Divertenti, a tratti brillanti, tanto volgari quanto aforistici, i racconti di Leonard Michaels si avvicinano a quelli dei suoi migliori contemporanei ebrei come lui: Grace Paley e Philip Roth. Come le loro, la lingua vernacolare di Michaels raggiunge i toni di una canzone. Eppure, sebbene molto noto in vita – Michaels morì a settant’anni nel 2003 – la sua letteratura così sessualmente esagitata è poco letta oggi. In questi racconti asciutti la riga rimane l’unità di misura principale. Le frasi di Michaels, così musicali e attente al ritmo, erano il suo grande segreto e la sua grande forza. “Non le piacevo”, così comincia una storia, “ quindi la chiamavo tutti i giorni”. Piccole bellezze irregolari da leggere e rileggere.
Mona Simpson, The New York Times
Il nuovo memoir di Margo Jefferson è una buona occasione per ricordarci che non abbiamo già visto tutto. Jefferson svela le sue sorprese in meno di duecento, potenti pagine. Con Sistema nervoso in costruzione l’importante critica letteraria, che nel 1995 vinse il premio Pulitzer per il suo lavoro al New York Times, fa piazza pulita della vecchia idea del memoir come pura biografia. La sua è un’esposizione quasi poetica delle esperienze scaturite dagli incontri con artisti che per qualche motivo riteneva significativi. Ed è uno dei primi libri che mi è venuto voglia di rileggere arrivata all’ultima pagina. In che modo, mi chiedevo, Jefferson riesce a far funzionare questa storia? Con qualche richiamo alla sua biografia – è la più giovane di due sorelle nate da un padre pediatra e da una madre perfezionista – ci attira in un sognante e peripatetico viaggio nella sua mente e nel suo cuore. Usa una lingua elegante e un po’ di gergo teatrale per convincerci a mettere a fuoco le sue idee su identità etnica, di classe e di famiglia. Stilisticamente Sistema nervoso in costruzione è un diario che si ferma spesso ad apostrofare direttamente il lettore. È una performance teatrale e forse anche una sessione di psicoterapia. Soprattutto, Margo Jefferson ci invita a ripensare le nostre esperienze con l’arte trovando risonanze in alcuni dettagli intimi della sua vita. Non so come faccia ma ci riesce, ed è un risultato splendido.
Karen Sandstorm, The Washington Post
Il narratore di Java road è Adrian Gyle, un giornalista inglese che ha vissuto per vent’anni a Hong Kong. “Sono una persona triste anche per le persone tristi”, dice di se stesso. Ma la sua città di elezione, che fino a poco tempo prima gli sembrava “ferma agli anni settanta”, improvvisamente diventa più vitale e più pericolosa, con le violente proteste contro il governo cinese. L’unica costante nella vita di Adrian è l’amicizia con Jimmy Tang, rampollo di una delle famiglie più ricche della città e vecchio compagno di università a Cambridge. Jimmy è sposato con una donna la cui famiglia ha interessi economici in comune con la sua e ha una relazione con Rebecca, una giovane leader delle proteste. Jimmy è affascinato dall’anarchia, “è come assistere alla nascita di una nuova religione”, dice. Se la sua relazione venisse scoperta le conseguenze sociali ed economiche per lui sarebbero terribili. A un certo punto Jimmy rompe con Rebecca, molto pubblicamente e rumorosamente, in un ristorante molto noto. E presto Rebecca scompare. Adrian cerca di capire con Jimmy cosa può esserle successo ma poi lui smette di rispondergli al telefono. E se Rebecca fosse uno dei tanti corpi riportati a galla dall’acqua in quei giorni? Sono tutti giovani e molte sono donne, casi archiviati come suicidi. Adrian comincia una discreta investigazione solitaria che vedrà sovvertite tutte le aspettative letterarie di autori classici come Raymond Chandler e Graham Greene.
Tom Nolan, The Wall Street Journal
L’uomo che pesca occupa un posto centrale nell’opera del poeta e scrittore ungherese Imre Oravecz. Il sottotitolo del libro è Szajla. Frammenti per un romanzo, perché L’uomo che pesca può davvero essere letto come un romanzo, ma ha una struttura più sciolta rispetto a un classico lavoro in prosa. Il tema centrale è Szajla, il villaggio natale dell’autore. Grazie a Oravecz, il piccolo luogo nascosto ai piedi della Mátra settentrionale è diventato uno dei paesaggi mitici della letteratura ungherese contemporanea. Questo è anzitutto un libro di memoria e distruzione. Oravecz pesca nella sua memoria, come fa il protagonista della poesia che dà il titolo, il pescatore di Szajla, dopo che il lago dove lavorava fu prosciugato. Anche la cultura contadina ungherese fu prosciugata e distrutta in modo simile nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Il libro evoca figure, luoghi e oggetti. Cataloga tutto ciò che può e costruisce un monumento. Sarebbe complicato descrivere qui di cosa si tratta: parenti e conoscenti morti da tempo, storie di paesani che tentano la fortuna in America e il paesaggio, le colline, le foreste, le acque selvagge che circondano il villaggio. La parola “importante” è usata spesso nelle recensioni dei libri. Forse più del necessario, perché di sicuro i libri importanti non sono poi così numerosi. L’uomo che pesca è un libro davvero importante, oltre a essere un’opera letteraria e poetica di impareggiabile bellezza. È quindi una delle più grandi conquiste della letteratura ungherese contemporanea, un degno ricordo di un mondo ormai sommerso.
Ákos Győrffy, Mandiner
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