Alla fine del 2022 una reporter afgana ha avuto una soffiata: alcuni taliban avevano stuprato una donna e le sue quattro figlie nella valle del Panjshir, a nordest di Kabul. La giornalista, che usa lo pseudonimo di Sahar Aram per paura di ritorsioni, ha passato l’informazione a più di undicimila chilometri di distanza, fuori dal raggio d’azione dei taliban, in un tranquillo sobborgo della Virginia, negli Stati Uniti, dove un paio di giornalisti afgani in esilio avevano da poco lanciato un’emittente televisiva.
Anche se trasmette all’estero, o forse proprio per questo, Amu Tv è uno dei canali che meglio raccontano la vita sotto i taliban. Con l’aiuto di un redattore di Amu, Aram ha messo a punto un piano per raggiungere Deh Khawak, il villaggio sperduto da cui era arrivata la soffiata. I taliban avevano vietato a chiunque venisse da fuori di entrare in città, così Aram si è avvolta dalla testa ai piedi in una stoffa colorata caratteristica di quella zona. La casa delle vittime era stata transennata, perciò lei è passata da un vicino all’altro alla ricerca di prove. Quando un funzionario taliban le ha mandato un messaggio vocale confermando la vicenda, Aram ha riferito quello che aveva scoperto usando un sito criptato.
Subito dopo, Amu Tv ha pubblicato la storia online. Gli afgani nel resto del mondo hanno letto il reportage di Aram, e questo a quanto pare ha fatto infuriare i taliban, che hanno deciso di scovarla. Lei ha cominciato a nascondersi, senza smettere di lavorare. Diversi mesi dopo ha indagato su un funzionario taliban accusato di molestie sessuali. E a quel punto un gruppo di uomini – che secondo lei era legato ai taliban – ha picchiato suo padre fino a fargli perdere i sensi. Un giudice ha accusato Aram di diffamazione e ne ha ordinato l’arresto. “Non ho paura di morire per questo lavoro”, mi ha detto al telefono dal luogo in cui si nasconde. “Ma se i taliban vogliono fare di me un caso esemplare, devo essere sicura che le storie che racconto siano valide”.
La vicenda di Aram è tutt’altro che un’eccezione. Prima che i taliban prendessero il controllo del paese, nell’agosto 2021, i mezzi d’informazione erano stati uno dei grandi successi dell’occupazione statunitense dell’Afghanistan dopo l’11 settembre. Giornalismo e intrattenimento sono andati a gonfie vele nei vent’anni seguiti alla cacciata dei taliban nel 2001. Ma con il ritiro degli ultimi soldati statunitensi, nell’agosto del 2021, l’industria è crollata. I taliban hanno minacciato, picchiato e incarcerato decine di giornalisti.
A causa dell’immensa pressione economica e politica, in tutto il paese emittenti televisive, stazioni radiofoniche e periodici hanno chiuso. Centinaia di giornalisti sono fuggiti, decine sono stati arrestati e almeno due sono stati uccisi. I taliban hanno cancellato la musica dalla programmazione radiofonica e televisiva, escludendo dai notiziari quasi tutte le conduttrici. Le reti televisive hanno sostituito le rivelazioni e le denunce sulla condotta del governo con trasmissioni sulla morale islamica.
Tre anni dopo, i taliban stanno intensificando la guerra ai giornalisti e di recente hanno incarcerato sette collaboratori della Amu. Alcuni sono stati picchiati e torturati. Altri, come Aram, sono stati costretti a nascondersi.
Impunità
La storia di Amu Tv è un avvertimento: i nuovi governanti dell’Afghanistan non si accontentano del potere che hanno. La vera autocrazia esige l’impunità, mentre Amu e altri mezzi d’informazione sono in grado di contrastarla, almeno in parte, almeno per ora. Ma gli arresti, i sequestri e le irruzioni stanno rendendo sempre più difficile il loro compito. E, a giudicare dal caso di Amu, i taliban presto potrebbero renderlo impossibile.
L’attività di Amu dipende dalla combattiva ingegnosità dei suoi collaboratori, distribuiti su un ampio territorio. Dopo la caduta di Kabul, i giornalisti della rete si sono dispersi in Medio Oriente, in Europa, in Nordamerica e altrove. Una squadra in Tagikistan registra segmenti musicali. I produttori doppiano le serie tv vietate in Afghanistan. I collaboratori in Pakistan e Iran si barcamenano tra il lavoro che svolgono di giorno e la necessità di sfuggire alle autorità locali. Alcuni hanno presentato domanda di asilo o chiesto un alloggio permanente senza ricevere nessuna delle due cose.
Come altri mezzi d’informazione afgani fuori dal paese – Hasht e Subh, Afghanistan International ed Etilaaz Roz – la redazione di Amu affida la raccolta delle informazioni a giornaliste e giornalisti che si trovano in Afghanistan, poi confeziona le storie nella sua sede all’estero. Nel paese circa cento reporter, prevalentemente donne tra i venti e i trent’anni, rischiano la vita per denunciare i crimini e la corruzione dei taliban. Insieme a più di cinquanta giornalisti in esilio, di cui una decina circa nella sede di Amu in Virginia, producono quotidianamente notizie online e programmi tv. Il sito web di Amu in Afghanistan è inaccessibile, così come quelli di molti mezzi d’informazione stranieri. Ma, secondo i dati raccolti dalla redazione, circa venti milioni di persone visitano ogni mese la piattaforma digitale di Amu; molti usano una rete virtuale per evitare la censura. Una licenza ottenuta da una compagnia satellitare del Lussemburgo, la Ses, permette ad Amu di trasmettere i suoi programmi in Afghanistan, dove il servizio raggiunge circa 19 milioni di persone. Ma forse il migliore indicatore del peso di Amu Tv sono gli sforzi compiuti dai taliban per intimidirla. Le inchieste dei suoi giornalisti sui casi di stupro, corruzione e uccisioni extragiudiziali li hanno mandati su tutte le furie. La mattina del 12 marzo 2023, i taliban hanno fatto irruzione in un ufficio usato da Amu a Kabul. Gli aggressori hanno trattenuto alcuni collaboratori, tra cui un editor video e un videogiornalista, sequestrando computer e cellulari che sono serviti a individuare le persone sul loro libro paga. Lo scorso agosto altri cinque giornalisti della testata sono stati rapiti.
Il gigante asiatico beneficia indirettamente dell’esasperazione degli abitanti di questi arcipelaghi verso l’occidente
I taliban hanno imprigionato, picchiato e torturato i collaboratori della Amu, in alcuni casi per mesi. I dirigenti dell’emittente hanno lanciato appelli alle Nazioni Unite, all’ambasciata statunitense e a gruppi di attivisti. Dopo settimane di intense pressioni, i giornalisti sono stati rilasciati. In seguito la redazione ha cancellato tutti i dati dei dipendenti e ora distribuisce via corriere o con dei bonifici i fondi per i familiari dei collaboratori che vivono all’estero. Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj), dall’agosto 2021 in Afghanistan sono stati arrestati almeno ottanta reporter. “La situazione è spaventosa”, spiega Beh Lih Yi, coordinatore del programma per l’Asia del Cpj. Nell’ultimo anno, sostiene il Cpj, i taliban hanno arrestato almeno quattro giornalisti accusandoli di lavorare per mezzi d’informazione in esilio. Ogni giorno, spiega Lih Yi, il comitato riceve telefonate da reporter afgani in cerca d’aiuto.
Un senso di normalità
Quando ho visitato la sede di Amu Tv in Virginia, nel novembre 2023, uno dei fondatori, Sami Mahdi, era in ritardo: quella mattina lo zio doveva incontrare i funzionari dell’immigrazione e aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a tradurre. “Certi giorni siamo rifugiati prima che giornalisti”, mi ha detto Mahdi affrettandosi a raggiungere un ufficio dove decine di colleghi in varie zone del mondo aspettavano sullo schermo.
Mahdi ha fondato Amu Tv nell’autunno del 2021 con un ex collega, Lotfullah Najafizada. In Afghanistan avevano lavorato insieme a Tolo News, la principale rete d’informazione del paese, ma con l’intensificarsi delle violenze nella regione facevano una vita insostenibile. Nel novembre 2020 tre combattenti del gruppo Stato islamico attaccarono l’università di Kabul, dove Mahdi stava insegnando, uccidendo sedici studenti. Qualche giorno dopo, l’agenzia d’intelligence afghana lo informò che era stato preso di mira dalla rete taliban Haqqani. Quel mese, i ribelli hanno ucciso un suo caro amico, giornalista anche lui. Temendo di essere il prossimo sulla lista, Mahdi ha lasciato l’Afghanistan il 14 agosto 2021, quando quasi tutti i soldati statunitensi si erano già ritirati. Najafizada è partito lo stesso giorno.
Qualche ora dopo la caduta di Kabul, nella redazione di Tolo News, Najafizada ha ricevuto una telefonata da un miliziano dei taliban che gli ha annunciato l’arrivo di una delegazione incaricata di assicurare pubblicamente al paese che tutto era sotto controllo. “Mi sono reso conto che sarebbe stato impossibile continuare a fare il giornalista a Kabul”, mi racconta Najafizada. Mahdi e l’amico si sono ritrovati in Turchia, dove hanno deciso che se non potevano pubblicare liberamente le notizie all’interno del loro paese lo avrebbero fatto dall’estero e poi le avrebbero ritrasmesse in patria. “Dovevamo cominciare da zero”, dice Mahdi. “Volevamo un modo affidabile di accedere alle informazioni. E volevamo qualcosa che avrebbe unito i nostri colleghi in esilio, preservato quel che avevamo costruito dedicando la vita a questo lavoro, e ripristinato un senso di normalità per gli afgani”.
Poco dopo essersi stabiliti in Nordamerica, Mahdi e Najafizada hanno raccolto un capitale iniziale di quasi due milioni di dollari e hanno reclutato ex colleghi e amici. Un lontano parente di Mahdi ha messo a disposizione gli spazi che sono diventati la redazione di Amu. Grazie alla National endowment for democracy e altri donatori la sua attività continua. La sede è sopra una serie di uffici anonimi a Sterling, a circa 45 minuti da Washington.
In una sala controllo, l’orologio mostra l’ora di Kabul e della Turchia, dove Amu gestisce un secondo studio. Una parete di schermi tv muti trasmette i titoli in pashto e dari. Ogni angolo della redazione ricorda quello che i reporter della Amu devono affrontare nel loro paese. In un grande quadro davanti all’ufficio di Mahdi sono scritti i nomi di decine di giornaliste e giornalisti uccisi negli ultimi vent’anni. Su un pannello di sughero nella parete di fronte sono esposti i ritratti dei leader taliban.
Per la conduttrice più famosa di Amu Tv, Nazia Hashimyar, il bagno delle donne serve anche da camerino per il trucco. Ventotto anni, Nazia sullo schermo non indossa il velo neppure quando intervista i leader taliban. Come molti suoi colleghi, Hashimyar ha lasciato Kabul subito dopo il ritorno dei taliban. Ricorda il traffico che soffocava la città il giorno della sua caduta, le strade invase dalle auto, le inutili telefonate a persone che avrebbero potuto dare risposte sulle liste di evacuazione o notizie sulle persone care scomparse.
Qualche ora dopo la caduta di Kabul, Najafizada ha ricevuto una telefonata nella redazione di Tolo News da un miliziano taliban
Quella mattina di agosto, di buonora, Hashimyar si trovava sul prato del palazzo presidenziale quando il leader afgano, Ashraf Ghani, è salito su un elicottero e ha abbandonato il paese. Aveva lavorato nell’ufficio comunicazione di Ghani e faceva gli straordinari in quello che chiamava il suo “ruolo ideale”: condurre il notiziario della sera per Radio Television Afghanistan, l’emittente pubblica del paese. I taliban le hanno tolto il lavoro il giorno stesso in cui hanno preso la capitale. Dopo essersi nascosta per settimane, Hashimyar è tornata in ufficio per recuperare i suoi oggetti personali, ma è stata allontanata da un uomo armato che ha minacciato di spararle.
Ha trascorso un anno in un campo profughi ad Abu Dhabi prima di essere autorizzata a stabilirsi negli Stati Uniti, nel settembre 2022. È arrivata quando Mahdi stava cercando una conduttrice che diventasse il volto dei notiziari di Amu. Il senso di sicurezza e realizzazione personale che ha trovato negli Stati Uniti si accompagna al profondo disagio di essere fuggita mentre tanti altri non ci sono riusciti. “Fisicamente sono da qualche parte in una periferia statunitense,” mi ha detto. “Ma il mio cuore e la mia mente rimangono in Afghanistan”.
