Nella realtà gli agenti dell’Fbi spesso non hanno il fisico di Johnny Depp, ma somigliano piuttosto a dei ragionieri in vacanza, con borsone in spalla e scarpe comode per camminare. Marc Ruskin, che per vent’anni ha lavorato sotto copertura per la polizia federale statunitense, non fa eccezione. Per strada passa inosservato, ed è difficile credere che abbia vissuto tante avventure. Del resto, la sua più grande qualità è sempre stata quella di non farsi notare troppo. Non per niente la sua autobiografia, pubblicata a novembre in Francia dalla Hugo Doc, s’intitola Il camaleonte.
Con voce dolce e piatta, occhi azzurri, sguardo penetrante, fisico snello e dita affusolate, Marc Ruskin non sembra un boss. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dal suo aspetto discreto. Ruskin, che ormai ha 68 anni ed è in pensione, durante la sua carriera ha dovuto interpretare la parte del mafioso, del trader finanziario, del trafficante di diamanti, del falsario, di un agente segreto francese e vari altri ruoli. Ha avuto almeno una decina d’identità diverse. Ha fatto ancora meglio di Donnie Brasco, il protagonista dell’omonimo film del 1997 interpretato da Johnny Depp e ispirato alla storia vera di un agente dell’Fbi infiltrato nella mafia newyorchese degli anni settanta. Ruskin non si è mimetizzato solo nella mafia come l’eroe di quel film, ma anche in altri ambienti criminali. E a differenza di Joe Pistone (l’agente infiltrato come Donnie Brasco), che fece arrestare gli uomini di una delle cinque grandi famiglie mafiose di New York, il marchio di fabbrica di Ruskin è sempre stata la varietà di ruoli. Ne va molto fiero, ma senza vantarsi troppo. C’è una certa banalità nell’eroismo, come nel male.
Per gli agenti sotto copertura la difficoltà più grande era riuscire a nascondere il registratore che serviva per ottenere le prove
Statunitense, con origini francesi e argentine, Ruskin è un miscuglio strano. Il nonno materno lasciò l’Alsazia per fare fortuna in Argentina, lavorando come rappresentante. La madre, nata a Buenos Aires, scelse di studiare a Parigi, dove incontrò il suo futuro marito, uno statunitense che studiava medicina. I due si sposarono ed ebbero due bambini: Marc Ruskin nacque nel 1954 a Parigi. Quando era ancora piccolo, la famiglia emigrò a New York. In casa sua si parlava francese, a scuola inglese e durante le vacanze estive spagnolo, visto che le trascorrevano ogni anno in Argentina.
In genere nell’Fbi non ci sono profili così cosmopoliti, anche se si contano diversi ispanici e italoamericani. Quando, solo alla fine della sua carriera, si è scoperto che Ruskin aveva la doppia nazionalità francese e statunitense, le seccature amministrative non sono mancate, così come dopo il suo recente matrimonio con una cittadina cinese.
Ma cosa ha spinto un rampollo dell’élite intellettuale newyorchese a scegliere l’Fbi? Semplice: un fascino quasi infantile per i poliziotti. Eppure, con una madre psicologa e un padre ebreo laico e di sinistra, il suo profilo non era quello della tipica recluta. “L’ho sempre desiderato, ma pensavo che potesse succedere solo nei film”, racconta.
Quando c’era Hoover
Quando Ruskin entrò nell’Fbi nel 1985, l’agenzia non viveva il suo momento migliore. La fine dell’epoca segnata da Edgar J. Hoover – il vero padre del Federal bureau of investigation, che lo diresse dal 1924 fino alla sua morte nel 1972 – era stata intaccata dagli scandali e da condotte antidemocratiche. Oggi Ruskin si rifiuta di dare un’opinione netta sul periodo di Hoover e aggiunge: “Da un lato, fu lui a rendere professionale l’Fbi, assumendo solo agenti laureati in diritto o contabilità e portando l’organico da seicento a più di diecimila uomini. Dall’altro, è vero che i suoi metodi erano poco ortodossi e che le sue battaglie erano spesso ideologiche. Ma non ha mai agito in nome di un potere politico e non si è mai fatto corrompere”.
Secondo Ruskin, gli aspetti positivi di Hoover superano decisamente quelli negativi: “Rese l’Fbi una forza rispettata in tutto il mondo. Non c’è un posto in cui questa sigla non sia conosciuta”. Per lui l’Fbi è come la democrazia per Winston Churchill: “La peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora”. Un altro aspetto positivo secondo Ruskin è lo spirito di cameratismo tipico dell’Fbi, che non c’è nella Cia, dove regnano la competizione interna e l’egocentrismo.
Prima di entrare nella polizia, Ruskin aveva studiato legge ed era diventato magistrato. Entrò a far parte dell’ufficio del procuratore distrettuale di New York alla fine degli anni settanta: “All’epoca lavoravo insieme ai detective dell’Fbi e trovavo il loro lavoro appassionante. Ma notavo che commettevano molti errori di procedura. Mi sono detto che avrei potuto fare meglio di loro, perché conoscevo bene la legge. E così ho presentato domanda”. Quando la sua candidatura fu accettata, fu mandato a Quantico, in Virginia, per un addestramento di quattro mesi che somigliava a un’altra selezione.
Parentesi esotica
Dopo aver rischiato di essere scartato alla prova di tiro al bersaglio, Ruskin alla fine ottenne un punteggio altissimo e fu mandato a Puerto Rico, un’isola che godeva di una forma di autonomia all’ombra degli Stai Uniti. Qui fu responsabile di molti arresti, da quelli dei latitanti ai criminali locali, fino ai macheteros, i terroristi separatisti sostenuti da Cuba. Dopo questa parentesi esotica tornò a New York e per la prima volta fu coinvolto in un’operazione sotto copertura per indagare insieme ad altri agenti su alcuni illeciti alla borsa di Wall street. Comportarsi da trader finanziario non bastava, bisognava diventarlo per davvero.
L’operazione fallì, perché Ruskin fu riconosciuto da un’ex collega dell’ufficio del procuratore distrettuale, che nel frattempo era diventata avvocata a Wall street. Ruskin riuscì, però, a farsi apprezzare per la sua capacità di adattamento. Dal 1980 in poi continuò a lavorare sotto copertura. A volte per poche ore, assumendo un ruolo secondario in una grossa operazione, a volte per mesi o anni. Essere un infiltrato, spiega l’ex agente, non significa saper mentire bene, ma saper vivere nella menzogna e credere talmente alla propria “leggenda” da non aver più bisogno di mentire.
Negli Stati Uniti le operazioni sotto copertura cominciarono a svilupparsi a partire dalla fine degli anni sessanta e settanta, anche se Hoover non credeva molto in questo metodo perché temeva che gli agenti avrebbero potuto farsi coinvolgere dai delinquenti rendendosi complici di reati. Il primo obiettivo fu stanare la Weatherman, un’organizzazione antimperialista di sinistra schierata contro la guerra in Vietnam e artefice di una ventina di attentati contro edifici federali, che non causarono vittime. Queste operazioni però furono un po’ approssimative e molto pericolose, visto che non esisteva un metodo ben definito: pensate al film di Spike Lee, BlacKkKlansman, che racconta come alla fine degli anni settanta un agente nero dell’Fbi riesce a incastrare un leader del Ku klux klan usando semplicemente il telefono. Ruskin si servì della stessa tecnica 25 anni dopo per incastrare gli attivisti della Jewish defense league, un gruppo estremista ebraico incluso nelle organizzazioni terroristiche dagli Stati Uniti.
Quando Ruskin cominciò a lavorare come agente, nella seconda metà degli anni ottanta, leggeva le biografie dei colleghi in pensione come manuali di sopravvivenza e si affidava al suo intuito. Gli capitava di fare anche due missioni alla volta, d’interpretare la vittima in una truffa e il predatore in un’altra. Dopo aver stanato poliziotti corrotti e truffatori nel campo delle assicurazioni, magari s’infiltrava nella mafia cinese con uno dei suoi personaggi preferiti, Alex Perez, un sedicente criminale della Florida con la coda di cavallo e gli atteggiamenti da mafioso.
Tra gli anni ottanta e novanta per Ruskin e gli altri agenti sotto copertura in realtà la difficoltà più grande era riuscire a nascondere il registratore che serviva per ottenere prove inconfutabili contro i criminali. All’epoca, il Nagra – un registratore svizzero di alta qualità – era grande almeno quanto quattro grosse scatole di fiammiferi impilate due a due. Creare una “leggenda” non era la parte più difficile del lavoro. Internet non permetteva ancora di conoscere il passato di tutti, né di verificare l’autenticità di documenti e diplomi, e neanche di fare una ricerca approfondita sulle foto. Un intero dipartimento dell’Fbi si occupava del backstopping, cioè la costruzione di un’identità falsa. Per creare una “leggenda” credibile ci volevano sei mesi di lavoro.
Tra i rimpianti di Ruskin c’è l’aver visto cambiare il suo lavoro, sempre più affossato dalla burocrazia. La famosa regola dettata da Hoover secondo cui un agente dell’Fbi non deve passare più del 10 per cento del suo tempo in ufficio non vale più: il lavoro amministrativo occupa ormai il 53 per cento del tempo. Gli dispiace che l’agenzia abbia lasciato ad altri la lotta al traffico di droga o la caccia ai latitanti per sviluppare servizi interni alla “guerra al terrorismo” dopo l’11 settembre.
Questa bulimia amministrativa non è sintomo di efficienza, e Ruskin nota con dispiacere come alcuni dei suoi preziosi contatti consolidati durante le indagini non siano mai stati sfruttati nella lotta al terrorismo. “L’Fbi, colpevole di negligenza, ha sprecato troppe occasioni”, osserva duramente nel suo libro.
Lui non è contrario a introdurre agenti infiltrati tra i terroristi, ma crede molto nell’uso di fonti fidate a cui concedere favori in cambio d’informazioni preziose: fornitori di documenti falsi, trader finanziari, trafficanti d’armi. “È a loro che si deve puntare quando si è sotto copertura”, dice.
Rischi del mestiere
Sempre nell’ambito della guerra al terrorismo, alla fine del 2001 Ruskin fu trasferito per tre mesi all’ambasciata statunitense di Parigi, dove scoprì, come racconta lui, che “le autorità francesi non erano ostacolate dallo stesso apparato costituzionale che protegge la privacy negli Stati Uniti. Le forze antiterrorismo francesi controllavano in modo permanente settantamila linee telefoniche”.
Nel corso della sua carriera quattro agenti sotto copertura sono stati uccisi, ma i rischi più grandi Ruskin dice di averli corsi per l’inesperienza o la negligenza dei suoi stessi colleghi. Una sola volta gli è capitato di dover usare la sua pistola, e non era in servizio: nei primi anni duemila a Buenos Aires una persona tentò di uccidere qualcuno dentro a un’auto che viaggiava accanto alla sua e lui la fermò. Questo, ancora oggi, è il suo ricordo più brutto. ◆ cp
◆ 1954 Nasce a Parigi da madre argentina e padre statunitense. In seguito emigra con la famiglia a New York.
◆ 1982 Prende la licenza da avvocato.
◆ 1985 Lascia i tribunali ed entra nell’Fbi. Viene mandato a Puerto Rico per alcune operazioni, poi torna a New York.
◆ 2001 Si trasferisce all’ambasciata statunitense di Parigi per indagare sul terrorismo.
◆ 2012 Va in pensione e vive tra gli Stati Uniti e la Cina, dove studia il mandarino.
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Questo articolo è uscito sul numero 1496 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati