È difficile dire quale potrebbe essere un blockbuster ideale nella Hollywood contemporanea. Quelli che escono spesso sono deboli, popolati di personaggi con dimensioni interiori ridotte e inquadrati in una rappresentazione comprensiva che riduce genere, etnia e sessualità a categorie di marketing. Questa è la realtà cinematografica su cui si affaccia Matrix resurrections, più di vent’anni dopo l’originale del 1999: un universo di sequel, reboot e aggiornamenti continui. Un universo in cui l’immaginazione è coagulata in qualcosa che si può facilmente vendere e comprare. Eppure Lana Wachowski, con il suo primo lungometraggio da solista, riesce a respingere formule stanche e offrire al pubblico qualcosa di fresco, curioso e divertente. Thomas Anderson (Keanu Reeves) è il creatore di The Matrix, un videogioco di successo ambientato in una realtà virtuale. Dopo un incontro casuale con Tiffany (Carrie-Anne Moss), una donna sposata e madre di due figli, comincia ad avere confuse visioni del passato e quando il suo capo (Jonathan Groff) gli dice che vuole realizzare un sequel di Matrix la sua realtà comincia a scivolare via. In bilico tra una meta-resa dei conti con l’eredità della prima trilogia e la fioritura di qualcosa di nuovo e audacemente romantico, Matrix resurrections è un incasinato e imperfetto trionfo. Era impossibile prescindere dall’influenza sulla cultura statunitense che ha avuto la trilogia originale, allora la regista ha deciso di costruire questo sequel sul suo aspetto forse più grande e singolare: la bizzarria.
Angelica Jade Bastién, Vulture
Stati Uniti / Regno Unito / Australia 2021, 148’. In sala
Francia / Iran 2021, 127’. In sala
Dopo qualche giro per l’Europa, Asghar Farhadi torna nel cuore della realtà iraniana, più precisamente a Shiraz, sulle tracce di un fatto vero che ha fatto scalpore sui giornali locali. Rahim, finito in prigione a causa di un debito non pagato, ottiene un congedo di due giorni. La sua compagna ha trovato per strada una borsa con delle monete d’oro e vorrebbe che lui la usasse per ripagare il debito. Rahim invece affida il tesoro alla sorella, torna in carcere e pubblica un annuncio per trovare il proprietario. Si presenta una donna che subito dopo scompare con la borsa. Nel frattempo il gesto di Rahim è sfruttato dalla direzione del carcere per vantarsi. La stampa locale, i social network e le associazioni caritatevoli chiedono il rilascio dell’uomo. Ma ci sono degli ostacoli. La borsa è tornata davvero al legittimo proprietario? Il dubbio s’insinua e dovrà essere Rahim a scoprire la verità. Da lì in poi Un eroe mostra progressivamente la sua dimensione di favola filosofica, sulla verità e le bugie, la realtà e le apparenze, l’onestà e l’inganno. E lo spettatore vedrà abbastanza chiaramente quale parte in ciascuno di questi campi spetti all’individuo e quale allo stato, e quale logica ci sia dietro alle loro azioni.
Jacques Mandelbaum, Le Monde
Spagna 2021, 120’. In sala
Alla Básculas Blanco, un’azienda a conduzione familiare che produce bilance nella provincia castigliana, il padrone si prende cura dei suoi dipendenti come se fosse un padre. Questo “brav’uomo” che pensa a tutti e sogna di vincere un premio per l’eccellenza aziendale è brillantemente interpretato da Javier Bardem, ormai una star internazionale, che torna a lavorare con Fernando León de Aranoa vent’anni dopo I lunedì al sole. Per il capo i problemi si accumulano: il direttore della produzione entra in depressione, un ex impiegato si accampa davanti all’azienda per gridare con un megafono che sono tutti dei ladri e una giovane stagista turba la sua serenità. Con echi del cinema di Billy Wilder, ma anche di Ernst Lubitsch e Mario Monicelli, León de Aranoa offre un film brillante che funziona come una farsa sulla vita di provincia, sui rapporti di lavoro e sulla stessa condizione umana. Va detto subito che non è un pamphlet sul mondo del lavoro e che non ci sono semplificazioni adatte a una strumentalizzazione politica. Al contrario, la cosa più curiosa del film è che alla fine non si capisce se il signor Blanco sia davvero il buono, o almeno il meno cattivo.
Juan Sardá, El Cultural
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