Mahdi ha fatto del suo meglio perché la redazione diventasse una casa per Hashimyar e gli altri collaboratori. “Avevamo bisogno di uno spazio per ritrovarci, per cercare di avvicinare i due mondi tra cui siamo divisi, gli Stati Uniti e l’Afghanistan”, racconta. Nell’ufficio ospita degli incontri con altri giornalisti e scrittori afgani nella regione. Uno chef a qualche palazzo di distanza si occupa del catering. Ogni mattina la redazione riceve pasti gratis e naan fresco. Mahdi sa bene cos’è l’esilio. Aveva 13 anni quando i taliban arrivarono la prima volta al potere. La sua famiglia fuggì in Tagikistan, dove il padre coordinava un notiziario curato da scrittori, attivisti e redattori in esilio che ricevevano dispacci dai corrispondenti in patria tramite telefoni satellitari. Mahdi non sarebbe rientrato nel suo paese per altri cinque anni. “Tornare a essere un esule era la mia più grande paura”, mi ha detto.
Le mani legate
Un mese dopo aver visitato la redazione di Amu in Virginia, sono andata a trovare uno dei suoi redattori che si era stabilito alla periferia di Parigi. Al mio arrivo, Siyar Sirat stava lavorando con altri reporter a un’inchiesta sulla morte di una nota giornalista a Kabul. I taliban avevano dichiarato che quando era caduta dal suo appartamento era ubriaca. Al telefono, i redattori di Amu hanno discusso di un’intervista pubblicata quella mattina su YouTube ai genitori e al marito della donna. Secondo i redattori il video era una messinscena. Nel filmato i familiari dichiarano che la giornalista si è gettata dalla finestra dopo una lite con il marito. Sullo sfondo si nota a malapena un uomo che sembra tenere in mano un kalashnikov. I redattori hanno mandato una reporter a indagare. Ma quando è arrivata sulla scena del delitto non le è stato permesso di entrare nell’edificio. I vicini che ha cercato di contattare l’hanno allontanata, ripetendo che parlare era troppo pericoloso. La giornalista, che si fa chiamare Sima, ha chiesto di essere rimossa dall’incarico perché la gente aveva troppa paura per collaborare. “Da qui sembra evidente che si tratta di una montatura”, mi dice Sirat. “Ma abbiamo le mani legate: sta diventando impossibile occuparsi di casi così difficili”.
Qualche settimana dopo, il ministero per la diffusione della virtù e la prevenzione del vizio ha arrestato decine di donne e ragazze perché non avevano il capo coperto in modo appropriato. Sirat ha cercato di seguire la vicenda, ma ancora una volta ha incontrato molte difficoltà a trovare testimoni disposti a parlare.
Anche Hasiba Atakpal, 26 anni, una giornalista di Amu che vive in Virginia, ha avuto lo stesso problema. Teme che gli afgani presto smetteranno del tutto di parlare con i reporter a causa della crescente persecuzione degli organi di stampa stranieri e delle donne. Prima che si stabilisse in Virginia, quello di Atakpal era un nome molto familiare agli spettatori di Tolo News. Nell’agosto 2021 con la sua troupe aveva trasmesso in diretta da Kabul durante la caduta della città e per questo era stata minacciata da un leader taliban. Per salvarsi aveva dovuto lasciare il paese.
Ora che si occupa dei taliban da lontano, Atakpal ha dovuto cambiare modo di lavorare. Invece di indagare sul terreno, mette insieme messaggi audio di Whatsapp, telefonate registrate e video provenienti dall’interno del paese a cui aggiunge voci fuori campo.
I taliban, e non solo loro, continuano a perseguitarla anche all’estero. Con falsi account a suo nome sui social network hanno cercato di farle perdere credibilità. L’anno scorso, dopo aver mandato in onda un’intervista scomoda al portavoce della polizia di Kabul, ha ricevuto un messaggio da un funzionario taliban che diceva di sapere dove si trova la sua famiglia. Diversi suoi colleghi di Kabul sono scomparsi, l’ultima è una giovane videooperatrice rapita l’estate scorsa.
“È una responsabilità che toglie il fiato”, mi ha detto Atakpal. “I reporter che restano nel paese, quelli che non si possono vedere, sono i veri eroi. Più di ogni altra cosa, vorrei essere al loro posto”. ◆ gc
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Questo articolo è uscito sul numero 1589 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati