Il British museum è il “museo per antonomasia”. Ma allo stesso tempo non sembra neanche un museo. È quasi un piccolo stato. Le sale che accolgono i visitatori durante la giornata sono forse la cosa meno importante: il museo non è il contenuto delle sue teche da esposizione. È un’ambasciata, un’università, una stazione di polizia, un laboratorio scientifico, un ufficio doganale, una base per gli scavi archeologici, un luogo di asilo, un’attività commerciale, una casa editrice, un obitorio, un’agenzia investigativa.
“Non siamo un magazzino né un mausoleo”, ha detto il presidente del museo, l’ex ministro delle finanze George Osborne, in carica dal 2021, agli invitati alla cena annuale degli amministratori della fondazione, lo scorso novembre. In realtà il British museum è entrambe le cose. E molte altre ancora.

È un riflesso tentacolare e caotico della psiche britannica degli ultimi trecento anni: la curiosità vorace e il relativismo culturale, l’irriducibile complesso di superiorità, l’instancabile commercio marittimo, il crudele arricchimento imperiale, la brillante erudizione, la brutalità, l’idealismo, l’ansia postcoloniale. Tutto questo espresso attraverso l’accumulo di oggetti: un accumulo forsennato, frutto di una mania di possesso che, in una persona, sarebbe considerata una specie di malattia. Il museo contiene in totale otto milioni di oggetti. O forse sei, a seconda di come li si conta (per esempio la raccolta di un milione di cartoline che un tempo accompagnavano i pacchetti di sigarette, consegnata al museo nel 2006, è considerata un pezzo unico). La collezione è vastissima e cresce di anno in anno. Mettendo insieme tutti i reperti del Louvre di Parigi e della National gallery e del Victoria & Albert museum londinesi non si arriva neanche alla metà degli oggetti del British museum.
Il British non è il museo più antico del Regno Unito, ma sotto molti aspetti è il prototipo stesso del museo, quello che nel paese ha tracciato il solco per tutti gli altri. Fondato nel 1753, nacque da una decisione di Hans Sloane, un medico e collezionista anglo-irlandese che nel settecento si era arricchito grazie (anche) al lavoro degli schiavi in Giamaica. Sloane lasciò la sua straordinaria collezione alla nazione “per il miglioramento, la conoscenza e l’informazione di tutte le persone”.
A differenza di altri musei simili – il Louvre, l’Ermitage di San Pietroburgo – non fu pensato per essere una proiezione del potere monarchico né fu fondato, come il Metropolitan museum di New York, grazie a un atto di filantropia di un miliardario. Fu istituito dal parlamento, a cui deve rispondere. Il suo scopo era formare i cittadini di un paese di nuovo unito dopo l’insurrezione giacobita del 1745.
Il grande furto
Oggi il British museum attraversa un momento di crisi. La cosa non deve sorprendere. Se infatti l’intero paese è alla ricerca di un nuovo ruolo in un mondo postcoloniale, perché non dovrebbe essere lo stesso per il suo museo più importante e celebrato? Ricordo che nel 2006, a Nairobi, incontrai Neil MacGregor, direttore del museo dal 2002 al 2015. Stavo scrivendo un articolo sull’inaugurazione di una mostra: era la prima volta che degli oggetti del British museum venivano prestati a un’istituzione africana.
Poco prima avevo intervistato anche Idle Omar Farah, allora direttore generale dei musei nazionali del Kenya. “Abbiamo l’impressione che il tema centrale sarà questo: perché degli oggetti del Kenya sono custoditi a Londra?”, mi aveva detto.
Quando girai la domanda a MacGregor, mi rispose, insolitamente stizzito: “Il rimpatrio degli oggetti è una questione ormai superata”.
Gli eventi lo hanno smentito. Negli anni della “politica dell’identità” che hanno seguito la crisi finanziaria globale del 2008, il rimpatrio è diventato una questione di grande attualità. Le critiche al museo riguardano in particolare i bronzi del Benin, che i britannici trafugarono dal palazzo reale di Benin City durante un raid nel 1897, e i marmi del Partenone: la legittimità del loro acquisto da parte del conte di Elgin, nel 1801, è in discussione praticamente da sempre.
Il museo non si è sbilanciato su questi argomenti e, a giudizio dell’opinione pubblica, ha fatto troppo poco. In questo vuoto si è fatta strada l’idea che tutto quello che è esposto al British museum sia stato rubato, un punto di vista che il museo, dando prova di scarso spirito d’iniziativa, non si è impegnato molto per contestualizzare o confutare.
Hartwig Fischer, direttore dal 2016 al 2023, è uno studioso di grande sensibilità, ma “non è mai riuscito a trovare le leve del potere”, mi ha confidato una persona interna alla fondazione. “Con lui si poteva intavolare una conversazione affascinante su Montesquieu, ma poi da quella conversazione non nasceva mai niente e non emergeva nessuna idea per il museo” (Fischer ha rifiutato di essere intervistato per questo articolo).

Finanziamenti scarsi
Il museo è l’attrazione più popolare del Regno Unito, con circa sei milioni di visitatori all’anno. Eppure, come tutto quello che ha a che fare con il settore pubblico britannico, appare logoro e antiquato. I finanziamenti sono scarsi rispetto a quelli dei suoi rivali a Parigi e a Berlino. Il personale è sottopagato. I lavori di rinnovamento, che dureranno decenni, sono stati avviati da poco, grazie a un contributo di 50 milioni di sterline della British Petroleum (Bp), la cui sponsorizzazione è stata rifiutata da quasi tutte le altre istituzioni culturali britanniche. Dal 2024 c’è un nuovo direttore, Nicholas Cullinan, ex responsabile della National portrait gallery, ma ancora non è chiaro se avrà le capacità per guidare il museo nella gigantesca operazione di riorganizzazione e rilancio di cui ha bisogno.
Il predecessore di Cullinan si è dimesso ad agosto del 2023, quando si è saputo che uno dei dipendenti del museo, un curatore del dipartimento greco-romano, aveva rubato o danneggiato duemila pezzi della collezione. Per il museo il principale sospettato è Peter Higgs (il figlio, parlando a nome di Higgs, ha respinto le accuse). Per trent’anni, gemme antiche e gioielli d’oro sarebbero stati trafugati da un caveau del museo, una stanza dove, secondo i protocolli di sicurezza, nessun dipendente sarebbe dovuto entrare se non accompagnato. Gli oggetti sono stati venduti a mercanti d’arte o messi all’asta su eBay.
“Abbiamo provato un profondo senso di tradimento e di perdita”, ha raccontato un dipendente del museo. “Noi viviamo per questi oggetti. Il nostro scopo è lasciare queste collezioni in uno stato migliore di quello in cui le abbiamo trovate, di assicurarci che la nostra presenza sia utile”.
È questo il principio che da sempre regola il funzionamento del British museum, il pilastro su cui poggia la sua legittimità: il fatto che la struttura si prende cura degli oggetti che custodisce. I furti hanno rotto questo patto tra l’istituzione e il pubblico. L’idea che il British museum sia, come minimo, una casa sicura per gli oggetti che ospita si è sgretolata. La sua popolarità turistica forse non ne ha risentito, ma la fiducia nell’istituzione, che era già traballante, è crollata.

Da Atene a Benin City
Al British museum tutto è politica. In una fredda giornata di dicembre, dopo essere stata perquisita in una delle squallide tende di sicurezza del museo (che nel 2026 saranno sostituite da “padiglioni di accoglienza”), sono salita al primo piano, dove c’era una piccola esposizione di oggetti di Maqdala, la fortezza etiope saccheggiata nel 1868 dalle truppe britanniche, di cui faceva parte anche un rappresentante del British museum. Tra gli oggetti prelevati c’erano delle tavolette sacre che prima dell’attacco britannico erano state confiscate dall’imperatore d’Etiopia Teodoro II. Questi oggetti sono considerati troppo sacri per essere esposti: sono conservati in uno strano limbo lontano dal pubblico, mentre il museo e le autorità etiopi continuano a discutere di cosa farne.
In questi casi, i comunicati del museo parlano molto di “dialogo”, ma i critici sono impazienti e si aspettano iniziative concrete. In alcuni casi, l’impasse si risolve attraverso prestiti a lungo termine. Lo scorso anno una certa quantità d’oro degli Ashanti è stata inviata in Ghana dal British e dal Victoria & Albert museum. Ma le istituzioni che chiedono la restituzione di determinati beni non sempre si accontentano di poter “prendere in prestito” cose che ritengono rubate. A differenza di alcuni musei statunitensi, il British museum per legge non può vendere, regalare o cedere nessun oggetto.
Questa è la regola generale, ma ci sono alcune eccezioni. Esiste infatti un procedimento che permette la restituzione di reperti saccheggiati dai nazisti (nel 2014 c’è stato il caso di un disegno che era stato lasciato in eredità al museo e che era appartenuto a una collezione rubata dalla Gestapo nel 1939). Un’altra procedura prevede la restituzione di resti umani in determinate circostanze. È quindi possibile immaginare che possa essere trovato anche il modo per gestire, a un livello più generale, le richieste di restituzione. Per il momento, però, non ci sono segnali di un cambio di rotta.
Poi, però, c’è il caso particolare dei marmi del Partenone, che George Osborne sembra aver trasformato nella sua missione personale. Da un paio d’anni l’ex ministro sta provando a negoziare un accordo, incontrando senza troppa pubblicità i politici greci, ad Atene o a Londra. Ma il British museum, che ha trecento anni e custodisce reperti che hanno due milioni di anni, non è mai stato incline a fare le cose di fretta. Spesso questo atteggiamento lo fa sembrare irrimediabilmente indolente, ma a volte i tempi lunghi sono un vantaggio, semplicemente perché permettono di resistere agli umori instabili della politica. Il tempo di un museo non è il tempo degli uomini.
Per fare un esempio, quando tra il 1922 e il 1934 il British museum organizzò gli scavi nella città sumera di Ur, concordò con il governo iracheno che migliaia di tavole cuneiformi contenenti testi in sumero fossero portate a Londra per essere studiate, tradotte e pubblicate prima di essere restituite a Baghdad. Quelle più facili da tradurre furono restituite in tempi abbastanza rapidi, ma i lavori si interruppero quando i curatori furono precettati per la seconda guerra mondiale. Nel dopoguerra lo studio riprese, soprattutto sulle tavole più difficili e frammentate, ma una serie di eventi – la guerra tra Iran e Iraq, l’invasione del Kuwait, la guerra in Iraq e i suoi violenti strascichi, la pandemia di covid-19 – hanno ritardato la restituzione delle tavole rimaste. Solo nel 2023 le ultime cinquemila tavole sono state rispedite a Baghdad. Poiché tra i due paesi non esistono voli commerciali, sono state prelevate al piccolo aeroporto di Northolt e caricate sull’aereo personale del presidente iracheno che tornava dalla sua visita a Londra per l’incoronazione di re Carlo.

Arte e diplomazia
Non lontano dalla teca di Maqdala, una grande galleria al primo piano ospita una serie di oggetti dell’Europa preistorica e dell’antico Medio Oriente. Tra questi, quando non è in prestito, c’è il Mold Cape, un capolavoro di oreficeria dell’età del bronzo che a fasi alterne viene rivendicato dal Galles, dove è stato ritrovato nel 1833. Questo famosissimo reperto si trova proprio di fronte al cilindro di Ciro, su cui c’è un’iscrizione che racconta la conquista di Babilonia di Ciro II di Persia nel 539 aC. Il manufatto, rinvenuto nel 1879 in Iraq dall’archeologo assiro-britannico Hormuzd Rassam, è stato prestato all’Iran nel 2010, mentre l’amministrazione statunitense guidata da Barack Obama stava negoziando un trattato sul nucleare con Teheran. L’allora presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad salutò personalmente Neil MacGregor al suo ingresso nel Museo nazionale di Teheran.
Quest’anno il cilindro di Ciro avrebbe dovuto essere prestato alla biblioteca nazionale di Israele, a Gerusalemme, ma il prestito è stato rimandato su indicazione del ministero degli esteri britannico, sostiene il museo. Sempre al primo piano, la galleria levantina, che contiene manufatti provenienti da Israele, dal Libano e dai territori palestinesi occupati, ha orari di visita limitati per garantire “la sicurezza dei visitatori e della collezione”, ha spiegato un portavoce del museo. La violenza dei nostri giorni arriva fino a qui, tra i resti di civiltà estinte.
