Nella Turchia orientale c’è un canyon con le pareti a picco, comunemente chiamato la valle del diavolo. Secondo una leggenda chiunque beva dal torrente che scorre sul fondo sarà maledetto. Un’altra storia racconta di un uomo appartenente a un’antica civiltà che nascose settanta cristalli perfetti sotto a una roccia a forma di gallo. Il tesoro giacque indisturbato per migliaia di anni.
Ho sentito parlare dei cristalli per la prima volta da Muhsin Özgür, 65 anni, un fabbricante di mobili che vive a Erciş, una città polverosa vicino alla valle del diavolo, sulle coste del grande lago di Van. Suo padre era un cacciatore di tesori e passava il tempo libero in cerca di ricchezze e antichità che credeva fossero sepolte nelle colline circostanti. Raccontava al figlio storie elettrizzanti: un uomo che aveva rubato il tesoro da una tomba e dei jinn, gli spiriti, glielo avevano strappato; il raggio di sole che aveva fatto magicamente sparire il bottino dalle mani di un cacciatore. Ma nessuna incantava Özgür quanto quelle legate alla valle del diavolo. Per esempio quella di un cercatore che negli anni sessanta seguì il letto asciutto di un fiume fino a penetrare nella gola, dove trovò un pastore che lo guidò verso la roccia a forma di gallo. Scavando in profondità nella terra e nel pietrisco alla base della roccia, l’uomo alla fine trovò una piccola grotta. All’interno c’erano i cristalli, alti più di un metro ciascuno e scintillanti alla luce dell’alba. L’uomo cercò di staccarli dalla roccia e riuscì a estrarne uno, che però si ruppe tra le sue mani. Portò i frammenti a casa e decise di tornare il giorno dopo per recuperare il resto. Ma al mattino trovò ad aspettarlo un gruppo di abitanti del posto che lo cacciarono via. Si diceva che l’uomo avesse venduto i frammenti al mercato nero.
Perciò Özgür ha deciso di dedicare la sua vita alla ricerca dei tesori che crede siano ancora nascosti in tutta la Turchia. Alcuni sono leggendari (per esempio caverne ricolme d’oro sepolte sotto terreni agricoli), ma altri no. Tra questi gli oggetti e i gioielli del regno armeno di Urartu, risalenti all’età del ferro, oppure i monili abbandonati dalle vittime del genocidio armeno avvenuto tra il 1915 e il 1916.
Da giovane Özgür si era trasferito a Istanbul per lavorare come carpentiere, ma aveva continuato a cercare tesori. Una volta, racconta, scavando in un parco scoprì la cantina di un palazzo ottomano. All’interno trovò delle porcellane d’inestimabile valore. Le foto di quegli anni lo ritraggono come un giovane affascinante con mascelle forti e folti baffi scuri. In una ha gli angoli delle labbra piegati in un sorriso enigmatico, come se celasse un segreto. Negli anni novanta è tornato a Erciş e ha cominciato a lavorare con un amico in un’azienda che si occupa di prospezioni geologiche: durante le ricerche, era facile continuare la caccia ai tesori. Negli anni seguenti ha fatto una serie di scoperte importanti e oggi Özgür è considerato uno dei migliori cercatori di tesori della città. Ma i cristalli della valle del diavolo continuano a sfuggirgli.
Ricerche senza fine
Özgür si è spinto nella valle anche cento volte all’anno, riuscendo perfino a individuare il pastore che negli anni sessanta aveva guidato il cercatore fino al tesoro nella valle del diavolo, ma era morto. Una volta, dice, si è fatto accompagnare da un mistico che sosteneva di poterlo aiutare a trovare i cristalli. L’uomo aveva portato con sé un gallo: se avesse fatto un salto avrebbe indicato la presenza di un tesoro. Il gallo in effetti aveva fatto un balzo, ma il tesoro non si era materializzato. Özgür racconta di aver cercato i cristalli anche insieme a una squadra di funzionari statunitensi di “alto livello”, senza trovare niente.
Negli stereotipi razzisti spesso gli armeni erano descritti come accaparratori
Oggi Özgür parte meno spesso a caccia di tesori. Sua moglie, dice, chiederebbe il divorzio se mantenesse il ritmo di una volta. Però è ancora convinto che, con l’attrezzatura giusta, riuscirebbe a trovare il tesoro nascosto nella valle del diavolo. “Quelle pietre,” dice, “valgono più di qualunque cosa tu possa immaginare”.
La Turchia è disseminata di testimonianze di imperi scomparsi. A Istanbul l’edificio bizantino di santa Sofia sorge di fronte alla moschea Blu di epoca ottomana, costruita accanto all’ippodromo romano. Praticamente ogni grande progetto edilizio riporta alla superficie tracce di antiche civiltà. Nei dintorni di Erciş gli agricoltori, arando i loro terreni, hanno trovato statue e oggetti risalenti a migliaia di anni fa. “In questo paese non puoi fare un passo senza imbatterti in qualcosa d’importanza storica,” osserva Gürkan Çağan, archeologo e conservatore del museo Rezan Has di Istanbul, che ospita una delle più grandi collezioni urartiane del paese.
Questa ricchezza archeologica – e lo scarso rigore nell’applicare le leggi destinate a contenere il commercio illegale di antichità – ha messo in moto i cacciatori di tesori in tutta la Turchia. Sulla costa del Mediterraneo cercano antichità greche e romane, a Istanbul saccheggiano le tombe ottomane. Se oggi questa attività è così popolare, in parte è dovuto all’attuale crisi economica turca. Nel luglio 2024 l’inflazione è cresciuta del 60 per cento rispetto all’anno precedente e negli ultimi cinque anni la lira turca ha perso più dell’80 per cento del suo valore contro il dollaro.
Meno della metà dei turchi lavora a tempo pieno. Le cittadine di provincia come Erciş, in una regione a prevalenza curda, sono particolarmente colpite. Erciş ha un tasso di disoccupazione che è più del doppio della media nazionale. Molti abitanti un tempo erano agricoltori o allevatori, ma ora l’acqua scarseggia, aggravando le difficoltà economiche della città, dove ci sono poche fabbriche e nessun turista. Nel 2011 un terremoto ha causato gravi danni e molti dei palazzi ricostruiti sono rimasti disabitati. Un’alta percentuale di negozi ha chiuso e gli unici clienti dei caffè sembrano gli anziani seduti sugli sgabelli. Tanti giovani sono emigrati nelle grandi città per trovare lavoro nell’edilizia: solo l’anno scorso l’emigrazione netta dalla regione di Van è stata di quasi il 15 per cento.
La caccia ai tesori offre il sogno di sfuggire alla povertà. Capita spesso che uomini di mezza età tirino fuori il telefono per mostrare ai visitatori foto di mappe del tesoro, oppure di monete o di frammenti di ceramica trovati dai loro amici. I cacciatori sono spesso specializzati: alcuni si concentrano sulla gioielleria e le cinture del regno urartu, altri sulle monete persiane. Ma la maggioranza cerca i tesori che secondo loro sono stati abbandonati dagli armeni.
Nazionalismo turco
Quando entrò in guerra al fianco dei tedeschi, nell’ottobre 1914, l’impero ottomano era in ginocchio. Negli anni precedenti una serie di sconfitte militari l’aveva privato di quasi tutti i suoi territori europei. Varie nazionalità all’interno dell’impero reclamavano l’indipendenza, rivendicazioni che si rafforzarono nel 1915 dopo il pessimo avvio dello sforzo bellico ottomano. Con il sistema statale ormai in disfacimento, il governo ottomano intensificò la repressione delle minoranze non musulmane, a cui imputava le sue sconfitte. Gli armeni cristiani – che vivevano da secoli nella Turchia orientale – furono i più colpiti. Aiutato dalle tribù curde, il governo si lanciò in una campagna per epurare l’impero dalla popolazione armena. Nell’antica città di Van, a 65 chilometri da Erciş, nel 1915 gli armeni resistettero per un mese all’assedio delle truppe ottomane. Quando gli ottomani conquistarono la città, si calcola che fossero già morte 55mila persone.
Alcuni sopravvissuti a questo bagno di sangue fuggirono a est; altri furono costretti a marciare verso sud fino all’aspro deserto della Siria e dell’Iraq e in molti persero la vita durante il viaggio. Al termine della prima guerra mondiale erano stati uccisi o deportati quasi tutti i due milioni di armeni che si stima vivessero nell’impero nel 1914. Gli orfani furono adottati da famiglie musulmane, ricevettero nomi turchi e impararono a parlare turco; alcune ragazze furono costrette a sposarsi.
Negli stereotipi razzisti turchi spesso gli armeni erano descritti come accaparratori rapaci (anche se molti erano poverissimi). Non ci volle molto perché la gente ipotizzasse che gli armeni, fuggendo, avessero sepolto i propri oggetti di valore nella speranza di poter prima o poi tornare. Al riguardo le opinioni degli studiosi variano, però in generale concordano nel ritenere che eventuali tesori furono probabilmente ritrovati subito dopo il genocidio. Ma i cacciatori di tesori turchi non si lasciano scoraggiare. Quello che un tempo era solo un hobby si è trasformato in un’industria. Ma a volte gli scavi frenetici nelle chiese e nei cimiteri armeni stanno distruggendo il tessuto storico del paese. I reperti finiscono nelle mani di mercanti privati e i metodi grossolani dei cacciatori provocano danni irreparabili ai siti archeologici.
Il governo del presidente Recep Tayyip Erdoğan ha in larga misura trascurato il saccheggio delle regioni un tempo occupate dagli armeni. Dopo la sua elezione a primo ministro, nel 2003, Erdoğan predicò il pluralismo culturale e alluse perfino alla possibilità di riconoscere che le violenze contro gli armeni fossero state un genocidio, una richiesta che i precedenti governi turchi avevano respinto. Ma dopo essere diventato presidente, nel 2014, il suo governo è diventato sempre più nazionalista, e ha valorizzato gli elementi islamici nella storia del paese minimizzando altre influenze. Nel 2022, quando Garo Paylan, un parlamentare armeno, ha presentato una risoluzione per far riconoscere il genocidio armeno, Erdoğan l’ha definito un traditore. Con il governo disposto a chiudere un occhio, i cacciatori di tesori turchi hanno potuto scavare a piacimento, cancellando nella più totale indifferenza le ultime tracce del patrimonio armeno del paese.
Nel luglio del 2023 ho raggiunto Özgür ai margini di un’autostrada nei pressi di Erciş. Davanti a noi torreggiava una parete di roccia. Automobili e camion ci sfrecciavano accanto facendo schizzare la ghiaia e sollevando nuvole di polvere. All’orizzonte s’intravedeva l’azzurro torbido del lago di Van. Özgür, con il suo immancabile gilet, si è messo le mani sui fianchi e ha studiato la roccia per un po’. Ha alzato gli occhiali dalle lenti spesse, si è passato una mano sulla testa e ha fatto un gesto verso l’alto. Li vedeva, ha detto. I resti di un grande tempio urartiano. Ha indicato una crepa sottile che correva da una sporgenza sulla cima del dirupo fino al suolo. “È il collo di un cammello sdraiato su un fianco”, ha detto. Poi ha indicato un’altra formazione, alta circa tre metri. “E quello è un leone: ecco gli occhi”. Ho fissato le rocce finché mi è sembrato di poter distinguere un muso. “C’è un tesoro dietro quegli occhi”, ha detto Özgür con un fugace sorriso sdentato. “Se vedi un serpente, anche quello può indicare un tesoro”. Io ho strizzato gli occhi e sbattuto le palpebre ma non sono comunque riuscita a distinguere niente.
Özgür è uno storico dilettante ma appassionato, che gli abitanti del posto chiamano affettuosamente “il professore”. Buona parte di quello che sa, dice, gliel’hanno trasmesso il padre e gli armeni che ha conosciuto nel corso degli anni. Scruta il paesaggio alla ricerca di indizi che possano suggerire la presenza di un tesoro o di tombe antiche. Il popolo urartu spesso segnava le tombe con rocce a forma di gallo, di tartaruga o di aquila; gli armeni, secondo Özgür, incidevano sulle pietre l’immagine di una croce o di un serpente per ricordarsi dov’erano sepolti i loro oggetti di valore. Quando trova un sito che sembra promettente usa un bastone da rabdomante e un pendolo per sapere dove scavare.
Mi sembrava un metodo piuttosto dubbio, ma quando si è arrampicato sul pendio Özgür ha trovato una nicchia perfettamente rettangolare contrassegnata da un’iscrizione cuneiforme. Ha sorriso dando dei colpetti alla roccia: quelle antiche tracce nascoste nel paesaggio dimostravano che non si sbagliava. “Una volta qui c’era una grande città”, ha detto. Quando gli ho chiesto se pensava che ci fosse un tesoro sepolto sotto le rocce ha alzato le spalle. “Probabilmente sì”.
Le tecniche tradizionali di Özgür stanno sparendo. Al giorno d’oggi quasi tutte le cacce al tesoro cominciano sui social media. Una ricerca con la parola chiave #defineci (#cacciatore di tesori) su TikTok produce migliaia di video da milioni di visualizzazioni; un gruppo di Facebook (“Simboli dei tesori e loro significati”) ha quasi 400mila iscritti. Online circolano anche innumerevoli mappe di tesori che sarebbero state disegnate da armeni e che nella maggioranza dei casi sono dei falsi da dilettanti, con note scritte in un turco moderno e anacronistico. I truffatori proliferano. Persone che si spacciano per imam o preti armeni sono pronte a eseguire – dietro opportuno compenso – un rituale che, a quanto promettono, rivelerà dove si trova il tesoro. Un’altra tattica usata di frequente consiste nel disegnare una falsa mappa che mostra un nascondiglio segreto situato nella proprietà di una persona ricca. Il truffatore mostra una moneta sostenendo di averla trovata in quel terreno e convince il proprietario a pagarlo per continuare a scavare. Poi scappa con i soldi.
Un passatempo pericoloso
Grazie ai social media, l’interesse per i tesori turchi si è diffuso ben oltre i confini del paese. Gli yabancılar, gli stranieri, arrivano a Erciş da tutta Europa sostenendo di sapere dov’è nascosto un tesoro. Durante la mia inchiesta sono stata scambiata più volte per un’armena alla ricerca del tesoro di famiglia. A Van un uomo che sosteneva di essere un mistico armeno mi ha dato delle fotocopie di “mappe del tesoro” scarabocchiate e mi ha chiesto di aiutarlo a interpretarle. Per strada alcuni mi lanciavano occhiate furtive e la gente telefonava ai cacciatori di tesori che stavo intervistando per sapere chi era “la straniera”. Ho ricevuto perfino delle telefonate anonime in cui mi chiedevano informazioni per arrivare al tesoro, minacciando altrimenti di venire a cercarmi.
Malgrado la sua popolarità, la caccia ai tesori è un passatempo che richiede tempo e denaro. Gli uomini (è un’attività quasi esclusivamente maschile) tradizionalmente partono a caccia la domenica, mentre le donne restano a casa per badare ai bambini. Spesso viaggiano in gruppo, dividendo le spese per la benzina e per un metal detector preso in affitto, se non ne hanno uno proprio. Nelle rare occasioni in cui trovano qualcosa di valore, dividono i costi dell’attrezzatura e il compenso che riescono a ottenere.
Nell’estate del 2023 un cercatore di nome Zafer (mi ha chiesto di non pubblicare il suo cognome perché molti dei suoi scavi sono illegali) mi ha portata in un cimitero nel paesino di Dinlence, chiamato Pertag dagli armeni che un tempo ci vivevano. Le testimonianze di questa popolazione scomparsa erano ovunque. Tutti, sembrava, avevano trovato ossa umane sepolte vicino a casa loro. Ma Zafer sospettava che potessero esserci anche oggetti di valore nascosti sotto terra. Quando gli abbiamo detto dove stavamo andando, Özgür ci ha informato che a Dinlence erano sepolti sette sacerdoti e che il sito era pieno di tesori ancora da scoprire: “Il tesoro sacro del regno cristiano è lì”.
Zafer ha montato il suo metal detector e poi è salito in cima a quello che secondo lui era un tumulo sepolcrale, cominciando a guardarsi intorno. Aveva un cappello a larghe falde calcato sulle orecchie per proteggersi dal sole e con una mano teneva un pesante computer. Il metal detector era un modello sofisticato, capace di scandagliare molti metri sotto terra e fornire scansioni 3d (i macchinari migliori costano decine di migliaia di dollari. Zafer e il suo socio ne possiedono vari e li affittano a chi non può permettersi di comprarne uno).
Il cercatore si muoveva lentamente e metodicamente sull’erba, cambiando direzione ogni volta che il metal detector glielo diceva: “Dritto”, ordinava una voce robotica femminile. “Gira.” A volte la macchina emetteva un beep insistente e Zafer strizzava gli occhi verso lo schermo del portatile attraverso le spesse lenti. Ogni volta era una delusione: il detector aveva rilevato un’irregolarità sotto la superficie, ma dalla scansione si capiva che non c’era niente di valore. Ce ne siamo andati a mani vuote e Zafer ha commentato che andava quasi sempre così.
Secondo Özgür i metal detector sono dannosi perché incoraggiano l’inutile distruzione di siti archeologici ogni volta che suonano. Zafer sembrava abbastanza scrupoloso prima di scavare, ma altri agiscono senza nessuna cautela. Nella Turchia orientale le rovine di città, chiese e cimiteri armeni sono crivellate di crateri lasciati dagli scavi, a volte fatti usando perfino la dinamite. Online si trovano video di cacciatori che saltano in aria mentre cercano fortuna. “È molto difficile avere a che fare con una nazione ignorante”, mi ha detto Özgür.
In base alla legge turca, gli aspiranti cacciatori di tesori devono ottenere una licenza dal ministero della cultura e del turismo. Ma queste licenze sono rilasciate solo per le zone che per il governo non hanno valore culturale o ambientale, tra cui ci sono molti siti storici armeni. Inoltre scadono dopo un mese di scavi, quando la ricerca – che deve limitarsi a una superficie di cento metri quadrati ed essere sorvegliata da un funzionario del museo della zona – va necessariamente abbandonata se non è stato trovato niente. Qualunque oggetto rinvenuto e considerato culturalmente prezioso dal ministero – in generale manufatti del passato islamico del paese, più che di quello cristiano – è trasferito al museo e diventa proprietà del ministero. Il cacciatore di tesori riceve un compenso pari al 50 per cento del valore stabilito dal governo se il terreno dello scavo è pubblico, e al 40 per cento del valore se è privato (il 10 per cento va al proprietario del terreno).
Per i cacciatori di tesori il sistema presenta una serie di problemi. In primo luogo le risorse pubbliche per svolgere questi scavi sono limitate. Il dipartimento cultura e turismo è perennemente sottofinanziato, perciò chi ha la licenza spesso deve aspettare a lungo perché sia disponibile una squadra di scavo autorizzata. In secondo luogo, il governo di regola stima al ribasso il valore delle scoperte. Anche se ai cacciatori di tesori viene offerta una cifra ragionevole, spesso devono aspettare molti anni per incassarla, e alcuni non la ricevono affatto. Non sorprende che molti preferiscano evitare la procedura ufficiale e scavare senza permesso. Se trovano qualcosa si rivolgono all’ampia rete di trafficanti e intermediari, che vendono gli oggetti a collezionisti privati.
Antichità in vendita
In parecchi mi avevano citato un mercante ebreo di Istanbul. Alcuni lo chiamavano Simentof, altri Simentov o Simento. Ma anche se in molti si erano impegnati a mettermi in contatto con lui, nessuno ha mai mantenuto la promessa. Avevo cominciato a sospettare che, come molte altre cose raccontate dai cacciatori di tesori, anche Simentof fosse una leggenda. Poi un giorno ho detto a un tassista di Istanbul che non riuscivo a trovare un mercante di antichità disposto a parlare con me. L’autista inaspettatamente si è offerto di aiutarmi e mi ha dato delle indicazioni: prima dovevo andare nel gran bazar, p0i, “dopo la porta dello spadaccino, vedrai una banca. Davanti ci sono vari negozi di antichità. Uno di quelli potrà esserti utile”.
Dopo qualche falsa partenza ho trovato Antichità Ziva, il minuscolo negozietto a cui aveva accennato il tassista. Era illuminato fiocamente, con teche piene di icone, ceramiche e gioielli. Sul retro, un anziano con i baffi e una polo verde lime era seduto dietro a un pesante tavolo di legno coperto di broccato. Si è tolto gli occhiali da lettura per darmi un’occhiata.
“Benvenuta”, ha detto, “come posso aiutarla?”. Gli ho detto che stavo cercando antichità provenienti dalla regione di Van. “È venuta nel posto giusto”, mi ha detto. Poi gli ho chiesto come si chiamava. “Simentof”, ha risposto. Ho detto che avevo sentito parlare molto di lui a Erciş. “Mi conoscono”, ha osservato sorridendo.
Simentof è nato nel 1950. Suo padre era un barbiere che aveva la bottega al gran bazar. In Turchia fino al 1983 la vendita di antichità non registrate non era ufficialmente vietata, e il commercio era fiorente. Incoraggiato dai mercanti del bazar, da ragazzo Simentof leggeva “libri su libri su libri” e pian piano aveva imparato a valutare gli oggetti trovati dai cacciatori di tesori.
Sosteneva di essere un profondo conoscitore di ogni periodo della storia turca. “Sono un esperto di cultura selgiuchide. Sono un esperto di Grecia. Sono un esperto di Bisanzio. Sono un esperto di icone. Non me l’ha insegnato nessuno, ho imparato al tatto”. Commerciando antichità per tanti anni, mi ha detto, ha imparato a valutarle e datarle semplicemente tenendole tra le mani.
Un tempo c’erano più di seicento chiese intorno al lago di Van, oggi meno di cento
Simentof ha aperto un cassetto e ha tirato fuori una busta di carta. All’interno c’era un piccolo amuleto d’oro con due uccellini di lapislazzuli intarsiati al centro e fili di perle appesi sul fondo. Mi ha chiesto di soppesarlo con la mano. “È bizantino”, ha detto. Stimava che avesse più di mille anni. “Probabilmente non terrà mai più in mano un oggetto simile”.
Ci ha tenuto a sottolineare che non commercia più tesori illegali, anche se mentre parlavamo continuava a ricevere telefonate di gente che gli chiedeva di stimare qualcosa. A un certo punto sono entrati degli uomini portando un oggetto avvolto in un pezzo di tela. L’hanno messo davanti a Simentof, che lentamente ne ha estratto uno strumento d’oro simile a un corno, ornato con immagini di foglie di fico e una testa di ariete. “Falso”, ha detto, rimettendo il corno nella stoffa. “In Grecia si può comprare per strada a dieci euro”.
Cultura al tramonto
Molte antichità trafficate dai mercanti turchi finiscono fuori del paese. Alcune sono nascoste in container pieni di altre merci e con etichette innocenti come “elettrodomestici”. I proprietari dei container, e a volte gli ispettori doganali, sono pagati per chiudere un occhio. Ci sono anche sistemi più semplici. Cittadini britannici ed europei sono stati sorpresi con del vasellame in valigia. Un mercante con cui ho parlato avvolge piastrelle e tavolette in carta di giornale e le mette nel bagaglio a mano.
La Turchia sta cercando di reprimere il traffico internazionale di antichità. Una decina di anni fa il governo Erdoğan lanciò una campagna molto pubblicizzata per chiedere la restituzione dei manufatti che secondo le autorità erano stati saccheggiati dal suolo turco. La richiesta fu rivolta a illustri istituzioni culturali tra cui il Getty museum e il Metropolitan museum of art, e Ankara rifiutò di prestare opere al British museum finché non fossero stati restituiti alcuni oggetti. Più recentemente, nel 2021, il governo ha firmato un accordo con gli Stati Uniti per impedire che nel paese entrino illegalmente delle antichità. Ha anche lanciato operazioni di polizia per arrestarne il contrabbando nei mercati europei e internazionali.
Ma queste iniziative non sono servite a stroncare il saccheggio compiuto dai cacciatori di tesori della domenica. Di fatto, secondo alcuni critici, le politiche tolleranti nei loro confronti rientrano in un più vasto progetto nazionalistico per tenere le antichità all’interno dei confini del paese. Alice von Bieberstein, un’antropologa che studia il fenomeno nella regione di Van e dintorni, sostiene che l’intera “economia ombra” dei tesori si regge con la “complicità dell’apparato statale”. Lo stato, afferma, incoraggia tacitamente il saccheggio “fingendo di non vedere”. Gli oggetti di valore in questo modo restano in Turchia nelle mani di collezionisti privati, e il governo non deve pagare per acquistarli, conservarli o restaurarli.
È grazie a questo che Gürkan Çağan, il conservatore del museo Rezan Has, spiega come mai quasi tutti i pezzi della sua collezione arrivano da cacciatori di tesori. Gli oggetti, che restaura personalmente, riempiono non solo le teche del museo, ma anche mensole e schedari del suo laboratorio. In base a una disposizione della legge turca che consente ai musei di registrare le antichità senza dichiararne la provenienza, le sue collezioni sono legali anche se l’origine di alcuni pezzi è illegale. Çağan è ben felice di ampliare la raccolta del museo a qualunque costo: meglio tenere le antichità all’interno del paese, mi ha detto, che lasciarle sparire in Europa, com’è avvenuto per secoli
Ma questo sistema garantisce ben poche protezioni al patrimonio armeno. Nessuna chiesa armena che ho visitato in Turchia aveva sistemi di sicurezza e penetrare al loro interno era facile per chiunque. Un cimitero islamico risalente al dodicesimo secolo, invece, era protetto da agenti di polizia armati e da una squadra di guardiani.
Paylan, l’ex parlamentare che si è battuto per la protezione delle chiese armene, crede che la distruzione di questi siti equivalga a cancellare la cultura armena in Turchia. Nell’estate del 2022 ha tenuto una conferenza stampa davanti a un monastero diroccato nelle vicinanze di Van.
“Questo monastero è rimasto in piedi per 1.600 anni, ma nell’ultimo secolo è andato in rovina. Lo stanno distruggendo deliberatamente”, ha detto con la voce scossa dall’ira. “Quando distruggiamo questi luoghi perdiamo le nostre radici. Perdiamo la memoria. Diventiamo una cultura corrotta”.
Un tempo c’erano più di seicento chiese intorno al lago Van. Oggi ne rimangono meno di cento. Quelle ancora in piedi somigliano a scheletri, l’interno spogliato dai cacciatori di tesori. Le incisioni in armeno sono state staccate, cupole e colonne sono crollate formando cumuli di macerie. Una, sulle colline intorno al lago, è stata usata come ricovero per le capre e adesso è piena di letame. Un vecchio mi ha raccontato che scaccia quelli che vengono a scavare in un’altra chiesa, ma è preoccupato per quello che succederà dopo la sua morte. Camminando nella zona ho trovato pietre prelevate dalle chiese nei luoghi più inaspettati: incastonate nel muro di un giardino o di una fattoria.
Un pomeriggio Zafer mi ha portato nella città di Salmanağa, dove un tempo sorgeva un monastero armeno. Un contadino di nome Gültekin ci ha guidato attraverso l’erba alta del suo giardino fino alle rovine di una chiesa che un tempo faceva parte del complesso monastico. Quasi tutte le opere d’intaglio erano state rimosse e Gültekin ha detto che erano finite in mani private o nei musei. Il terreno intorno alla chiesa era disseminato di buche. Gültekin ci scava da sempre. Non aveva trovato granché, a parte qualche scheletro.
Siamo entrati in quello che restava della chiesa. Guardando in alto, al posto del soffitto vedevamo il cielo azzurro. Davanti a noi, al centro della navata, c’era una buca profonda almeno quattro metri e larga tre. Ci abbiamo camminato intorno con cautela, attenti a non caderci dentro. “Sono più di dieci anni che la scavo”, ci ha detto Gültekin. Si ferma qualche mese e poi quando ha tempo scava ancora un po’.
Si stava facendo buio. Gli ultimi raggi del sole si allungavano pigramente attraverso le nuvole sui campi con mucchi di fieno ancora da imballare. Nel giardino accanto, due vecchi avevano scavato in quello che credevano il cimitero del monastero. Da qualche parte, dicevano, doveva esserci un tesoro. Zafer ha chiesto se avevano già trovato qualcosa. Niente, hanno risposto, solo alcune ossa. Hanno fatto un gesto verso di me.
Ho abbassato gli occhi. Ai miei piedi c’era un ordinato mucchio di femori e quelli che sembravano pezzetti di un omero. Ho chiesto agli uomini se pensavano di seppellirli di nuovo. Loro hanno alzato le spalle. Una volta, hanno detto, avevano riseppellito uno scheletro. Però adesso i resti di solito li buttavano via. ◆ gc
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1589 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati