Viviamo in un tempo in cui gli artisti sono incoraggiati a fare subito un esordio esplosivo e a mostrarsi già solidi, solo per penetrare il mercato dello streaming. Con migliaia di nuovi brani pubblicati ogni giorno, devi farti notare. Ricavarsi del tempo e dello spazio per crescere ed evolversi è diventato difficile. Così, quando ci si imbatte in una band che ha saputo andare controcorrente, si resta colpiti. E qui incontriamo i Water From Your Eyes, un duo indie electro di Brooklyn che ha debuttato nel 2017 con risultati modesti ma nel tempo ha lavorato per trovare una sua identità. Il loro suono sperimentale nel nuovo disco Everyone’s crushed esprime finalmente le sue potenzialità. I ronzii sovraccarichi e le chitarre distorte interrotte da rumori digitali fanno pensare certamente agli ultimi lavori dei Low, ma evocano anche i Sonic Youth. Il riferimento principale però è l’avanguardia synth pop di metà anni ottanta, come gli Art of Noise, a cui la band si avvicina con una lente deformante. Una scelta che crea effetti stonati e inquietanti, lasciandoci con la sensazione che i musicisti stiano per perdere il controllo di tutto. I testi accompagnano questo stile in maniera più diretta e meno astratta che in passato. I Water From Your Eyes ci hanno messo sei anni a diventare veramente originali e a compiere un viaggio che valeva la pena di fare. C’è una lezione da imparare dal loro percorso.
Alexis Petridis, The Guardian
Con il suo secondo disco, Arlo Parks esplora a fondo gli aspetti pop e rnb che caratterizzavano il suo debutto del 2021, Collapsed in sunbeams, vincitore del Mercury prize. Dal punto di vista dei testi la cantante offre ritratti di relazioni a tratti imperfette, mettendo in luce il modo in cui il mondo ci deruba della nostra intrinseca divinità. Il problema è che l’album fa troppo affidamento su sonorità prevedibili e melodie vaghe, spesso scivolando in un suono indistinto. “Vorrei essere senza lividi”, dichiara Parks nel brano di apertura. I sintetizzatori fanno riferimento alla muzak tanto quanto ai Portishead, mentre la successiva Impurities ha una melodia allettante che non riesce a decollare. Nel complesso il disco sembra soffrire l’assenza di Gianluca Buccellati, autore insieme a Parks di gran parte di Collapsed in sunbeams. My soft machine scorre bene, ma non è particolarmente memorabile. Parks ha 22 anni, è una cantautrice d’innegabile talento ed è circondata da colleghi capaci. Se riuscirà a gestire la sua arte ancora in via di sviluppo, ci sono tutte le ragioni per credere che esplorerà nuove traiettorie per molti anni a venire.
John Amen, PopMatters
Alla fine degli anni cinquanta la concorrenza tra i giovani pianisti statunitensi era feroce: dopo la vittoria al concorso Čajkovskij di Mosca nel 1958, Van Cliburn diventò il cocco della Rca e le sue registrazioni fecero rinviare sine die la pubblicazione di quelle di Byron Janis, suo compagno di etichetta. Così il pianista allievo di Horowitz passò alla Mercury, dove incise un pugno di dischi che fecero epoca. La novità metteva insieme un artista al punto più alto della sua carriera e i microfoni magici dei produttori Bob Fine e Wilma Cozart. Il risultato è impressionante ancora oggi: tanto eleganti quanto precisi, appassionati ma senza eccessi, il secondo e il terzo concerto di Rachmaninov diretti da Antal Doráti non hanno preso una ruga, come il primo di Čajkovskij e quello di Schumann, il cui classicismo racchiude tesori di sensibilità. E poi c’è la storia con la esse maiuscola, con la tournée di Janis in Unione Sovietica del 1962, quando la Mercury diventò la prima etichetta occidentale a registrare a Mosca con i suoi mezzi in piena guerra fredda. Ne uscirono due concerti di Liszt incredibili, un sensazionale primo di Rachmaninov e qualche bell’album solista. C’è anche un leggendario live a Leningrado registrato clandestinamente dai suoi ospiti nel 1960: il suono non è un granché, ma è una serata speciale.
Laurent Muraro, Diapason
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