Per farsi un’idea di quello che combina Rosalía nel suo terzo album basta ascoltare Hentai, una ballata sommessa e dolente – o almeno così sembra all’inizio. Cantando con una voce acuta che sembra voler rincorrere Edith Piaf, la cantante spagnola traccia una melodia vocale ascendente su accordi di pianoforte. Sul finale un arrangiamento di archi prende il via, dando alla canzone un malinconico sapore hollywoodiano. Eppure il titolo fa riferimento a tutt’altro: gli hentai sono i porno animati giapponesi. Il testo della canzone descrive il piacere fisico in modo molto più esplicito rispetto ai suoni delicati che sentiamo. A un certo punto dal nulla entra una drum machine, che spazza via il senso di calma apparente. “Al secondo posto c’è fotterti, al primo dio”, canta Rosalía, e sembra volerci dire che il sesso merita lo stesso trattamento pomposo che il pop in genere riserva al romanticismo. Registrato in varie parti del mondo (comprese Los Angeles, Barcellona e la Repubblica Dominicana) e caratterizzato da collaborazioni con The Weeknd, Pharrell Williams, Q-Tip, James Blake, il fidato El Guincho e il pionieristico produttore portoricano Tainy, Motomami è un disco sul ripensamento dei confini culturali. Evoca un mondo moderno che mette in discussione le vecchie tradizioni popolari, ma al tempo stesso cerca conforto in esse. Queste canzoni taglienti, che fondono reggaeton, hip hop, bachata (nel singolo La fama, dov’è ospite The Weeknd), rnb e jazz, creano connessioni improbabili senza preoccuparsi troppo della coerenza. Il fatto che sia una donna europea che abbraccia il reggaeton ha irritato alcune persone. Eppure anche il flamenco, il genere che aveva ispirato il successo planetario del precedente disco El mal querer, è stato scoperto per caso dalla cantante spagnola a tredici anni grazie a un amico. In Motomami però Rosalía dimostra che il suo amore per il reggaeton non è meno potente di quello per il flamenco.
Mikael Wood, Los Angeles Times
L’ultimo album del duo di Atlanta prende forma da viaggi che conducono l’ascoltatore in un paesaggio cupo, lungo un’autostrada statunitense, senza alcuna destinazione se non un’intangibile sensazione di libertà. Se nei precedenti lavori Mattiel Brown e Jonah Swilley hanno portato avanti un processo creativo come due menti separate, stavolta esplorano la possibilità di essere un’unica entità. Il risultato è una serie di canzoni coese, sperimentali e ricche di riferimenti. Il dna dei Mattiel è radicato nel rock degli anni sessanta, ma la band si avventura anche in territori più folk, blues e indie, pensando alle Haim e ai Kills, come nel singolo Jeff Goldblum. La voce di Mattiel Brown emula perfino il tono enigmatico di Mark Lanegan in Subterranean shut-in blues, lasciando intendere la voglia di provare nuove strade. Un elemento comune nei testi è la ricerca di prospettive diverse sul mondo, narrate con sinuosa nonchalance, che cresce con l’avanzare del disco. Mentre il viaggio di Georgia gothic sta per finire, vi sentirete pervasi da un sentimento di pacata redenzione, che arriva direttamente dai finestrini abbassati e dallo stereo a volume alto.
T. D. Kelly, Loud and Quiet
In settant’anni di carriera Ruggiero Ricci (1918-2012) ci ha lasciato più di cinquecento dischi. Quelli usciti per la Decca sono fondamentali. In venti cd troviamo raccolte le registrazioni che ne forgiarono la leggenda, a cominciare dalle due integrali (1950 e 1959) dei Capricci di Paganini, nei quali il violinista statunitense unisce un virtuosismo inaudito a uno sbalorditivo sprezzo del pericolo. Le stesse virtù sfavillanti sono nei concerti dello stesso Paganini e di Saint-Saëns, Sarasate e Lalo. Eccezionali anche quelli del grande repertorio (Beethoven, Čajkovskij, Mendelssohn, Sibelius, Bruch, Dvořák, Prokofev e Chačaturjan). Le sonate sono altrettanto riuscite. Troviamo due Beethoven con Friedrich Gulda, un’inedita integrale di Brahms con Julius Katchen, e poi Strauss, Prokofev e le sei sonate progressive di Weber con Carlo Bussotti: tutte esecuzioni nelle quali Ricci è sempre straordinariamente espressivo senza mai diventare manierato. Nei pezzi brevi da puro virtuoso (Wieniawski, Bazzini o ancora Paganini) ancor più della tecnica trascendentale colpisce la sfacciata facilità d’esecuzione. Talento sconfinato anche nel repertorio per violino solo (Bach, Bartók, Prokofev, Hindemith, Stravinskij). È un cofanetto imperdibile, una summa enorme e affascinante, finora quasi impossibile da riunire.
Jean-Michel Molkhou, Diapason
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