Alejandro González Iñárritu torna in Messico per realizzare un’epopea autobiografica proiettata su un paesaggio onirico e magico-realistico personale, in cui finzione e realtà si trasformano l’una nell’altra in modi tecnicamente eleganti ma a tratti quasi insopportabili. Incredibilmente autoindulgente e compiaciuto – una specie di continuum tra Federico Fellini e Terrence Malick –, Bardo ruota intorno a Silverio (un elegantissimo Daniel Giménez Cacho), giornalista-documentarista messicano che ha avuto successo negli Stati Uniti, dove sta per ricevere un importantissimo premio (sospetto che Iñárritu abbia un’idea sbagliata dello status dei documentaristi rispetto ai registi). Ma Silverio vive una profonda crisi di mezza età, ed è immerso in un pozzo di memorie e ansie allucinatorie sulla famiglia, la carriera e il paese. Un film spettacolare, al punto che si può perdonare il suo narcisismo.
Peter Bradshaw, The Guardian
Messico 2022, 174’.
Italia / Stati Uniti 2022, 130’.
Dimenticate le ansie dei vegani, degli intolleranti al lattosio o di chi è sempre all’erta sul glutine: nessuno più di un cannibale deve preoccuparsi della provenienza e degli “ingredienti” del suo prossimo pasto. E a parte questo, anche avere una relazione con qualcuno presenta non poche difficoltà. Forse solo un altro cannibale può capire a fondo problemi e pulsioni. Nel film di Luca Guadagnino (tratto dal romanzo di Camille DeAngelis) i cannibali sono figure tragiche, un po’ come i vampiri, ma meno sexy. Non hanno scelto la loro condizione, ma devono imparare a conviverci. Il film è tenero e ben realizzato, ma a tratti troppo teso e brutale. Guardandolo, cercando di capire come poteva andare a finire, mi sono chiesta se avrebbe popolato a lungo i miei incubi (un personaggio in particolare). Ma una volta finito si è dissipato in fretta. È così ben fatto e noiosamente romantico che sembra spingerti in un sogno più che trascinarti in un incubo. I protagonisti, poi, ti danno sempre qualcosa di bello da vedere.
Stephanie Zacharek, Time
Stati Uniti / Regno Unito 2022, 136’.
Il film di Noah Baumbach che ha aperto la mostra del cinema di Venezia lascia un po’ perplessi. Troppo bizzarro per essere apprezzato da chi si aspettava un filmone pieno di star, non abbastanza autoriale per essere una bella scoperta, ma anche troppo divertente per essere considerato una delusione. Non ci si può stupire, visto che è tratto dal romanzo di Don DeLillo su una cittadina universitaria minacciata da una nube tossica che molti prima di Baumbach avevano cercato di adattare per lo schermo, senza successo. Baumbach è riuscito nell’impresa, rimanendo fedele al romanzo, forse perché il nostro mondo si è avvicinato a quello immaginato dallo scrittore. Non potendo replicare la prosa di DeLillo, Baumbach ha fatto qualcos’altro che almeno a tratti funziona: ha trasformato Rumore bianco in un pastiche spielberghiano anni ottanta, dando una sua nostalgica interpretazione della classica storia di una piccola città colpita da un grande disastro.
Bilge Ebiri, Vulture
Stati Uniti 2022, 158’.
Questo affilatissimo ritratto d’artista post-MeToo ha senz’altro il merito di aver forgiato un valido corollario della “pistola di Čechov” (l’espediente narrativo per cui se c’è un’arma nel primo atto, dovrà sparare nel terzo) che si potrebbe battezzare “il discorso di Gopnik”. All’inizio del film, infatti, Lydia Tár, una direttrice d’orchestra all’apice del suo successo, è presentata dal giornalista del New Yorker Adam Gopnik (che interpreta se stesso) con un discorso così celebrativo che la parabola della protagonista può essere solo discendente. Ma è anche vero che il film a livello narrativo è abbastanza debole. Funziona più come ritratto psicologico di una maniaca del controllo la cui vita comincia a deragliare. Tár è anche molto ben ancorato nella nostra epoca. Affronta in modo giocoso e provocatorio tantissimi argomenti che animano la nostra esistenza. Almeno quella sui social network. E forse è stato pensato per diventare virale, come la sua protagonista.
Ben Croll, The Wrap
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