Da qualche anno Nas è in ottima forma e ha tirato fuori alcuni dei progetti più soddisfacenti dell’hip hop statunitense. Nel 2020 la collaborazione tra il rapper del Queens e il produttore californiano Hit-Boy ha portato all’enfatico The King’s disease, un lavoro che ha collocato Nas in un contesto neoclassico ed è stato premiato con alcune delle migliori recensioni degli ultimi 25 anni. Il seguito, il più sperimentale King’s disease II, ha conquistato addirittura la candidatura ai Grammy awards. In King’s disease III Nas torna ad alcuni degli elementi tipici del boom-bap che avevano caratterizzato i suoi esordi, pur facendosi contaminare da nuove influenze. Tecnicamente abbagliante, questo album sembra più leggero del suo predecessore. Ghetto reporter è un inizio da capogiro, che sovrappone elementi anni novanta a colpi di scena molto ben studiati. Legit colpisce forte, mentre con la destrezza di Michael il rapper sembra sfidare se stesso. King’s disease III assorbe l’atmosfera neoclassica della prima puntata, pur lasciando spazio alla sperimentazione che aveva consacrato la seconda, fondendole insieme. Tuttavia King’s disease III è più della somma delle sue parti. E conferma che Nas, a differenza di molti coetanei, non ha perso il sacro fuoco. Questo è un album capace di ricordare le glorie del passato senza perdere di vista il futuro.
Robin Murray, Clash
Il titolo del nuovo album dei danesi Collider spiega bene com’è questo disco: esageratamente meritevole. I paragoni con i My Bloody Valentine, soprattutto dell’epoca Glider e You made me realise, vengono naturali ma incombono anche gli anni novanta dei Dinosaur Jr. e degli Swirlies. Al di là delle influenze, sembra un mestiere difficile suonare in questa band: con una spacconeria degna dei più grandi artisti post rock e post punk, non si fanno problemi a cambiare all’improvviso tonalità o ritmo. Continuano così per altri cinque secondi, poi aggiungono il rumore di un elicottero, cantano come Lydia Lunch ma solo per una strofa e soprattutto, qualsiasi cosa succeda, non abbassano mai la leva del vibrato. Insomma tutto questo potrebbe sembrarvi un caos di riferimenti provenienti del secolo scorso, e in passato un po’ lo è stato, ma dopo averli visti dal vivo di recente ho notato che hanno imparato a seguire una traiettoria. Excessively worthwhile fa centro subito con Cystic, un’apertura che definisce tutto quello che seguirà ma si ricollega anche ai loro lavori precedenti. Il gruppo è al culmine dell’ispirazione e ha ancora tanto da offrire. Questo disco finirà tra i miei preferiti dell’anno, anche quando la luna di miele sarà finita.
Alex Maiolo, Louder Than War
Questo concerto, registrato ad Aix-en-Provence l’estate scorsa, è dedicato alla memoria del pianista statunitense Nicholas Angelich, che era un amico e collaboratore sia di Renaud Capuçon sia di Martha Argerich. Una circostanza che ha sicuramente galvanizzato i due musicisti. In particolare, è affascinante sentire come riescano a offrirci una performance di enorme personalità senza apparentemente fare niente di particolare. Martha Argerich mantiene la sua fantastica abilità di far diventare parte integrante di una conversazione anche il passaggio più banale. E Renaud Capuçon sfoggia il suo dolcissimo timbro vellutato senza mai inasprirlo in cerca di effetti retorici. Pare che Schumann non fosse soddisfatto della sua prima sonata, però non l’aveva mai sentita così. Qui la sonata “a Kreutzer” di Beethoven non suona mai facile, ma sempre naturale, e stupefacente per virtuosismo e millimetrica coordinazione del duo. Infine c’è la sonata di Franck: a volte può sembrare un po’ prolissa, ma qui è un racconto emozionante dall’inizio alla fine. Questo è l’imperdibile ricordo di un recital davvero magico.
David Threasher, Gramophone
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