esercizio della violenza è inumana, anche se è ancora l’ultima risorsa per la soluzione di conflitti internazionali e sicuramente può essere abolita solo politicamente un passo alla volta. È preoccupante il sostegno che il governo tedesco, avviato a un riarmo del paese senza precedenti, sta ricevendo da alcuni ambienti, inconsapevolmente o addirittura esplicitamente, con l’obiettivo di risuscitare una mentalità militare giustamente superata.

Posso solo difendere le ragioni politiche che ho citato per giustificare il potenziamento di una forza militare deterrente congiunta dell’Unione, a condizione che si faccia un passo avanti anche nell’integrazione europea.

L’idea su cui fu costruita ed estesa la vecchia Repubblica Federale di Germania dovrebbe bastare a giustificare questa riserva: cosa ne sarebbe dell’Europa se lo stato più popoloso ed economicamente forte del continente dovesse diventare anche una potenza militare superiore a tutti i suoi vicini, senza un impegno costituzionale vincolante per una difesa e una politica estera comune basata sulle decisioni della maggioranza? ◆ gc

Jürgen Habermas è un filosofo tedesco, tra i principali esponenti della scuola di Francoforte. Tra le sue ultime opere pubblicate in Italia ci sono i tre volumi di Una storia della filosofia (Feltrinelli 2022).

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Questo articolo è uscito sul numero 1608 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati