La morte incombe ovunque nel nuovo album dei Depeche Mode, e non sorprende visto che s’intitola Memento mori. Concepito all’inizio della pandemia, il disco segna la prima uscita della band, ormai diventata un duo, dopo la scomparsa di Andrew Fletcher nel 2022. Non è un memoriale a lui, visto che la lavorazione è cominciata molto prima della sua morte, ma quel dolore è presente in maniera tangibile. I Depeche Mode, come molti di noi, hanno avuto due anni turbolenti che li hanno portati a realizzare il loro disco più intenso e oscuro da molti anni a questa parte. I testi di Memento mori sono di una potenza straordinaria, con una prevalenza, dall’inizio alla fine, d’immagini macabre. La gamma delle emozioni espresse è molto estesa, ma tutte sono tenute insieme da un tema centrale, quello della mortalità. Uno dei momenti migliori è Caroline’s monkey, in cui, usando un personaggio per raccontarsi, Dave Gahan e Martin Gore riescono ad andare a fondo delle loro debolezze: nello specifico, parlano di dipendenza, ma allargando si parla della tendenza pericolosa verso facili evasioni invece di cercare soluzioni durature. La stessa intensità si ritrova anche nella musica, che sembra ricondurre a una natura più grezza. Nel suo quindicesimo album, la band di Basildon abbraccia le varie sfaccettature del suo suono, senza compromettere la sostanza dell’intera opera.
Vicky Greer, The Line of Best Fit
Arooj Aftab, Vijay Iyer e Shahzad Ismaily hanno collaborato per la prima volta in occasione di un concerto a New York nel 2018, con lo scopo di comporre musica sul palco partendo dall’improvvisazione. Tutti e tre i musicisti del resto hanno esperienza nel jazz: Iyer da pianista e leader di una band, Ismaily da collaboratore di artisti come John Zorn e Ben Frost, e Aftab come cantante e compositrice. Il risultato è andato oltre il semplice esperimento: si è creata una sorta di connessione psichica che ha prodotto qualcosa di più spirituale e profondo. Cinque anni dopo il trio ha tradotto quella chimica in uno straordinario album intitolato Love in exile, il loro primo disco come trio. È una raccolta di brani intimi: Iyer suona il piano e i campionatori, Ismaily il basso e il sintetizzatore e Aftab canta in lingua urdu. All’interno del set relativamente ristretto di strumenti a loro disposizione, tuttavia, i tre creano mondi sonori spaziosi e grandiosi. Love in exile è un portale tra jazz e musica ambient, a tratti inquietante (To remain/to return), a tratti più luminoso e sereno (Haseen thi).
Jeff Terich, Treblezine
Quando nel 1833 cominciò a scrivere il suo concerto per piano, la pianista prodigio Clara Wieck (non aveva ancora sposato Robert Schumann) aveva quattordici anni; quando lo finì ne aveva sedici. Come compositrice Clara non aveva ancora la raffinatezza di Felix Mendelssohn, un altro giovane prodigio (fu lui a dirigere la prima esecuzione del concerto, a Lipsia), ma era più avventurosa. Combinando un tono da improvvisazione libera e una rigorosa organizzazione tematica, e con la sorprendente scelta di sostituire il secondo movimento con una lunga cadenza (dove, per aggiungere un’altra sorpresa, al piano si unisce un violoncello solista), il concerto coglie in contropiede anche l’ascoltatore di oggi. Beatrice Rana è in grandissima forma. C’è sempre il suo splendido tocco, una fusione di varietà dinamica, colore ed equilibrio verticale che acquista un valore particolare nel bel canto di questo lavoro. Ma c’è anche un virtuosismo trascinante, perfetto per sottolineare lo sfrontato coraggio giovanile della compositrice, che era una delle massime pianiste dell’ottocento. Per il concerto di Robert Schumann la concorrenza è sterminata, e Rana è ottima ma non sempre del tutto convincente. Non importa: se fate l’errore di trascurare questo disco perdete qualcosa di molto speciale.
Peter J. Rabinowitz, GramophoneDiapason
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