Kim Hyeong-bae, un linguista sudcoreano, aveva un problema: come tradurre in coreano la parola deepfake. Kim è un ricercatore dell’Istituto nazionale di lingua coreana, un ente regolatore governativo il cui compito è setacciare le molte parole straniere che invadono il linguaggio quotidiano e sottoporle a un comitato – chiamato “nuovo gruppo linguistico” – per essere tradotte in coreano.
Deepfake, che in coreano si pronuncia “dip-pei-cu” e appariva sempre più spesso nei titoli dei giornali, era un esempio da manuale. Una traduzione letterale delle due parole che lo compongono sarebbe stata assurda, quindi lo scorso autunno, in videoconferenza, Kim e altri 14 esperti del settore sono partiti dalle domande fondamentali: com’è possibile esprimere con precisione in coreano le connotazioni negative della parola? È necessario usare termini come “contraffazione” o “intelligenza artificiale”? Un partecipante alla riunione ha suggerito di usare “modifica intelligente”, ma un altro ha subito obiettato: “Questo lo fa sembrare una cosa positiva”. Alla fine dei quindici minuti di discussione, le opzioni erano ridotte a cinque.
Quello stesso mese l’istituto ha indetto un sondaggio chiedendo a 2.500 intervistati di valutare l’idoneità di ciascuna proposta di traduzione, dopodiché un comitato esterno ha decretato la vincitrice: “Video manipolato dall’intelligenza artificiale”. Infine, dopo essere stata inserita nel glossario di termini stranieri rielaborati, la parola è stata messa in circolazione.
Da quando l’istituto è stato fondato, nel 1991, sono stati modificati in questo modo più di 17mila cosiddetti prestiti linguistici, quasi tutti provenienti dal cinese, dal giapponese o dall’inglese. Anche altri paesi hanno cercato di contrastare l’invasione dei prestiti linguistici. L’Accademia di Francia, fondata nel diciassettesimo secolo per proteggere la purezza del francese, si scaglia contro gli anglicismi da decenni. La stessa cosa fa l’Accademia reale spagnola. Da parte loro, gli inglesi provano a respingere gli americanismi.
Tutti, o quasi, hanno perso la loro battaglia.

Una pentola senza fondo
La stessa cosa è successa a Kim: la missione di affrontarne cinque nuovi ogni due settimane può sembrare, per usare un modo di dire coreano, come versare acqua in una pentola senza fondo. “Non possiamo lavorare sui prestiti appena compaiono, dobbiamo aspettare e vedere quanto sarà ampio il loro uso. Allora possiamo intervenire”, dice Kim. “Ma a quel punto si sono già affermati”. Inoltre, non aiuta il fatto che siano già stati adottati tanti prestiti a causa della lunga storia delle influenze straniere sulla Corea.
Fino all’invenzione dell’alfabeto coreano, nel 1443, le élite dei regni dinastici usavano gli hanja, i caratteri cinesi che ancora oggi sono alla radice di molte parole coreane proprio come il latino lo è per molte lingue europee. Durante la colonizzazione giapponese, dal 1910 al 1945, furono introdotti prestiti dal giapponese tra cui gao, faccia, usato in coreano nell’espressione “mettere su gao”, che significa darsi delle arie. Alcune parole sono doppi prestiti, come hwaiteu syeocheu, che significa “camicia elegante” e viene dalla traslitterazione giapponese dell’inglese white shirt (camicia bianca).
Oggi a predominare è l’inglese, che molti considerano la lingua della raffinatezza culturale e di un’istruzione occidentale, adottato da aziende, funzionari governativi e giornalisti che cercano di dare maggiore autorevolezza ai loro discorsi. “Le parole straniere presenti nel coreano sono sempre state uno strumento e un elemento distintivo della classe dirigente”, dice Kim. “Penso che i prestiti linguistici possano essere intesi in questi termini, come un modo per segnalare la propria posizione sociale, per distinguersi”.
La velocità con cui le parole inglesi entrano ed escono dal parlato ha reso difficile per qualsiasi statistica catturare con precisione le dimensioni dell’uso dei prestiti. Ma è chiaro che il fenomeno non è solo una preoccupazione dei linguisti.

Tra i prestiti più recenti (o i loro derivati coniati a livello locale) che l’istituto ha dovuto esaminare ci sono: skimpflation (strategia commerciale che consiste nell’aumentare leggermente i prezzi ma al tempo stesso diminuire la qualità), bundleflation (tecnica che impedisce ai consumatori di individuare il prodotto più conveniente), finfluencer (influencer finanziario), upskilling (acquisire nuove competenze), upselling (strategia di vendita che consiste nell’incoraggiare i clienti a comprare la versione più costosa di un certo prodotto rispetto a quella che intendevano acquistare originariamente), cross-selling (pratica di offrire ai clienti altri prodotti compatibili con quello che stanno acquistando) e value-up (gonfiare il valore).
In un sondaggio condotto nel 2024 su 7.800 sudcoreani dalla società Hankook research, più di tre quarti dei partecipanti hanno dichiarato di incontrare spesso parole straniere nei discorsi pubblici, rispetto al 37 per cento del 2022. La maggioranza ha inoltre affermato di preferire alternative coreane di più facile comprensione.
Anche per i madrelingua inglesi, la traslitterazione di parole familiari in un alfabeto con consonanti non perfettamente equivalenti – prive, per esempio, di un suono preciso per le lettera effe o la erre – può creare confusione.
E negli ultimi anni l’incursione, spesso assurda, dei prestiti è stata oggetto di satira da parte della cultura popolare, che definisce l’abitudine d’infilare inutilmente l’inglese dovunque con il termine peggiorativo di voguespeak o “dialetto Pangyo”. Il primo fa riferimento alla rivista Vogue, la cui edizione coreana è considerata particolarmente responsabile di questo fenomeno, il secondo a una città conosciuta come la Silicon valley della Corea del Sud, dove si può sentire un lavoratore del settore tecnologico dire frasi del tipo: “La Ppt (presentazione con diapositive) era un po’ ‘lu-poh’ (in inglese rough, approssimativa), ma i ‘ni-joh’ (needs, richieste dei consumatori) erano chiari e penso che valga la pena di ‘ishu-rai-shing’ (to raise an issue, sollevare la questione), ‘eiu-ai-sep’ (asap, as soon as possible, al più presto)”.
“Il nostro lavoro consiste nel trovare alternative più facili alle parole straniere che potrebbero risultare ostiche per alcune persone”
Malattia professionale
Tradurre i prestiti è un lavoro da sogno per uno studioso come Kim, 59 anni, la cui ossessione per la lingua coreana è diventata quella che definisce “una malattia professionale”: sussulta ogni volta che camminando per strada nota esempi di segnaletica con parole sbagliate, prestiti e strafalcioni. Da bambino Kim si divertiva a cercare le parole nel dizionario e a impararne l’etimologia, un hobby che si è portato dietro fino all’età adulta. Da una ventina d’anni amministra una comunità online con circa diecimila iscritti e pubblica regolarmente una rubrica che esplora le origini delle parole che hanno catturato il suo interesse. L’ultima voce, la numero 1.038, esamina i sostituti coreani della parola poncho.
Dopo il dottorato di ricerca in linguistica ha insegnato in un’università prima di rendersi conto che preferiva lavorare sul campo, e nel 2007 è entrato a far parte dell’istituto. “Volevo fare la differenza e portare avanti un cambiamento a livello politico”, dice.
Un motivo d’irritazione che ha sviluppato nel corso degli anni è l’uso di parole prese in prestito quando esiste già il termine esatto nella sua lingua. In alcuni casi – come in quello di ‘sai-doh’ (side, contorno), che si trova nel menù dei ristoranti – la parola coreana (gyeotdeuri) è diventata così obsoleta da essere scomparsa.
Altri prestiti, come wife (moglie), rivelano aspetti più interessanti. Un sondaggio condotto dall’istituto nel 2022 ha rilevato che la maggior parte dei coreani tra i venti e i trent’anni indicava la propria moglie dicendo “uai-poh” probabilmente perché gli sembrava più ugualitario e moderno di ahnae, le cui radici rimandano a “persona di casa”.

Anche se ne comprende la logica, Kim la vede come parte di una tendenza più ampia ad abbandonare le parole coreane semplicemente perché sembrano antiquate, rendendole ulteriormente obsolete. E proprio come le parole e il loro significato possono imporre una certa realtà, spesso è vero anche il contrario: le connotazioni di una parola possono evolversi insieme alla cosa che denota. Le etimologie non sono diktat. “Il modo di trattare qualcuno non cambia solo perché lo rinominiamo”, dice. “I datori di lavoro lo fanno sempre. Invece di cercare di cambiare le condizioni di lavoro o i benefit dei dipendenti, cambiano semplicemente il nome delle qualifiche professionali”.
Kim sa benissimo che alcuni giudicano il suo lavoro un po’ antiquato e nazionalista – “stile Corea del Nord”, come dice qualcuno. I tentativi fatti in passato di cancellare i prestiti linguistici dopo l’indipendenza della Corea dal Giappone avevano una componente di purificazione rituale. Ma l’attuale approccio dell’istituto è in gran parte quello di mantenere la lingua coreana accessibile ed equa. “La lingua è un diritto umano”, dice.
“Il nostro lavoro consiste nel trovare alternative più facili alle parole straniere che potrebbero risultare ostiche per alcune persone, in modo da evitare che una parte della popolazione finisca emarginata”. Gli studi hanno dimostrato che le persone anziane e quelle senza un’istruzione universitaria faticano a comprendere e usare i prestiti linguistici, il che potenzialmente le esclude dai servizi statali e dai programmi che li pubblicizzano.
La zona grigia
Questo rende alcune battaglie più importanti di altre. Una delle priorità è tradurre i prestiti linguistici che sono usati per comunicare politiche pubbliche o servizi importanti, come “microcredito” o “voucher”, nonché termini sanitari come “dose di richiamo”.
Mentre non ha alcun senso cercare di estromettere prestiti ormai saldamente radicati, come inteonet (internet) o dijiteol (digitale), o parole gergali come billeon (villain, usato come termine umoristico per “cattivo”) che si collocano in una sorta di zona grigia. Anche se recentemente l’istituto ha proposto la parola coreana per cattivo, akdang, Kim riconosce che potrebbe essere difficile farla accettare.
La lingua funziona così: a volte un termine attecchisce, a volte no, e nessuno può davvero spiegare perché. “Alcune cose bisogna solo accettarle”, dice. Deepfake potrebbe essere una di queste. La parola era già stata tradotta una volta, nel 2019, con “manipolazione che sfrutta l’alta tecnologia”, ma la soluzione probabilmente non ha funzionato perché prolissa.
E nelle settimane successive al secondo tentativo dell’istituto, i “video manipolati dall’intelligenza artificiale” non hanno avuto più fortuna: i deepfake abbondavano ancora dovunque. Ma a quel punto Kim era già passato alla serie di parole successiva. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1607 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati