Nel commovente Foresta fantasma, Pik-Shuen Fung adotta un approccio corale alla storia della famiglia della sua protagonista senza nome, dopo la lunga malattia e la morte del padre, in gran parte assente. La famiglia della giovane donna è emigrata a Vancouver negli anni novanta, ma suo padre è rimasto a Hong Kong per tenere il suo lavoro di produttore, e va a trovare gli altri solo sporadicamente. “Famiglia di astronauti”, spiega lei. “È un termine inventato dai mezzi d’informazione di Hong Kong. Una famiglia con un padre astronauta, che vola qui, vola là”. La narratrice impara presto a cercare il padre nelle tracce che lui lascia dietro di sé, come nell’odore del suo pigiama, dimenticato in Canada dopo un breve soggiorno. Fung intervalla la narrazione della figlia con le voci in prima persona della madre e della nonna, con una linea temporale che salta dal presente al passato, collegata da una sorta di logica del sogno. Brevi capitoli si spostano dalla Cina al Canada, agli Stati Uniti, con molte fermate intermedie, trasportando generazioni attraverso il globo e lasciandone molte indietro. La protagonista è un’artista, e la sua fascinazione per la pittura tradizionale cinese a mano libera xieyi si riflette nella forma del romanzo. “Con una sola linea puoi dipingere l’oceano”, dice il suo maestro. In linee altrettanto sobrie, Foresta fantasma racconta un padre nei minimi dettagli, anche se oscurato dalla distanza sia fisica sia emotiva.
Naomi Skwarna, The New York Times
Il romanzo d’esordio di Amy Jo Burns rivisita criticamente il mito degli Appalachi. A narrare gran parte della storia è Wren, la figlia adolescente di Briar, un predicatore della Virginia Occidentale (di quelli che usano i serpenti velenosi nei loro riti). È un duro sia come predicatore sia come padre, il che lo rende una forza oppressiva nella vita di Wren e di sua madre Ruby. Dopo che la più cara amica di Ruby, Ivy, è gravemente ferita, l’imposizione delle mani di Briar sembra salvarla. Ma poi nessuno ascolta il medico quando Ivy sviluppa una bronchite e muore. La religione, per Wren, diventa non solo un’illusione ma anche una minaccia mortale. Burns alterna una serie di flashback che approfondiscono i primi corteggiamenti di Ruby con Briar, le sue rivalità romantiche con Ivy e la sua relazione “toccata e fuga” con un giovane venditore ambulante. L’eredità di Wren è complicata e pericolosa. La figlia del predicatore suona come una storia antica. Burns fa pochi riferimenti contemporanei e si rivolge invece al paesaggio, ricco tesoro di metafore. Tutto questo può a volte diventare un po’ strano. Ma rendere strana l’ambientazione fa parte della missione di Burns: la tradizione non fa bene a Wren, cresciuta con una serie di presupposti perversi sul genere e sulla necessità di nascondere gli abusi per il bene dell’ordine. Meglio sfuggire alle vecchie leggende, suggerisce Burns, dimenticare le frasi incompiute degli altri, e scrivere le proprie.
Mark Athitakis, Los Angeles Times
È un libro di cui ridere, ma non nel senso della derisione. Una storia d’amore di una banalità stravagante, come tutte le storie d’amore. Lui ha cinquant’anni. Lei venti di meno. Lui è l’amante, la bella donna ha già un uomo nel suo letto (o nella sua vita). Lui intuisce che lei lo tradisce con il compagno regolare. È in vacanza con sua madre in Scozia. Si prende il rischio di un viaggio, vola per incontrarla, ma trova solo piccoli e spiacevoli disastri. Prende atto della sua incapacità di uscire dal suo bozzolo, dai suoi piccoli punti di riferimento, di sedurre ancora, alla sua età. Hervé Le Tellier chiama il suo personaggio “il nostro eroe”, come se fosse uno di noi. Lei, naturalmente, è “la nostra eroina”. L’autore non risparmia il “nostro eroe”. Lo costringe a rimanere in attesa vicino a un telefono che non suonerà mai. Senza vergogna, questo scrittore burlone svaluta il suo povero compagno e lo rende simpatico. La tragedia assume qui l’aspetto di un burlesque. Le Tellier ha costruito questa parodia di un romanzo d’amore come una telenovela. Nessuna sorpresa, nessuna tensione, ma un racconto leggero che disinnesca il dramma e gioca con i cliché.
Martine Laval, Télérama
La violenza in Colombia sembra l’unico argomento che uno scrittore colombiano può trattare. La differenza sta nella forma letteraria: ci sono romanzi che tracciano le origini della violenza nella storia colombiana, libri che enfatizzano il folclore dei sicari e il mondo del crimine e poi ci sono opere come quella di Gamboa, che usa il giallo per mostrare la realtà della Colombia, senza cadere nella crudezza del realismo. La causa scatenante è uno scontro brutale a cui assiste un bambino su una strada sperduta e di cui nessuno sa nulla dopo. Una soffiata anonima all’ufficio del procuratore mette in moto la trama. Grazie alle inchieste della giornalista Julieta Lezama e della sua assistente Johana, ex guerrigliera delle Farc, il procuratore apre un’indagine urgente per trovare coloro che hanno preso parte allo scontro. Scritto con un ritmo incalzante e con stile semplice, è un romanzo con una trama ben strutturata e dei personaggi credibili, tra l’altro perché la storia è ancorata nella realtà della Colombia. Una realtà in cui ci sono eredità della guerriglia, del traffico di droga e altri problemi, e poi chiese evangeliche, miniere illegali e, sempre presente, la violenza.
Diego Gándara, La Razón
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