Negli anni sessanta la soggettività era la ragion d’essere della musica pop. Anche la negatività. Negli anni novanta si è passati al cinismo, al disprezzo per se stessi e alla misantropia. Oggi le prese di posizione politiche ed estetiche sono viste solo come strutture. Se un tempo la ribellione era una forza unificatrice, ora il solipsismo regna incontrastato, contribuendo a una società sempre più frammentata. Dopo una serie di ep e singoli, gli Sprints, band irlandese capitanata dalla cantante e polistrumentista Karla Chubb, hanno pubblicato il loro primo album. Alla voce incendiaria e vulnerabile gli strumenti rispondono con eruzioni ritmiche cacofoniche che rivelano trame distorte. Tutto il progetto, nonostante la sua sfrontatezza, mantiene un sottile controllo, soprattutto nelle parti di Chubb, tra l’istrionico e il confessionale, senza cadere mai nel melodramma. Gli anni venti di questo millennio appaiono bipolari: gli artisti sembrano vacillare tra ambizione e rassegnazione, tra l’esaltazione del sé e la sua cancellazione. Gli Sprints si uniscono a questa schiera, esplorando un terreno fatto di dissonanze esistenziali. Cercano, e a volte trovano, una visione tutta loro.
John Amen, Beats Per Minute
Un certo spirito di dislocazione attraversa il terzo album di Montañera, il cui vero nome è María Mónica Gutiérrez. Culture e stili musicali disparati si scontrano uno con l’altro e l’interesse sta proprio nel modo in cui alla fine s’intrecciano. Dopotutto A flor de piel rappresenta una risposta al trasferimento a Londra della cantante cresciuta a Bogotà, in Colombia. E descrive quei sentimenti di nostalgia di casa, shock culturale e difficoltà nel ricominciare da capo che accompagnano l’adattamento a una nuova città. Non è un disco particolarmente triste, o almeno non in modo esplicito. È più un esame dei sentimenti attraverso lenti diverse: il motivo di Vestigios, per esempio, viene prima cantato delicatamente e poi riecheggiato con una poderosa melodia di sintetizzatore per accentuare il contrasto. Altrove parti vocali sincere sono abbinate a sintetizzatori gelidi e astratti (Me suelto al riesgo) che amplificano ancora di più il senso di dissociazione. L’effetto è originale e intrigante, e ricorda le più recenti canzoni folk digitali di Björk per il modo di saldare tradizionalismo ed elettronica glitch e decadente. In alcuni momenti, però, A flor de piel risulta troppo opaco, stilisticamente ed emotivamente. A tratti commuove, a tratti suona quasi intangibile.
Sam Walton, Loud and Quiet
Di solito i pianisti usano l’incandescente Vers la flamme di Skrjabin come gran finale. Severin von Eckardstein lo sceglie come apertura, gettando subito le carte in tavola con un’esecuzione feroce. La seconda tappa del disco è una trascrizione firmata dal pianista stesso del poema sinfonico di Richard Strauss Tod und verklärung, straordinariamente idiomatica ed efficace. Poi si passa a Olivier Messiaen ed è uno shock, anche per il fervore lisztiano del suo Regard de l’église d’amour, l’ultimo pezzo di Vingt regards sur l’enfant Jésus, qui molto lontano dai colori sfumati a cui siamo abituati. A questo punto il pianista tedesco improvvisa un convincente falso Messiaen che si trasforma in un falso Strauss e gradualmente si trasforma in un falso Beethoven, prima di passare al Beethoven vero. Eckardstein presenta una lettura concisa e concentrata del primo movimento della sonata op. 111. La sua potente mano sinistra dà una forte spina dorsale ritmica alle variazioni del secondo movimento e i suoi trilli fanno venire in mente, invece della consueta nebbia eterea, uno squillo di tromba, un po’ come la controversa registrazione di Arturo Benedetti Michelangeli. È la chiusura di un’esperienza d’ascolto molto coinvolgente.
Jed Distler, ClassicsToday
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