Quando il suo capo vuole fare qualcosa per rafforzare l’autostima di Soo-jin (nome di fantasia), le ricorda che è riuscita ad assicurarsi l’unico posto nella sua squadra riservato a una donna. “Sostiene che se in ufficio ci fossero più donne, comincerebbero a litigare e disturberebbero il resto del gruppo”, racconta Soo-jin, che lavora in una delle più grandi aziende finanziarie della Corea del Sud. “Lo dice apertamente alle cene di lavoro. È convinto che mi faccia sentire meglio”, racconta. La sua esperienza non è un’eccezione. In un altro ufficio della sua azienda i dipendenti maschi hanno protestato aspramente all’idea di assumere una seconda donna. Era venuto fuori, infatti, che il candidato migliore per un posto rimasto vacante era proprio una donna. “Dicevano di non sentirsi a loro agio in presenza di donne, perché noi abbiamo un modo diverso di pensare”, racconta Soo-jin, aggiungendo che l’azienda distribuisce addirittura taccuini di colore diverso a seconda del sesso.
La Corea del Sud è per il ventiseiesimo anno di fila il paese con il peggiore divario retributivo di genere (più di 31 punti percentuali) tra quelli che appartengono all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Inoltre, solo il 55 per cento delle donne sudcoreane lavora, contro il 73,7 per cento degli uomini. Nel rapporto del 2022 sul divario retributivo di genere stilato dal Forum economico mondiale, la Corea del Sud e il Giappone si sono classificati rispettivamente al 99° e 116° posto su 146 paesi. “L’occupazione femminile è aumentata notevolmente tra le ventenni, ma il dato crolla quando le donne superano i trent’anni, perché si sposano e hanno dei figli”, spiega Kim Nan-joo, ricercatrice dell’istituto coreano per lo sviluppo delle donne. “Le aziende pensano che le dipendenti rinuncino alla carriera dopo il matrimonio e la maternità, e questo mette naturalmente le donne in una posizione difficile quando devono ottenere una promozione e svolgere un ruolo importante nel loro lavoro”.
Peter Matanle, ricercatore dell’università britannica di Sheffield e autore di uno studio sull’occupazione femminile in Corea del Sud, afferma che “tra le donne dei paesi Ocse le sudcoreane sono le più istruite, ma hanno i livelli più bassi di opportunità di lavoro in settori chiave dell’economia o in posizioni dirigenziali. È un enorme spreco di talento e competenze”.
Il Giappone è riuscito in qualche modo a favorire l’occupazione femminile grazie al programma Womenomics, lanciato nel 2013, che ha portato la partecipazione delle donne alla forza lavoro sopra il 70 per cento, meglio di Stati Uniti ed Europa. Secondo gli ultimi dati pubblicati dal governo, le donne nelle aziende giapponesi quotate in borsa occupano il 9,1 per cento dei posti da dirigente, contro l’1,6 per cento di dieci anni fa. A dicembre la Suntory, azienda alimentare quotata in borsa, ha annunciato la prima amministratrice delegata della sua storia, Makiko Ono, e ha nominato un nuovo consiglio d’amministrazione in cui quattro dei nove consiglieri sono donne (due delle quali straniere).
Famiglie fondatrici
In Corea del Sud l’anno scorso il gruppo Lg ha chiamato due donne alla guida di altrettante controllate. Tra l’altro è stata la prima volta che una delle cinque principali aziende del paese ha scelto per la carica di amministratore delegato delle persone che non appartengono a una delle famiglie fondatrici. La Hyundai, invece, ha nominato per la prima volta una donna nel suo consiglio d’amministrazione, mentre la Samsung ha annunciato la sua prima presidente di divisione donna e non appartenente alla famiglia che ha fondato l’azienda.
Secondo la società di elaborazione dati Ceo Score, tuttavia, a ottobre solo undici delle cinquecento più importanti aziende sudcoreane erano guidate da una donna. È un aumento dello 0,7 per cento rispetto al 2012, senza considerare il fatto che su undici amministratrici delegate tre provenivano dalle famiglie fondatrici delle imprese. L’azienda per la ricerca di personale Unicosearch stima che a giugno del 2022 le donne formavano il 5,6 per cento dei dirigenti delle cento più importanti imprese del paese, mentre più di un quarto delle aziende non aveva alcun dirigente donna. “È un club per uomini”, afferma Ju-hyun, 45 anni (anche il suo nome è stato cambiato), l’unica donna in un gruppo di venti dirigenti di un’importante azienda sudcoreana. “Tanto per cominciare mancano candidate qualificate. Se quelle che sono promosse non ottengono buoni risultati, è considerato una prova del fatto che non bisognava promuoverle, non che avrebbero meritato di essere sostenute fin dall’inizio”, aggiunge.
Sia Soo-jin sia Ju-hyun raccontano che le loro colleghe hanno subìto pressioni dai capi per rientrare al lavoro presto o immediatamente dopo aver partorito, o per non tornare affatto. “Quando una delle mie colleghe è rimasta incinta, il suo capo le ha chiesto subito se avesse davvero intenzione di tornare al lavoro, quanto guadagnava suo marito e se fino a quel momento aveva lavorato solo per passatempo”, spiega Soo-jin. “Le lavoratrici più giovani vedono quello che devono subire le professioniste dopo aver superato i trenta e ne deducono che avere una famiglia non porterà benefici”, afferma Ju-hyun.
Il ministro del lavoro Lee Jung-sik ha ammesso un collegamento tra la discriminazione di genere sul posto di lavoro e il basso tasso di natalità della Corea del Sud, e ha annunciato dei provvedimenti, ma lo stesso non ha fatto il presidente conservatore Yoon Suk-yeol. “La cultura coreana è ancora profondamente patriarcale”, dice Shin Sang-a, presidente della Seoul women workers association. “È difficile cambiare la percezione profondamente radicata secondo cui le donne sono meno competenti degli uomini”.
Gli esperti ritengono che nel lungo periodo l’incapacità del mondo imprenditoriale d’includere le donne avrà ripercussioni negative. “Molti investitori tengono conto della differenza di genere quando prendono le loro decisioni”, spiega Chris Vilburn, della banca d’affari statunitense Goldman Sachs. Vilburn sottolinea i progressi fatti nel Regno Unito dopo che il governo ha introdotto degli obiettivi volontari sulla presenza femminile nei consigli d’amministrazione. “Nel 2010 le donne occupavano solo il 12,5 per cento dei 350 posti nei consigli d’amministrazione delle aziende quotate in borsa. Oggi si è arrivati al 40 per cento”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati