Quando ha preso il potere a Kigali nel luglio 1994, dopo aver messo fine al genocidio dei tutsi, Paul Kagame era già considerato uno dei massimi strateghi africani. Dopo trent’anni, l’uomo forte del Ruanda viene visto come un leader moderno, se non addirittura all’avanguardia. Tuttavia, anche se è connesso a internet giorno e notte, resta un uomo di un’altra epoca. Discendente di una stirpe reale, non si sente legato all’ordine internazionale imposto dagli occidentali dopo la seconda guerra mondiale. Il suo punto di riferimento è la lunga storia del Ruanda, una monarchia la cui capitale era Nyanza, in mezzo alle colline, dove il mwami (re) governava su una popolazione industriosa di agricoltori e pastori. I mercanti di schiavi non entrarono mai in questo regno sugli altopiani, e tantomeno ci riuscì l’esploratore britannico-statunitense Henry Morton Stanley. Il primo contatto con i colonizzatori tedeschi e poi con quelli belgi avvenne solo alla fine dell’ottocento.
Dopo la prima guerra mondiale, l’amministrazione coloniale belga ruppe l’unità del paese, separando hutu e tutsi. Inoltre tracciò un confine che spezzò i legami con le popolazioni di lingua ruandese residenti nei territori che sarebbero diventati il Kivu. Quando il Ruanda ottenne l’indipendenza nel 1962, i tutsi furono cacciati dal paese e la famiglia di Paul Kagame finì a vivere in un campo profughi sul confine ugandese.
Quando Kagame pronuncia il nome del suo paese, lo fa con dolcezza: il ricordo del Ruanda precedente la colonizzazione europea ha alimentato a lungo la sua nostalgia di esule. Ma dopo l’orrore del genocidio trovò, insieme agli altri tutsi della diaspora, una patria distrutta e disseminata di cadaveri. Un milione di tutsi era stato massacrato e due milioni di hutu erano in fuga. Come avrebbero potuto ricostruire il paese e vivere insieme? L’aiuto internazionale fu essenziale, ma il nuovo regime guardava al passato quando decise di affidarsi ai tradizionali gacaca (tribunali sull’erba) per processare e poi reintegrare nella società gli hutu responsabili del genocidio.
Kagame, un discendente dei vecchi monarchi diventato un repubblicano, non ha mai dimenticato neanche le relazioni che legavano i suoi antenati ai pastori tutsi che vivevano nel Kivu. Ai suoi occhi, i confini tracciati dai colonialisti belgi erano solo linee sulla carta. La storia insegnata oggi nel suo paese sottolinea che l’influenza dell’antico Ruanda si estendeva ben oltre le colline del Nord Kivu.

Troppo piccolo
Il Ruanda di oggi è troppo piccolo per Kagame. Senza farsi troppi scrupoli, adducendo ragioni di sicurezza, aveva ordinato l’intervento militare nel territorio confinante nel 1996-1997 per forzare il ritorno dei profughi hutu e accelerare la caduta del dittatore congolese Mobutu.
Da allora, appoggiandosi a gruppi di ribelli tutsi congolesi che gli hanno giurato fedeltà, il leader di Kigali persegue due obiettivi. Il primo è garantire la sicurezza e tenere la guerra lontana dai suoi confini, neutralizzando gli hutu accusati di genocidio e i suoi vecchi compagni diventati oppositori. Il secondo è riportare il Ruanda a quello di un tempo: ricco, indipendente, dominante.
Facendo leva sui sensi di colpa dell’occidente, quest’uomo austero e seducente è riuscito a conquistare l’ammirazione dei “grandi” del mondo. A Davos e in altri incontri internazionali, ha trattato alla pari con Bill Clinton, Boris Johnson ed Emmanuel Macron. Solo nel 2012 l’allora presidente statunitense Barack Obama, che non aveva alcun rimorso postcoloniale, gli ordinò di fermare i ribelli del movimento M23, che avevano conquistato la città di Goma, e lui lo ascoltò.
Oggi il Ruanda è un paese ordinato e sicuro, considerato una storia di successo. Pochi, però, guardano oltre le apparenze e s’interrogano su quali siano le crepe della società ruandese, con i mezzi d’informazione agli ordini del potere e gli oppositori sistematicamente ridotti al silenzio.