Le gallerie pubbliche sono solo la crosta, lo strato sottile esterno. Le sale sono piene di porte chiuse, che i visitatori notano a malapena. La prossima volta che ci andate, fate caso alle discrete etichette su alcune di queste porte: spesso c’è l’illustrazione di un leone di profilo. È un codice e vuol dire “evacuare urgentemente in caso di incendio o inondazione”. Significa che state passando davanti a un ripostiglio.
Il simbolo – ho scoperto lo scorso autunno, quando ne ho visto un modello in terracotta invetriata in esposizione alla galleria 47 – deriva da una serie di leoni di ferro ottocenteschi che adornavano le ringhiere dell’edificio, prima di essere rimossi nel 1895. Solo un museo può inventare un codice così arcano, così storicamente autoreferenziale.

Altre porte quasi invisibili portano a uffici, biblioteche, laboratori e sale studio. Ricercatori e studenti di tutto il mondo le attraversano con discrezione più volte al giorno. Possiamo dire che è qui la vera attività del museo: è qui che si estrae la conoscenza da manufatti umani che hanno due milioni di anni. Ed è sempre qui che lo stato britannico svolge alcune delle sue più curiose funzioni. Se con un metal detector scoprite un oggetto di metallo antico o importante, l’oggetto dovrà essere sottoposto a una lunga trafila burocratica sotto la supervisione di uno di questi laboratori. Oppure, se un agente della dogana in un aeroporto britannico apre una valigia e trova un manufatto che sospetta sia stato contrabbandato illegalmente, lo spedisce al British museum per farlo valutare, studiare ed eventualmente restituire al luogo d’origine.
Nel 2016 una fiaschetta abbastanza grande da contenere due bicchieri di vino ha attirato l’attenzione di un agente della dogana a Gatwick. Di colore argento opaco, era abbellita da un’incisione con dei tori di profilo in mezzo alle foglie. Il curatore del British museum St John Simpson ha concluso che aveva circa quattromila anni e che probabilmente proveniva dall’Afghanistan meridionale, dove gli scavi illegali e i saccheggi sono all’ordine del giorno. Nel 2018 l’oggetto è stato consegnato all’ambasciatore afgano.
Queste restituzioni sono state bloccate nel 2021, dopo la caduta di Kabul, ma i curatori tengono aperti i canali di comunicazione con il nuovo staff del museo nazionale nel paese controllato dai taliban. Anche quando le relazioni diplomatiche sono tese, una capillare rete di archeologi continua a tessere le sue tele in tutto il pianeta.
Tra i fantasmi
Tra le gallerie egizie al primo piano, vicino a una serie di antiche pitture tombali traboccanti di immagini di datteri e palme, si nota una fila di porte chiuse a chiave. Alle loro spalle c’è una galleria in disuso, con le pareti dipinte con riproduzioni moderne di antiche scene di lutto egiziane. La decorazione è appropriata perché è un magazzino di resti umani. Su un tavolo, quando ci sono stata l’estate scorsa, erano stati disposti dei crani per un gruppo di studenti di antropologia medica e forense in visita dagli Stati Uniti. “Stavamo discutendo del fatto che i segni e i tratti che si vedono sulle ossa indicano che avevano la lebbra”, mi ha spiegato in quell’occasione la bioarcheologa Rebecca Whiting. La stanza è anche il luogo di riposo di cinquanta corpi di epoca medievale, donati al museo dal governo sudanese vent’anni fa, dopo lo smantellamento di un cimitero per la costruzione di una diga (il museo ha stretti legami con l’Egitto e il Sudan, e offre corsi di formazione e borse di studio a studiosi di entrambi i paesi). Sono ancora visibili i capelli e le ciglia, l’ordito e la trama degli abiti, a volte perfino i tatuaggi.
Il museo è la tomba di ottanta corpi umani completi provenienti dall’Egitto, di nove corpi originari del Perù e di circa seimila parti di resti umani. Tra queste ci sono una scodella hawaiana decorata con denti umani e una tromba tibetana ricavata da un femore, decorata con argento, corallo e turchese. Non c’è da meravigliarsi se la gente che lavora al museo – in mezzo ai morti, tra antichi oggetti vibranti di storia, a volte di violenza – parla di fantasmi. Un curatore mi ha confessato che quando ha il turno di notte gli viene la pelle d’oca. “I fantasmi sono dappertutto”, mi ha detto.
È questo il principio che da sempre regola il funzionamento del British museum: il fatto che la struttura si prende cura degli oggetti che custodisce
Accanto ai corpi sudanesi, nella stanza dei resti umani, un ricercatore stava esaminando i contorni delle dentature per capire i cambiamenti avvenuti nella popolazione in Nubia tra il neolitico e il medioevo. Il museo abbonda di queste scene: un lavoro che può sembrare arcano, quasi esoterico, ma che è parte del grande flusso di conoscenza che scorre all’interno dell’istituzione.
“Il museo è un labirinto, anche in senso metaforico”, mi ha detto Paul Nurse, genetista vincitore del premio Nobel ed ex fiduciario della fondazione del British museum. Voleva dire che il museo è fisicamente capace di disorientare il visitatore, ma anche che le sue attività apparentemente scollegate tra loro fanno parte di un’unica grande struttura, con uno schema e un significato.
La giusta prospettiva
A volte, il modo più veloce per attraversare il museo nella sua impressionante estensione è passare per le sue viscere. Nello scantinato riposano caldaie grandi come camion e i visitatori attraversano corridoi ricoperti di mattoni rinforzati contro i raid aerei (dell’ultima guerra, ma magari in futuro torneranno utili). Per arrivare al dipartimento della scienza si sprofonda tre piani sottoterra. Un’enorme macchina a raggi X, comandata dal fisico sperimentale Daniel O’Flynn, è in grado di analizzare anche gli oggetti più voluminosi, come le sculture greche a grandezza naturale.
Più avanti lungo il labirinto alcuni ricercatori usano l’analisi molecolare per esaminare la tintura di lacca, un colorante rosso usato in India e in Vietnam; altri maneggiano un microscopio elettronico per studiare la lavorazione dell’oro nei gioielli greci del settimo secolo aC; altri ancora stanno ispezionando il legno delle tavolette di Vindolanda, una serie di lettere e documenti della Britannia romana rinvenuti a sud del Vallo di Adriano e scritti su legno di salice, ontano, betulla e frassino.
Oppure si può osservare il museo dall’alto: prendete uno dei suoi 56 ascensori, opportunamente identificati secondo un codice di colori per aiutare a orientarsi, salite una ripida rampa di scale di metallo e osservate la struttura dal soffitto. Da questa prospettiva, si capisce che dietro le placide personificazioni del frontone – Matematica e Pittura, Geometria e Dramma – si nasconde un convulso paesaggio di condutture serpeggianti e innumerevoli lucernari sudici, a volte rattoppati con pezzi svolazzanti di nastro adesivo. Quando sono stata al museo la scorsa primavera, il responsabile dei progetti immobiliari del museo, un allegro signore scozzese di nome Russell Torrance, mi ha mostrato il caotico mosaico di edifici intercomunicanti mentre osservava bonariamente dall’alto il suo sgangherato regno. Infiltrazioni di fibre d’amianto e d’acqua da una parte, corrosioni e perdite dall’altra. “Parliamo spesso di come continuare a far funzionare le cose senza intoppi”, mi ha detto.
Il museo è la tomba di ottanta corpi umani completi provenienti dall’Egitto, di nove corpi originari del Perù e di circa seimila parti di resti umani
Tra poco cominceranno i lavori per un nuovo impianto energetico, che sostituirà le agonizzanti caldaie a gas, ed è prevista anche una ristrutturazione totale delle gallerie – che viste da qui sembrano particolarmente fatiscenti – sul lato occidentale del complesso. Il museo usa una poiana di Harris come deterrente per le cornacchie, che hanno l’abitudine di scaricare sassi sul tetto di vetro ondulato della Great court centrale. Ogni volta che uno di questi pannelli fatti su misura viene scheggiato, mi ha detto Alice Fraser, la responsabile dei progetti d’investimento del museo, sostituirlo costa decine di migliaia di sterline.
Per quanto la vista sia impressionante, l’essenza più profonda del museo non si coglie da questa prospettiva. L’ho scoperto la scorsa primavera, quando ho incontrato Neil Wilkin, curatore del dipartimento di storia britannica ed europea. Era nella sala studio della sua sezione, una stanza rivestita di legno e piena di libri dove chiunque, mi ha detto, può prendere appuntamento per studiare i reperti custoditi nei magazzini.
Wilkin aveva un oggetto da mostrarmi: il tamburo di Burton-Agnes, che ha effettivamente la forma e le dimensioni di un piccolo tamburo giocattolo, anche se non si sa per quale scopo fosse usato. È stato sepolto durante il neolitico nello Yorkshire, nella tomba di tre bambini, dove è rimasto fino al suo ritrovamento, nel 2015. È fatto di gesso bianco intagliato con un intreccio di losanghe, linee a zigzag e galloni: è un oggetto delicatissimo. “È friabile, sarebbe facilissimo strofinare via la decorazione”, ha detto Wilkin.
Mentre descriveva come stava cercando di decifrare i motivi intagliati sulla superficie, ho visto la sua devozione per il reperto, la sua tenerezza, la sua capacità di prendersi cura degli oggetti. I bambini defunti con cui il piccolo tamburo era rimasto sottoterra per cinquemila anni non erano un’astrazione per Wilkin: mi ha detto che ha cominciato le ricerche quando lui e il suo compagno hanno avuto il primo figlio.
Milioni di oggetti di proprietà del museo non si possono esporre. La collezione si è arricchita soprattutto tra gli anni settanta e novanta
Quando gli ho chiesto cosa ha provato alla notizia che un collega era sospettato di aver danneggiato o rubato duemila opere, ha fatto un pausa e mi è sembrato che stesse per piangere o per gridare. “Credo di aver provato una specie di incredulità per il fatto che fosse anche solo concepibile una cosa del genere”, ha risposto, a voce bassa.
Un’impresa ambiziosa
Forse il fattore decisivo a favore del ladro è stato che il museo non sapeva bene ciò che aveva per le mani. Molti degli oggetti rubati non erano mai stati registrati formalmente – cioè catalogati con un numero – né fotografati o inseriti nella banca dati digitale. Mark Jones, direttore ad interim dopo le dimissioni di Hartwig Fischer, aveva promesso che ogni singolo oggetto della collezione del museo sarebbe stato catalogato entro la fine del 2029. Ma nonostante un budget di cinque milioni di sterline, molti dubitano che l’obiettivo sia raggiungibile.
Un curatore mi ha detto che solo il 10 per cento delle migliaia di frammenti di ceramica della sua collezione è stato inserito nella banca dati. Occuparsi del restante 90 per cento è un’impresa titanica. “Se facessi letteralmente solo questo per i prossimi cinque anni, forse sarebbe possibile”, ha detto. “A volte la gente pensa che abbiamo degli aiutanti. Io non ne ho nessuno. Sono da solo”.
La portata dell’impresa è da capogiro, come le dimensioni della collezione del museo. Il responsabile delle stampe e dei disegni, Hugo Chapman, mi ha detto che per digitalizzare la sua sezione – circa un milione di opere, da Michelangelo a David Hockney – ci sono voluti trentuno anni. Mark Jones mi ha spiegato che per capire davvero il museo bisogna pensarlo più come una biblioteca che come una struttura espositiva. “Siamo un archivio di cultura materiale”, ha osservato.
Milioni di oggetti di proprietà del museo non si possono esporre. La collezione si è arricchita soprattutto tra gli anni settanta e novanta. Ma il 70 per cento degli 1,7 milioni di oggetti che sono entrati nella collezione in quegli anni sono anonimi frammenti di vasi, ceramiche e mattoni prelevati durante gli scavi archeologici fatti nel Regno Unito. Un terzo della collezione attuale è composto da materiali simili (gli scavi che hanno gonfiato i magazzini in modo così esorbitante sono una conseguenza del boom dell’edilizia e della costruzione di autostrade). Nei secoli precedenti la maggior parte di questi reperti sarebbe stata smaltita per conservare solo quelli di maggior valore. Ma dagli anni settanta in poi c’è l’abitudine di conservare tutto, in attesa del momento in cui i progressi delle tecniche scientifiche renderanno possibili nuove conoscenze.

Straripamento
È stato ad aprile dell’anno scorso, girando per i nuovi giganteschi magazzini del museo alla periferia di Reading, che ho cominciato ad avere una vaga idea delle proporzioni della collezione: abbracciarla tutta sembra un’impresa impossibile per la mente umana (“Ho continuato a fare scoperte fino al termine del mio incarico”, mi ha confessato l’ex direttore MacGregor. “Un giorno, per esempio, ho appreso con mio grande stupore che avevamo la collezione completa dei reperti della presenza fenicia in Sardegna”). Qui, a quaranta minuti d’autobus dalla stazione ferroviaria (il museo non rimborsa le spese per i taxi ai curatori) c’è l’Archaeological research collection del British museum.
È l’edificio che ospiterà il “grande straripamento”, cioè gli oggetti che fino a poco tempo fa erano custoditi nell’ex sede centrale della banca di risparmio delle poste britanniche a West Kensington, a Londra.
Ci sono sale studio luminose, corridoi ampi e laboratori all’avanguardia. L’autostrada e l’aeroporto di Heathrow sono dietro l’angolo, cosa che rende più facile inviare o ricevere opere in prestito. La struttura è gigantesca e inondata dalla luce. L’atmosfera è molto diversa da quella dei corridoi bui e antichi della casa madre a Bloomsbury. Sembra una specie di capsula di salvataggio, la navicella su cui pochi prescelti abbandoneranno il pianeta portando con sé frammenti della sua civiltà.
Tranne, ovviamente, le cose che sono andate perdute. In un corridoio accanto alla sala per gli studi greco-romani nella sede di Bloomsbury, una squadra di sei investigatori accademici è al lavoro per rintracciare i gioielli spariti dalla camera blindata. Tom Harrison, responsabile del dipartimento greco-romano, è arrivato al museo nel gennaio 2023, al tempo della scoperta dei primi furti, e coordina il gruppo di studiosi e specialisti del mercato dell’arte.
La strategia è seguire i flussi di denaro, cercando tracce dei reperti tra i dati di eBay, dove sono stati venduti anche per 50 sterline appena, e PayPal. Alcuni hanno cambiato di mano varie volte e si trovano in paesi diversi. Poiché non tutti gli oggetti mancanti sono stati fotografati e inseriti nella banca dati interna del museo, gli studiosi hanno dovuto ricostruire anche ciò che il museo possedeva. Gran parte degli oggetti perduti facevano parte dalla collezione dell’antiquario settecentesco Charles Townley. Per ricostruire il tutto bisogna quindi consultare i registri dell’ottocento, riprendere le 4.500 lettere dell’archivio Townley, analizzare i disegni che Townley aveva commissionato, studiare un catalogo inedito del 1814 e recuperare di tutti gli stampi, gli intagli su cera e i cammei realizzati all’epoca (questi ultimi possono essere incredibilmente precisi, capaci di mostrare perfino le minuscole bolle nel vetro che differenziano due oggetti realizzati con lo stesso stampo).

In uno degli uffici usati dal gruppo c’è una parete tappezzata di fotocopie di oggetti identificati secondo il colore, come nei commissariati di polizia durante le indagini. Il lavoro richiede pazienza, caparbietà e conoscenza archivistica, un’acuta memoria visiva, competenze forensi per seguire i flussi finanziari e, alla fine del processo, carisma e capacità di persuasione, essenziali quando si ha a che fare con i possessori attuali delle opere (secondo Harrison, quasi tutti hanno collaborato, d’altra parte il museo offriva un risarcimento pari all’importo pagato). “Sogno quelle opere tutte le notti”, dice Ollie Croker, uno dei responsabili del progetto.
La scorsa primavera, durante la mia visita, gli studiosi avevano trovato o recuperato 626 oggetti dei 1.500 mancanti. Oggi siamo a 649. Questo per quanto riguarda le operazioni di recupero; le indagini della polizia sono altrettanto lente. “I progressi sono costanti”, dice Harrison, “ma ogni tanto è la portata dell’impresa a preoccuparmi. Provate a immaginare 1.500 oggetti: alcuni sono stati venduti in gruppo, ma molti altri hanno preso strade separate, sono finiti nei posti più disparati, si trovano in paesi diversi”. Quando il gruppo scopre dove si trova un’opera, per festeggiare si suona un campanello.
Come un vulcano
Riuscirà il British museum a risollevarsi dalla crisi? Potrà ritrovare il morale, recuperare gli oggetti mancanti e ripresentarsi al pubblico come un’istituzione diversa da quella che ha permesso ai suoi dipendenti di rubare le sue stesse opere? Alcuni addetti ai lavori che ho intervistato sono ottimisti: forse il periodo di luna di miele del nuovo direttore è finito, ma la situazione è comunque migliorata rispetto ai tempi di Fischer, quando il museo era gestito “come la Corea del Nord” da un gruppo ristretto di suoi subordinati, secondo quanto mi ha confidato un dipendente. L’équipe dei curatori non è composta da imperialisti con l’elmetto coloniale, come qualcuno potrebbe immaginare, ma le discussioni interne (per esempio sulla decolonizzazione) non sono rese pubbliche, e i dipendenti a volte hanno paura di parlare. Un fiduciario della fondazione mi ha detto: “Il museo è come un vulcano con uno spesso strato di lava solida che tappa il cratere: l’ufficio della direzione”.
Se il museo vuole riscattarsi agli occhi del pubblico deve partire dalle questioni più controverse: i bronzi del Benin e i marmi del Partenone. Il governo laburista, in carica dal luglio 2024, sembra aperto alla possibilità di una collaborazione che riporterebbe i marmi ad Atene, in cambio di una serie di prestiti dalla Grecia a Londra. Qualcuno, però, è scettico. George Osborne, il presidente del museo, ha gettato le basi per un accordo senza coinvolgere gli altri amministratori della fondazione o i funzionari del museo, e senza un vero e proprio progetto. MacGregor è prudente: “L’aspetto preoccupante della discussione sul Partenone è che nessuno dice quali sono i princìpi in base ai quali si propone di ritirare questi oggetti dalla vista del pubblico a Londra. E sarebbe un ritiro permanente: i politici greci dicono apertamente che una volta tornati in Grecia, i marmi del Partenone non potranno più essere materialmente spostati”.
L’universo in mostra
La definizione del British museum come “museo del mondo, per il mondo” secondo MacGregor è ancora valida: il British dev’essere un polo globale di studio e conoscenza, aperto a tutti. “E uno dei motivi per cui funziona”, dice, “è che il Regno Unito oggi ha una popolazione globale, la cui storia è raccontata al British museum”. Molti, però, non sono altrettanto convinti. “Puoi anche dire che è un museo del mondo per il mondo, ma il mondo non ti ha mai dato il permesso”, osserva un ex funzionario.
L’anno scorso, quando ho visitato la struttura distaccata a Reading, i magazzini stavano appena cominciando a riempirsi di scatoloni con la scritta Mucking, il nome del paesino nell’Essex dove tra gli anni sessanta e settanta sono stati organizzati i più grandi scavi nella storia del Regno Unito, con la scoperta di insediamenti che vanno dal neolitico al periodo medievale. Sale grandi come hangar stavano cominciando a popolarsi di calchi di sculture greche in casse impilate con la massima efficienza grazie a un software usato nel settore del trasporto merci per via aerea: si potevano scorgere gli arti staccati dal corpo e i corpi senza testa.
In una sala, una scultura meticolosamente imballata del Giorno dei morti messicano osservava dall’alto il calco di una croce celtica, di una motoslitta e di un risciò. Il tutto mi ha ricordato un racconto di Jorge Luis Borges su una cartina del mondo in scala 1:1. E per un attimo mi è sembrato che il museo potesse contenere ogni cosa mai costruita dagli esseri umani. ◆ fas
Charlotte Higgins è una giornalista e scrittrice britannica. È responsabile delle pagine di cultura del quotidiano The Guardian. Il suo ultimo libro è Greek myths, a new retelling (2021).
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Questo articolo è uscito sul numero 1606 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati