Le Dolomiti sono prima di tutto la luce: dorata all’alba, pallida in giornata e incandescente al tramonto. Impossibile stancarsi di fronte a tutte queste sfumature di colore. E anche loro sembrano divertirsi, consapevoli della loro bellezza. La loro luminosità si deve in gran parte alla dolomia, la roccia di cui sono costituite e da cui deriva il loro nome. A darglielo fu il biologo svizzero Nicolas-Théodore de Saussure nel 1796, in omaggio al geologo francese Déodat Gratet de Dolomieu che era rimasto incantato da queste montagne verso la metà del settecento.
L’istante magico
In passato erano chiamati i monti pallidi, in contrasto con il resto della catena alpina, le cui rocce sono più scure. La dolomia è una roccia sedimentaria formata in gran parte di dolomite, un minerale ricco di carbonato di calcio e magnesio. Questa struttura è all’origine della loro bellezza. Provate a immaginare quelle luci in inverno sulla neve alla base dei denti dalle punte affilate, i famosi spigoli, lungo le pareti verticali che s’innalzano verso il cielo e le scure foreste di conifere. È uno spettacolo magnifico.
Abbiamo scelto la parte delle Dolomiti tra l’estremo nord del Veneto e l’Alto Adige. Dopo aver attraversato Cortina d’Ampezzo, entriamo nella val di Landro, a ridosso della frontiera austriaca, e arriviamo a Dobbiaco. La strada costeggia valli strette e lascia intravedere immense pareti calcaree, lungo i valichi e i paesi che s’incontrano. Sembrano sbucare dal nulla. Qui comincia la nostra ricerca delle tre cime di Lavaredo, la cima grande (2.998 metri sul livello del mare), quella ovest (2.973) e quella piccola (2.856). “Al contrario di altre vette, queste sono facilmente riconoscibili”, osserva Veronika Burgmann di San Candido, che parla tedesco, italiano e il dialetto imparato in famiglia, come tutti gli abitanti di questa regione del Tirolo un tempo austriaca e annessa all’Italia alla fine della prima guerra mondiale. Con Mussolini ci fu un’italianizzazione forzata, seguita da anni di lotte prima che l’Alto Adige ottenesse l’autonomia nel 1972. Oggi il 70 per cento della popolazione parla tedesco ed è per questo che il nome delle città è scritto nelle due lingue, come quello delle cime sulla nostra mappa.
In tedesco i nostri prossimi obiettivi si chiamano Große Jaufen (Giovo grande, 2.480 metri sul livello del mare) e Dürrenstein (picco di Vallandro, 2.839). L’idea è scegliere una vetta diversa ogni giorno per avvicinarci gradualmente alle tre cime. Preferiamo vederle prima da lontano. È l’obiettivo della nostra prima giornata nella valle di Braies con la guida Thomas Gianola. Mettiamo gli sci e cominciamo l’escursione lungo un sentiero che si snoda nella foresta. Dal rumore che facciamo sulla neve capiamo che è stato molto freddo negli ultimi giorni e che la neve è dura e gelata. Le condizioni non sono ideali, ma le guglie e i pinnacoli che sovrastano le cime compensano la mancanza di neve farinosa su cui speravamo di lasciare la nostra scia, uno dei piaceri dello sci alpinismo.
E poi c’è l’istante ogni volta magico di quando si raggiunge la vetta e si vede quello che c’è dall’altra parte. In lontananza le tre cime sembrano minuscole, ma le loro punte si distinguono bene in mezzo alle altre montagne. Gianola ci mostra dove passa l’alta via n. 1, il più famoso dei sentieri di trekking italiani, che si snoda per più di cento chilometri tra le cime delle Dolomiti. “Sono andato un po’ ovunque nel mondo per poi rendermi conto che qui c’era tutto. Mi piace questo luogo perché ci sono valli e itinerari molto diversi”, dice Gianola, che è nato e cresciuto a Bolzano. Sulla terrazza del rifugio Rossalm ci dividiamo una Kaiserschmarrn, una frittata dolce tipica del posto, servita di solito con marmellata di ribes o mirtilli. Lo chalet in legno fa pensare a una casa delle bambole.
Salire all’alba
Sulla strada che ci porta a Brunico notiamo che l’architettura è curata, con campanili a punta e case allegre. È qui che Maria Rosa Weber ci aspetta per farci visitare il capoluogo della val Pusteria. La sua famiglia è originaria di Sesto, nel parco naturale delle tre cime, in cui andremo a sciare l’ultimo giorno. Sua nonna era austriaca, prima di diventare italiana nel 1918. “Ho imparato l’italiano a scuola, nel mio paese lo parlavano solo i poliziotti”, ricorda questa vecchia professoressa d’inglese che non parla il dialetto della nostra guida. Nell’Alto Adige ci sono una quarantina di varianti del dialetto.
Il giorno dopo torniamo nella valle di Braies in direzione del picco di Vallandro per avvicinarci un po’ di più alle tre cime e lasciarci sorprendere dall’alba. Ci svegliamo alle quattro del mattino per cercare di raggiungere la cima entro le sette. La salita comincia al buio, con la torcia frontale puntata sulla neve ghiacciata e qualche stella e una falce di luna a illuminare il paesaggio. Di notte la natura è ancora più misteriosa e silenziosa. Camminiamo lentamente combattendo contro il freddo. Sulla nostra destra, sulle guglie del monte Cristallo, scorgiamo la prima luce dell’alba rosso vivo e poi arancione.
La luna ci accompagna fino alla croce della vetta, da dove vediamo finalmente le tre cime illuminate dai primi raggi di sole. La bellezza appartiene a chi si sveglia presto, prestissimo. A nord ci sono le cime austriache con il famoso Großglockner (3.798 metri sul livello del mare), a est il Giovo grande dov’eravamo il giorno prima. Approfittiamo ancora un po’ di questo momento eccezionale prima di levare le pelli dagli sci e scendere sulla neve dura con l’impressione che sia già passata un’intera giornata, mentre sono solo le nove del mattino.
Dopo questa gita abbiamo due possibilità: camminare per le stradine di San Candido, un paese con le case colorate, oppure salire sul plan de Corones, la stazione sciistica di Brunico. Il luogo è conosciuto per il ristorante AlpiNN, una struttura di vetro sospesa nel vuoto in cui si può gustare una cucina creativa. Ma anche e soprattutto per i suoi due musei: il Lumen e l’Mmm Corones, il museo Messner della montagna.
Il primo, costruito nella vecchia stazione d’arrivo della teleferica, offre una collezione d’immagini d’archivio e foto realizzate oggi della montagna. Il secondo fa parte dei sei musei del circuito concepito da Reinhold Messner, il primo alpinista ad aver scalato l’Everest senza bombole d’ossigeno. Un edificio costruito in cima alla stazione dall’architetta Zaha Hadid (1950-2016) e ben integrato nel paesaggio. I suoi tre piani espositivi offrono un’interessante ricostruzione della storia dell’alpinismo ed espongono dei bei quadri delle tre cime.
Le montagne le vedremo infine il giorno dopo, al termine di una salita dalla val Fiscalina fino al mitico rifugio Locatelli. Il percorso è piuttosto affollato ma all’arrivo le tre cime, che avevamo sognato attraverso le foto e le storie di montagna, sono davanti a noi, a portata di mano. Bisogna veramente vederle da vicino per rendersi conto di quanto siano monumentali.
Tra gli alpinisti che hanno scalato queste pareti di cinquecento metri ci piace ricordare l’italiano Tita Piaz (1879-1948). Nella sua biografia intitolata Il diavolo generoso (Dolomiti Edizioni 2018) – il suo soprannome – ci sono i ricordi, le emozioni, l’attaccamento a queste montagne sublimi e a queste luci magiche che porteremo con noi. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1453 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati