Quando fu eletto alla Casa Bianca, nel 1980, Ronald Reagan credeva intimamente alle verità nostalgiche e nocive dei film in cui era apparso e, come politico e presidente, tentò di forzare lo stile di vita statunitense a conformarsi a quelle convinzioni. Quando uscì, nel 1986, Top gun sembrava il punto culturale più basso di un’epoca che di per sé era già un punto più basso. Tra drammi a buon mercato e sciocchezze sciovinistiche, suonava come un distillato della visione del mondo che riproduceva (non sapevamo che un altro intrattenitore, meno bravo e più bilioso, trent’anni dopo avrebbe causato danni ancor più gravi alla politica e alla psiche della nazione). Come l’originale, il sequel Top gun. Maverick è un emblema dei suoi oscuri tempi politici. E al confronto, l’originale Top gun sembra un’opera di cordiale umanesimo. Eppure, paradossalmente e in modo inquietante, Maverick è più soddisfacente come dramma e un film d’azione più completo.
Richard Brody, The New Yorker
Stati Uniti 2022, 131’. In sala
Italia 2022, 117’. In sala
Il film di Mario Martone, girato splendidamente e composto in modo superbo, è spesso vicino a diventare qualcosa di molto speciale. E anche se alla fine si accontenta di ripiegare su qualcosa di genericamente orientato al crimine, è comunque un ottimo film. Napoli, diversa da quella di Sorrentino, è meravigliosa. Felice (Pierfrancesco Favino) torna in città dopo quarant’anni. All’inizio è sopraffatto dai ricordi e fa una commovente visita alla vecchia madre. Sotto tutto questo però c’è un’antica ferita nascosta che riguarda Oreste (Tommaso Ragno), amico d’infanzia diventato un temuto camorrista. È chiaro che c’è lui dietro la partenza di Felice. Don Luigi (Francesco Di Leva), il parroco del quartiere molto attivo contro la criminalità, mette in atto un piano per stanare Oreste, usando proprio Felice. Favino è fantastico. Ma tutto il film è realizzato in modo magnifico. Mette in discussione l’idea stessa di nostalgia. Non è un’illusione, perché passato e presente sono la stessa cosa.
Peter Bradshaw, The Guardian
Francia 2021, 102’. In sala
Sotto i lineamenti amabili di Virginie Efira si nasconde una donna a cui è difficile dare un nome. I parenti la chiamano Judith, ma a volte si presenta come Margot, che poi è il nome che compare sui documenti. In Svizzera ha una famiglia modesta con Abdel, un corriere, e il figlio di dieci anni. In Francia conduce una vita agiata con Melvil, direttore d’orchestra di successo, e due figli più grandi. Il suo lavoro d’interprete a Ginevra è utile per passare da una vita all’altra. Nasconde a ogni famiglia l’esistenza dell’altra, e soprattutto non si ferma mai da nessuna parte. Ma la sua rete di bugie si sta incrinando. Il regista Antoine Barraud ha in mano molti elementi con cui sviare lo spettatore, ma mantiene invece una linea meno scontata. Il suo non è un film schizofrenico ma è un film sulla schizofrenia. Non si lascia contaminare dall’alienazione della protagonista ma ne espone gli effetti per poi lentamente risalire alle cause.
Mathieu Macheret, Le Monde
Spagna / Italia 2022, 120’. In sala
Ha lottato contro il tempo, le intemperie, la pandemia. Ha scelto di far recitare delle persone del posto per rendere la storia ancora più credibile, ed è arrivata a Berlino sul filo del rasoio. Ma i suoi sforzi l’hanno ripagata e con il secondo lungometraggio Carla Simón ha vinto l’Orso d’oro. Come il precedente Estate 1993, Alcarràs esplora la storia della regista e della sua famiglia (in particolare la famiglia della madre), coltivatori diretti di frutta, attività che rischia di scomparire di fronte al crollo dei prezzi. Il proprietario delle terre su cui lavorano muore e il nipote decide d’installare pannelli solari al posto degli alberi da frutta. Lo sguardo di Simón passa da un familiare all’altro, contempla e racconta, si abbevera alla fonte della terra e a quella delle persone ispirandosi, come ammette la stessa Simón, a La terra trema di Luchino Visconti, a Riso amaro di Giuseppe De Santis e a L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi.
Gregorio Belinchón, El País
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