Il 3 febbraio il gruppo ribelle M23, sostenuto dal Ruanda, ha annunciato un cessate il fuoco unilaterale per motivi umanitari, interrompendo la sua avanzata nell’est della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), scrive The East African. La settimana prima i miliziani dell’M23, affiancati dai soldati ruandesi, avevano assunto il controllo di Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu, scontrandosi con le forze armate congolesi. Avevano inoltre proseguito la loro avanzata nel Sud Kivu, facendo temere la caduta del capoluogo Bukavu. Secondo le Nazioni Unite il bilancio delle vittime di cinque giorni di combattimenti a Goma è stato di almeno 900 morti e tremila feriti. Il 7 e l’8 febbraio è previsto un vertice organizzato da due diversi organismi regionali a Dar es Salaam, in Tanzania, per discutere della crisi congolese con i leader di Ruanda e Rdc.
Intanto “aumentano le pressioni sull’Unione europea affinché sospenda un accordo sui minerali con il Ruanda, accusato di alimentare il conflitto”, scrive il Guardian. “Bruxelles e Kigali hanno firmato nel febbraio 2024 un memorandum d’intesa sulle catene del valore sostenibili per le materie prime, che permette all’Unione di avere accesso a minerali come stagno, tungsteno, oro e niobio. Il Ruanda è uno dei più grandi produttori di tantalio, usato nelle apparecchiature elettroniche. In base all’accordo Bruxelles versa a Kigali 900 milioni di euro per sviluppare le sue infrastrutture minerarie e sanitarie, e per gli interventi a favore della resilienza climatica. Il denaro proviene dal global gateway, la risposta europea alla nuova via della seta cinese. Quando è stato firmato l’accordo, il presidente congolese Félix Tshisekedi l’ha definito ‘una provocazione di pessimo gusto’. Tshisekedi infatti accusa il Ruanda di saccheggiare le risorse della Rdc: diversi rapporti dell’Onu affermano che Kigali sfrutta il gruppo M23 per estrarre e contrabbandare i minerali”. ◆
Subito dopo l’inizio della prima guerra del Congo (1996-1997), Kagame ha cominciato a sfruttare le ricchezze minerarie del paese vicino (oro, coltan, litio, pietre preziose) per rilanciare la crescita del Ruanda. Kigali è diventata un punto di riferimento per gli affari. Inoltre, il Ruanda – anche se alimenta il conflitto congolese finanziando milizie che agiscono per procura – si è reso indispensabile alle Nazioni Unite perché contribuisce spesso alle operazioni di mantenimento della pace. Questo gli ha permesso di tenere impegnate le sue truppe in Mozambico, nella Repubblica Centrafricana e in altri paesi africani, e di dotare il suo esercito di attrezzature all’avanguardia: l’Europa gli ha concesso per due volte un credito di 20 milioni di dollari.
Per molto tempo Kagame ha goduto dell’indulgenza dell’occidente, anche dopo le accuse del presidente congolese Félix Tshisekedi, che si è reso conto troppo tardi di chi aveva di fronte. Ma la situazione sta cambiando: il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump, un imprenditore senza scrupoli, rimane imprevedibile. Le relazioni con Bruxelles sono gelide, la Germania ha cancellato le discussioni sui suoi programmi di aiuto al Ruanda e Londra ha comunicato a Kagame che il miliardo di dollari di aiuti internazionali globali destinato al Ruanda potrebbe essere a rischio. Inoltre, le cose non vanno bene con i paesi vicini: gli stati dell’Africa meridionale (Tanzania, Sudafrica e Angola), umiliati dal fallimento della mediazione e dalla morte dei loro soldati che partecipavano alle missioni internazionali nella Rdc, hanno irrigidito la loro posizione, opponendosi fermamente alla disgregazione di quello che fu il Congo di Patrice Lumumba.
Se il futuro di Félix Tshisekedi è in pericolo, neanche quello di Paul Kagame è garantito: in mezzo c’è sempre una guerra di troppo. ◆ adg
Colette Braeckman è una giornalista belga esperta della regione africana dei Grandi laghi. In Italia ha pubblicato Denis Mukwege. L’uomo che ripara le donne (Fandango 2014). Questo articolo è stato riprodotto con l’autorizzazione dell’Editore, tutti i diritti riservati.
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Questo articolo è uscito sul numero 1600 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati