Nel suo nuovo album, il cantautore statunitense Sufjan Stevens vede se stesso come una persona in rovina in un mondo meraviglioso. Quando è amato il suo dolore è sospeso, ma questa misericordia ormai appartiene al passato. Un profondo nichilismo dà forma al suono e alle storie di Javelin, ma il banjo di Stevens ci aiuta a non annegare. Con una sensibilità che ricorda i Beatles, la dolorosa apertura Goodbye evergreen, dedicata al compagno Evans Richardson IV, morto ad aprile, è un grido di aiuto, come una pioggia violenta su un letto di ninfee. In A running start, la cadenza di Stevens ha lo scintillio di una favola sdolcinata. Genuflecting ghost trova la libertà nell’affrontare gli orrori (“Now we dance in our catastrophe”) e Shit talk, che dura otto minuti, lancia un’ultima supplica: “Stringimi forte per non cadere”. Distillando con grazia il disprezzo verso se stessi, Javelin ha un effetto straziante sull’ascoltatore. Nessuno vive il dolore come Sufjan Stevens.
Lucy Fitzgerald, The Skinny
In una recente intervista al New Yorker, il musicista di elettronica sperimentale statunitense Daniel Lopatin ha giudicato eccessive tutte le preoccupazioni riguardanti l’uso dell’intelligenza artificiale nella creazione di musica. Quello che è più interessante, dichiara, è proprio osservare come questa tecnologia crei arrangiamenti sorprendenti. La tensione tra organico e sintetico, o meglio tra ciò che percepiamo come naturale e non, definisce Again, il decimo disco di Lopatin con lo pseudonimo di Oneohtrix Point Never: un lavoro che suona come se ogni file mp3 su un hard disk si fosse rovinato al punto di non essere riconoscibile, anche se le composizioni restano piene di grazia e bellezza ultraterrena. Per il musicista di Boston niente nella nostra epoca può sfuggire al paesaggio tecnocratico, infernale e inarrestabile in cui viviamo, e così anche i passaggi più classici di Again contengono qualche interferenza. Gli archi barocchi di Gray subviolet sembrano infettati da un virus informatico mentre il brano che dà il titolo all’album comincia con dei bordoni vocali sottoposti a rapidi cambi di tonalità, come per imitare un vero vibrato. Lopatin sembra avere un atteggiamento sereno nei confronti della composizione: in A barely lit path porta avanti osservazioni umaniste, suggerendo che anche in un mondo altamente tecnologizzato la ricerca di connessioni umane non finirà mai.
Paul Attard, Slant Magazine
Can Çakmur aveva già affrontato Schubert con un notevole Schwanengesang nella trascrizione di Liszt. Ora comincia un nuovo progetto dal titolo Schubert +: lavori per piano del compositore austriaco accompagnati da pagine di altri musicisti che ne sono stati ispirati. Nel primo degli undici volumi previsti, il pianista propone un dialogo tra Schubert e il giovane Schönberg, cosa che gli permette di esplorare i temi della rottura, del silenzio e del caos, come spiega lui stesso nelle note di copertina del disco. Già notato per l’originalità dei suoi programmi di concerto, il pianista turco non è però un provocatore. Il suo pianismo è limpido, senza superficialità, e affronta con lo stesso rigore la prima sonata di Schubert (D 537) e una delle ultime (D 959). È un approccio luminoso, ma che sa trovare con una regia magistrale le tenebre dello spirito schubertiano, con una ricchezza d’immaginazione che scopriamo anche nel tormento dei tre klavierstücke op. 11 di Schönberg, affascinanti compagni delle due sonate. Questo album è la scommessa vinta di un musicista che ha il coraggio di uscire dai sentieri più battuti.
Melissa Chong, Classica
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