A metà del suo ultimo album, dopo sessant’anni di carriera, Bettye LaVette ringhia: “Le stesse vecchie parole, la stessa vecchia canzone”. Ma non ha un tono autocompiaciuto. Gran parte della magia di LaVette! è nella capacità della cantante, a 77 anni, di unire classici luoghi retorici del rhythm’n’blues con la sua esperienza del mondo e la saggezza portata dell’età. LaVette ha calcato questi sentieri abbastanza volte da poterlo fare ancora, alzando gli occhi al cielo con aria sfinita e una voce sempre più aspra. Quando incise il suo primo singolo, My man – He’s a lovin’ man, nel 1962, era diversa, incontaminata come una dolce Carla Thomas. Però negli anni la sua carriera non decollò. Così, quando è inaspettatamente esplosa nei primi anni duemila, abbiamo scoperto la potenza di una cantante che non manda mai giù le stronzate. Eccola ancora qui con undici canzoni nuove, tutte scritte dal veterano Randall Bramblett. È supportata da musicisti stellari, tra cui Steve Winwood, Pino Palladino e Ray Parker jr, ma il vero fulcro del disco è sempre lei, che guida l’ardente funk alla James Brown di Mess about it e in Plan B dichiara: “Champagne e uno spinello mi farebbero benissimo”. Bettye LaVette è una compagnia magnifica, e quando in See through me canticchia tristemente “continuo a girare, ma il brivido è sparito” la carica elettrica della sua voce c’impedisce di preoccuparci troppo.
Stevie Chick, The Guardian
Myuthafoo è un album effervescente. Come raggi laser che fendono il cielo notturno, le linee melodiche s’infrangono nel silenzio che le circonda, risplendendo insieme a forze cosmiche invisibili. Ma nonostante tutto il luccichio elettronico, l’ultimo lavoro di Caterina Barbieri è anche profondamente classico. Queste traiettorie affilate di suoni andrebbero bene in un rave nella foresta. Ma potrebbero essere anche le luci divine che arrivano sulla testa di Maria nell’Annunciazione con sant’Emidio di Carlo Crivelli, un dipinto del quindicesimo secolo. Sulla copertina del disco Barbieri la ricorda un po’, con la testa leggermente inclinata in un ambiente rivestito di legno. Prima di diventare una star della scena elettronica minimalista europea, l’artista bolognese ha studiato musica antica e chitarra classica, e queste influenze non l’hanno mai lasciata: probabilmente se Buxtehude o Frescobaldi avessero avuto a disposizione un sintetizzatore modulare avrebbero composto Myuthafoo. Dopo i fuochi d’artificio, Barbieri inserisce un paio di maestose passacaglie, piene di grazia come la luce che trapassa le vetrate di una chiesa gotica. Se da tradizione questa forma musicale interpreta tragedie inesorabili, nell’album c’indirizza verso qualcosa di sublime. Le sue linee radiose raccontano quanto i tunnel più oscuri possano condurre verso una fine luminosa.
Robert Barry, The Quietus
Le opere per pianoforte solista della compositrice e pianista francese Cécile Chaminade (1857-1944) sono state a lungo trascurate, ma ora stanno trovando più spazio su disco. Non sono sicuro che la seconda pubblicazione che le dedica Mark Viner per la Piano Classics significhi che il pianista britannico sta registrando un ciclo completo della musica di Chaminade, ma il suo solido virtuosismo e il suo dinamismo riescono a spostare questo repertorio dal salone al palcoscenico. Le volate perlacee dell’Ondine, per esempio, contrastano in modo significativo con i robusti accordi nel climax del pezzo, e Viner sfrutta benissimo il tono meditabondo di Au pays dévasté. Dà un taglio quasi tragico al familiare Autrefois dei sei Pièces humoristiques op. 87, e gli arpeggi della mano sinistra in Guitare fanno tornare in mente la registrazione della stessa autrice per pianola. L’Étude symphonique op. 28 ha una grande profondità di suono, mentre la tarantella dell’Étude scolastique op. 139 fa schioccare i tacchi senza difficoltà. Le note di copertina dettagliate e intelligenti dello stesso Viner arricchiscono questo graditissimo disco.
Jed Distler, ClassicsToday
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