Non importa se Women talking non vincerà l’Oscar per il miglior film, come forse meriterebbe. Né che magari la maggior parte del pubblico troverà deprimente un film che parla dello stupro di più di cento donne e ragazze. Perché anche se la superlativa opera di Sarah Polley non dovesse ottenere il successo e il consenso che merita, è probabilmente destinata a trasmettere un’eredità molto più grande. È un tipo di cinema che resiste perché ci consente di progredire. Le donne di una comunità religiosa isolata per anni sono state drogate e aggredite nel sonno, dando la colpa a demoni e fantasmi. È un fatto vero, raccontato nel romanzo del 2018 Donne che parlano di Miriam Toews, da cui è tratto il film. Mentre gli uomini finiscono in carcere in una città vicina (ma usciranno presto su cauzione e torneranno), le donne s’incontrano in un fienile per decidere che fare: niente, restare e combattere, oppure fuggire. Quello di cui stanno parlando in realtà è come resettare o superare un mondo incrostato da violente strutture patriarcali. August (Ben Winshaw), l’unico uomo che apparentemente non è un vile predatore, redige una sorta di verbale dell’incontro, visto che le donne non sanno leggere e scrivere. Il cast nel suo insieme è strepitoso e l’argomento è esplosivo. Ma il film di Sarah Polley è più simile a un inno o a una preghiera senza tempo. Una dolce riflessione sul perdono e la sopravvivenza, e su come riuscire a creare un mondo migliore. La violenza ha lasciato segni diversi sui corpi e sulle menti delle donne, e diverse sono le reazioni. Salome (Claire Foy), furiosa, ha cercato di uccidere uno degli uomini. Ona (Rooney Mara), incinta, si trova di fronte a un dilemma: se decideranno di restare e combattere, per cosa lotteranno esattamente? Mariche (Jessie Buckley), il cui marito è un violentatore, preferirebbe fare finta di niente. Senza clamore Sarah Polley ha realizzato il primo grande capolavoro cinematografico post-MeToo. Al contrario di quello che non può fare un generico hashtag, è riuscita ad affermare che di fronte agli abusi non esistono risposte e reazioni uniche.
Jessie Thompson, Independent
Stati Uniti 2022, 104’. In sala
Francia 2023, 89’. In sala
Jean, sindaco ultraconservatore di una piccola città francese, è pronto a farsi rieleggere per l’ennesimo mandato, quando la moglie getta la maschera e gli annuncia che è finalmente pronta ad affrontare la transizione di genere. Commedia su un argomento insidioso in cui Tristan Séguéla dimostra un certo talento da acrobata. Gli spettatori sensibili al tema potranno essere infastiditi da più elementi, ma Un uomo felice si rivolge a un pubblico ampio provando a fargli mettere in discussione la sua capacità di tolleranza.
François Léger, Première
Italia / Francia / Belgio Polonia 2023, 92’. In sala
Si dice sempre che le persone che si arruolano nella legione straniera lo fanno per farsi dimenticare dal mondo. Ma Aleksei (Franz Rogowski), che viaggia dalla Bielorussia alla Francia per arruolarsi, è già un dimenticato della società, un orfano e un fantasma. Per esplorare il tema della presenza industriale e militare europea in Africa, Giacomo Abbruzzese ha scelto un’ottica sperimentale, onirica, e anche se il suo film non mantiene tutte le promesse, il regista ha sicuramente trovato una sua voce distintiva. E Disco boy crepita di idee.
Jonathan Romney, Screen International
Stati Uniti 2023, 111’. In sala
Con il declino del found footage, autori e produttori hanno studiato formule ancora più economiche per realizzare i film di serie b: in Searching, del 2018, un’intera indagine si svolgeva esclusivamente sullo schermo di un computer. Missing sfrutta lo stesso stratagemma e in questo caso la protagonista (Storm Reid) naviga su internet alla ricerca della madre, scomparsa durante una vacanza in Colombia. Con i dovuti aggiornamenti (meno Skype e più TikTok), Missing è coinvolgente, ma non abbastanza per rilanciare definitivamente il sottogenere.
Benjamin Lee, The Guardian
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