Aaron stava finendo una telefonata di lavoro mentre Jim, il suo compagno, lo aspettava a tavola per la cena. “È una questione di un paio di minuti”, ha sussurrato Aaron, tappando il telefono con la mano. “Non c’è problema”, ha risposto Jim, sussurrando a sua volta.
Passavano i minuti e Aaron continuava a camminare avanti e indietro per l’appartamento, preso dalla chiamata. Rivolto a Jim, ha indicato il telefono alzando gli occhi al cielo e mimando con le labbra “Scusa”. Jim ha minimizzato, scuotendo affabilmente la testa.
L’aggressività passiva è il modo indiretto con cui esprimiamo antagonismo o disobbedienza riservandoci al tempo stesso la facoltà di negare le nostre intenzioni
Cinque minuti dopo, Aaron era ancora al telefono, ma sembrava essersi dimenticato di Jim. La carbonara cominciava a raffreddarsi.
Alla fine, Aaron si è voltato e, sorpreso, ha visto Jim che fissava sconsolato nel vuoto. Sottovoce, ha spiegato al collega al telefono che lo aspettavano a cena. Era passata mezz’ora.
Aaron è corso a tavola e ha detto a Jim, con un po’ troppo entusiasmo, che la pasta sembrava squisita. “Serviti pure”, ha risposto Jim, scuro in volto.
“Oddio, sei arrabbiato!”, ha osservato Aaron.
“Sì, che strano, eh? Mi è anche passato l’appetito”. Jim si è alzato da tavola.
Aaron si è scusato gridando, ma ha sentito solo la porta che sbatteva.
La mattina dopo, seduto sul divano del mio studio, Aaron mi ha raccontato l’episodio. Mi sembrava un saggio da manuale dell’arte dell’aggressività passiva, una di quelle tendenze comportamentali che, come il superlavoro cronico, sono diventate un sintomo dominante del mondo moderno.
L’aggressività passiva è il modo indiretto e spesso insidioso con cui esprimiamo antagonismo o disobbedienza riservandoci al tempo stesso la facoltà di negare in modo credibile le nostre intenzioni. Si riproduce molto facilmente: il comportamento passivo-aggressivo di Aaron ha provocato la reazione stizzita di Jim. Oltre che a casa, l’aggressività passiva fiorisce sul lavoro, dove le manifestazioni di frustrazione e risentimento più dirette sono considerate poco professionali.
Degli esempi vengono in mente a tutti: lo scansafatiche rancoroso che, quando il suo capo gli chiede di una relazione che non ha consegnato in tempo, mugugna che “dev’essersi persa nella massa delle tue richieste” (il passivo è quasi sempre la forma verbale preferita), o il collega sempre prodigo di complimenti come “la tua presentazione era fatta sorprendentemente bene”.
In questi casi, il comportamento ostile o ostruzionistico è messo in atto e contemporaneamente sconfessato, così che l’autore possa assicurare che assolutamente non intendeva provocare nessuna irritazione, lasciando negli altri la sensazione che forse il problema è loro. Sorprendentemente, l’aggressività passiva può essere adottata sia dai dirigenti sia dai subordinati.
Questa strategia offre la giustificazione perfetta per una miriade di comportamenti: la procrastinazione o la dimenticanza, spesso con effetti consapevolmente distruttivi, accompagnate da scuse che rasentano l’accusa (“Quando me l’hai chiesto pensavo di averti detto che ultimamente sono molto stressato”); l’antipatia, abilmente proiettata sul proprio oggetto attraverso l’insincerità (“Mi dispiace che tu abbia avuto da ridire su quello che ho detto”); e un costante, ma appena percettibile, risentimento.
Questi atteggiamenti sono aumentati con il lavoro da remoto. Strumenti di comunicazione come l’email e le chat amplificano facilmente il sospetto di una segreta ostilità da parte degli altri. I messaggi scritti di fretta non si prestano alle sfumature dell’inflessione. Frasi che, dette di persona, suonano divertenti o utili possono sembrare sarcastiche o risentite quando sono lette su uno schermo. Non c’è da stupirsi, quindi, se i comportamenti passivo-aggressivi abbondano quando non stiamo a contatto con i nostri colleghi.
Il modello insuperato di aggressività passiva è il protagonista del celebre racconto di Herman Melville Bartleby, lo scrivano, del 1853. Bartleby è un uomo dall’aria cadaverica e “penosamente rispettabile”, assunto come copista nello studio legale dell’anonimo narratore, un avvocato dal temperamento solare.
Dopo un breve periodo in cui sbriga il suo lavoro con celerità ed efficienza esagerate, improvvisamente Bartleby risponde alla richiesta dell’avvocato di esaminare un documento con la frase: “Preferirei di no” e incrocia le braccia, ma si rifiuta di lasciare l’ufficio, dove trascorre giorno e notte. In qualche modo, ritirandosi ostinatamente nel silenzio e nell’immobilismo, Bartleby riesce a mandare in rovina lo studio.
La risposta di Bartleby è forse l’espressione più cristallina di aggressività passiva. Lui infatti non si rifiuta apertamente di esaminare il documento. Per un capo, un rifiuto è difficilmente accettabile, ma almeno è chiaro, perché è un atteggiamento attivo.
“Preferirei di no”, invece, segnala un’assenza di atteggiamento. Non pretende niente, non rifiuta niente e disinnesca in anticipo ogni possibile replica. “Non vuole?”, chiede il narratore a Bartleby, cercando evidentemente di costringerlo a manifestare una ribellione che giustificherebbe una sanzione. “Preferirei di no”, lo corregge Bartleby, come per spiegare al capo che sta semplicemente descrivendo un’inclinazione, non una dichiarazione d’intenti.
Nel suo estremo disimpegno, la risposta di Bartleby ci aiuta a far luce sul funzionamento delle forme più comuni di aggressività passiva, e sul dilemma di come sia possibile contestare od opporsi a un atteggiamento che rifiuta di rivelarsi.
Nelle relazioni intime è un po’ più facile. Con il passare degli anni coppie, famiglie e amici imparano a riconoscere i codici e gli stratagemmi, e così riescono a smascherarli. Un silenzio o una pausa, un sorriso forzato o un “grazie” stiracchiato possono sembrare innocui o irrilevanti agli occhi di un esterno, ma sono carichi di significati. Le coppie di lunga data sanno riconoscere benissimo i trucchi del partner, il che rende più difficile per l’aggressività nascondersi dietro la passività.
Sul luogo di lavoro, dove i comportamenti esplicitamente aggressivi sono mal visti, è diverso. Siamo tenuti non solo a essere collaborativi, ma a presumere la buona fede dei nostri colleghi. Durante le riunioni, conflitti e risentimenti si esprimono attraverso il linguaggio della cortesia. Ogni accademico, per esempio, sa che le riunioni di dipartimento sono colture di batteri piene di comportamenti passivo-aggressivi.
Insegno all’università, e una volta un collega di un altro istituto mi ha raccontato di una riunione in cui un’assistente ha sollevato la questione del carico di lavoro amministrativo. Gli anonimi destinatari del suo intervento erano due o tre professori particolarmente abili nell’evitare la burocrazia che si sobbarcavano gli altri colleghi. “Penso che sia molto importante”, ha detto l’assistente con un sorriso tirato, “che il lavoro amministrativo sia equamente distribuito nel dipartimento, in modo che tutti abbiano tempo per svolgere l’attività di ricerca” (notate ancora la preferenza per il passivo).
“Be’”, ha risposto uno dei professori incriminati con un sorriso molto più largo, “posso dire che, per quanto mi riguarda, sono molto riconoscente ai colleghi che compensano il fatto di pubblicare meno occupandosi di più della burocrazia”. Naturalmente, il professore sapeva benissimo che ai colleghi più giovani l’opportunità di pubblicare era preclusa proprio dalle pesanti incombenze burocratiche. L’attacco, profondamente disonesto, era presentato come una sentita espressione di gratitudine collegiale. L’assistente, pur essendo perfettamente consapevole di questa scorrettezza, è stata costretta al silenzio.
Passivo-aggressivo è uno di quei termini psicologici che, come “narcisista”, “paranoico” o “bipolare”, l’uso popolare ha gradualmente svuotato del suo significato esatto. Il suo impiego nella psichiatria moderna non ha contribuito a migliorare la situazione.
L’origine del termine è confusa. Fin dal 1952, quando è stato pubblicato il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm), la bibbia della pratica psichiatrica moderna, l’idea dell’aggressività passiva come un disturbo della personalità è dibattuta.
Christopher Lane, uno storico della psicologia, mostra che gli autori della prima edizione del Dsm presero i criteri per la diagnosi del tipo di personalità passivo-aggressiva da un rapporto del 1945 del colonnello William Menninger, psichiatra militare statunitense, che si lamentava del proliferare di comportamenti elusivi tra i soldati, pronti a ricorrere a “misure come broncio, testardaggine, procrastinazione, inefficienza e ostruzionismo passivo” di fronte al “normale stress militare”. Pensate ai poveri soldati e piloti di Comma 22 di Joseph Heller, la cui più che razionale avversione a operazioni pericolose è interpretata come un sintomo di malattia mentale.
La lista dei criteri di Menninger fu estrapolata dal contesto e incollata parola per parola nel codice diagnostico del Dsm, e subito adottata in ambiti radicalmente diversi tra di loro come la terapia di coppia e la delinquenza adolescenziale. Quando i tratti comportamentali sono generalizzati, smettono di essere visti come reazioni a situazioni particolari (per esempio, la paura di essere uccisi sul campo di battaglia) e cominciano a essere considerati, nelle parole di Lane, “disfunzioni biologiche e neurologiche”, frutto di personalità disadattate.
Il problema di patologizzare tratti umani come la testardaggine, l’inefficienza e il procrastinare – a cui nella terza edizione del Dsm, nel 1980, si aggiunsero l’ozio e la smemoratezza – è che in una certa misura si applicano a tutti noi (questi tratti e l’intera diagnosi sono stati poi rimossi). Ma è difficile attenersi a questa constatazione quando siamo perennemente occupati ad accusare gli altri di disturbi mentali, una tendenza che i social network hanno accentuato.
In una cultura in cui tratti umani complessi diventano lo spunto per giudizi morali semplicistici, l’aggressività passiva sarà sempre vista come il problema di un singolo individuo disadattato, e comunque di qualcun altro. Forse, invece, sarebbe più sensato considerarla una dinamica interna alle relazioni, una corrente che attraversa amici, colleghi, coppie e famiglie anziché una caratteristica di determinate personalità. Una conseguenza di questo approccio è che ci costringe a riconoscere che l’aggressività passiva si annida in tutti noi.
Io e Aaron avevamo appena cominciato a riflettere su quel che era successo la sera prima quando lui è partito con una raffica di autogiustificazioni via via più ansiose. “Ma insomma, cosa vuole Jim da me? Lo sa quanto è importante questo contratto! Cosa dovrei fare, troncare una telefonata importante perché gli brontola la pancia?”.
A quel punto ha fatto una pausa. Il suo tono, fino a quel momento esitante e difensivo, è diventato improvvisamente molto aspro: “Però non si lamenta dei soldi che porto a casa con questi contratti. Non potremmo permetterci l’appartamento dove stiamo se io facessi il suo lavoro e passassi le serate come lui suonando il sax nei localini jazz!”.
Gli ho fatto notare quanto il suo tono fosse risentito. Era questo, allora, il motivo dell’incidente?
“Oh andiamo”, ha protestato lui. “Non è giusto, non intendevo questo! Mi sembra Jim!”.
Aaron non era del tutto fuori strada. L’arte della psicoterapia si basa sul mettere il paziente di fronte a verità scomode. Anche se il suo intento cosciente è quello di essere empatica e non giudicante, la combinazione di resistenza deliberata e tono misurato può essere facilmente scambiata per un atteggiamento passivo-aggressivo.
Aaron ha fatto una pausa e ha continuato. “Jim dice sempre che ce l’ho con lui perché guadagno molto di più…”.
“E quindi?”.
Dopo un’altra pausa gravida di significati, Aaron ha fatto un respiro profondo: “Guardi”, ha detto, “ora che ci ripenso, ieri sera c’è stato un momento, breve. Ero veramente intenzionato a chiudere la telefonata nel giro di un paio di minuti, ma poi mi è apparsa questa immagine di lui, di… un bravo bambino che aspetta paziente il papà e… ho pensato questa cosa, insomma, non sono molto fiero di dirla, ma mi è venuta in mente e basta: ‘Sì, proprio così, tu te ne stai seduto a girarti i pollici mentre io mi occupo delle cose importanti’”.
“Quindi era talmente arrabbiato che ha voluto ricordargli chi è che comanda”, ho detto io. A questo punto Aaron sembrava sconvolto. “Non so da dove venga questa cosa… E ora mi rendo conto che godevo a esercitare questo potere su di lui. Cristo, è veramente orribile”.
Perché, per Aaron, il fatto di riconoscere una vena di rabbia e risentimento che pulsava sotto la superficie del suo rapporto con Jim era così vergognoso? In passato, sua madre gli aveva raccontato con una certa soddisfazione che, quando era bambino, tutte le volte che cominciava a fare i capricci lei usciva dalla stanza per farglieli passare.
Cosa succede alla rabbia e all’aggressività quando sono negate e non hanno una valvola di sfogo? Gli psicoanalisti interpretano l’aggressività come un impulso, una forza interna che esercita costantemente una pressione sulla nostra mente e sul nostro corpo per scaricarsi, e può sfociare in urla, scontri o addirittura scontri fisici. Ma in realtà sarebbe meglio definirla come una forma di autoaffermazione, in parole o azioni. Per questo non potremmo affermare di fronte a un genitore, a un insegnante o a un capo il nostro diritto di parlare senza attingere a qualche forma di energia aggressiva.
Per Aaron il problema era che aveva sempre avuto la fobia dei gesti aggressivi espliciti, sia dei suoi sia degli altri. Qualsiasi confronto diretto con i fratelli più grandi a casa, o con i bulli a scuola, lo faceva balbettare e tremare.
Ma la paura di esprimersi in modo diretto non mette fuori gioco l’impulso dell’aggressività. Per la psicoanalisi, un impulso è molto diverso da un istinto biologico. Il secondo è programmato in modo innato ed è sostanzialmente invariabile. Negli animali, per esempio, il più forte sovrasta il più debole: se il leone non cattura l’antilope, non cerca di convincerla che essere squartata e divorata è nel suo interesse.
L’impulso è più scaltro e flessibile. Se non riesce a trovare una via diretta per la soddisfazione, ne cercherà una indiretta con la quale imporsi senza farsi scoprire. Aaron non riusciva a confessare a Jim il suo risentimento, anzi, era terrorizzato di ammetterlo perfino a se stesso. Così, la sua mente ha escogitato un modo per aggirare il suo intento cosciente ed esprimere la sua rabbia nei confronti di Jim.
L’aggressività può mascherarsi in vari modi, ma in società governate da intricati codici comportamentali il più efficace è senza dubbio quello di mostrarsi come il suo contrario.
Aaron non ha rivolto a Jim parole irritate o gesti di rabbia, anzi, si è scusato per averlo fatto aspettare. La tipica difesa del soggetto passivo-aggressivo, spesso accompagnata da occhi sgranati, bocca aperta e braccia allargate con i palmi all’insù, sembra calzare a pennello in questa situazione: “Cosa? Non ho fatto niente!”.
Il sottinteso di questa stupita rivendicazione d’innocenza è che, se non si sta facendo niente, non si può essere accusati di ostilità. Questa difesa, apparentemente logica, evidenzia che il termine “passivo-aggressivo” è un ossimoro. Si basa su una premessa binaria: si può essere miti o furiosi, amichevoli o ostili, passivi o aggressivi. E presuppone che il “fare” sia solo attivo, dimenticando le potenti conseguenze, mostrata così bene da Bartleby, del non fare niente. Qui il concetto di impulso torna particolarmente utile, perché spiega come, a volte, agiamo in modi di cui non siamo pienamente consapevoli.
Per evitare di considerare l’aggressività passiva un comportamento perpetrato da un carnefice calcolatore su una vittima innocente, vale la pena di osservare il ruolo di Jim quella sera. Mai, durante la famosa telefonata, ha ricordato ad Aaron la sua presenza o gli ha detto che se non avesse chiuso la telefonata avrebbe cominciato a mangiare senza di lui. L’aggressività passiva è quasi sempre un linguaggio condiviso a livello inconscio tra avversari non dichiarati. Anziché affrontarsi in una sfida a viso aperto per la vittoria, Aaron e Jim hanno preferito combattere per lo status di vittima più degna e bistrattata: vinceva chi faceva sentire più in colpa l’altro. In una società che ha elevato lo status delle vittime, presenti e passate, non è un caso che l’aggressività passiva sia diventata una delle dinamiche sociali dominanti.
Da Thomas Hobbes in poi, molti pensatori moderni hanno visto nell’inibizione dell’aggressività la base di una società funzionante. Nel Disagio della civiltà (1930), Sigmund Freud caratterizzava l’aggressività passiva come parte della tragedia irresolubile della condizione umana: la volontà vorace dell’individuo e le esigenze conformiste della società sono, in definitiva, inconciliabili. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, pochi anni dopo la pubblicazione del Disagio della civiltà, il sociologo tedesco Norbert Elias documentava nel Processo di civilizzazione (1939) come la diffusione delle buone maniere in Europa nel corso dei secoli fosse andata di pari passo con l’istituzione dello stato moderno, sopprimendo gli eccessi della violenza e della sessualità manifesta nella società.
Non tutti i pensatori, però, vedevano con favore la repressione della violenza. Friedrich Nietzsche, che nel 1887 pubblicò Genealogia della morale proprio mentre Freud faceva le sue prime escursioni nella psicoterapia, considerava la morale come la forma suprema di aggressività passiva, un espediente utilizzato dalle masse deboli e rancorose per frenare la volontà dei loro superiori, più forti e creativi.
La domanda che potremmo rivolgere a tutti questi pensatori è perché siamo istintivamente portati a essere aggressivi. La risposta psicoanalitica è che niente ci fa più paura di sentirci indifesi, e questa paura ci assale molto più spesso di quello che pensiamo. L’aggressività è un balsamo contro la sensazione d’impotenza, un modo per assicurarci che siamo i dominatori, non le vittime indifese del mondo che ci circonda. Aaron aveva la fobia dello scontro diretto per via di una paura radicata e inconscia del rifiuto. Anche la frecciatina compiaciuta del professore verso i suoi colleghi assistenti era dovuta alla paura che la sua posizione nella gerarchia fosse minacciata.
Il grande vantaggio dell’aggressività passiva è che non solo ci permette di esercitare e negare simultaneamente la nostra aggressività, ma trasforma la nostra vulnerabilità in un’arma. Anziché rivelare la nostra insicurezza, la passività diventa un modo subdolo per affermarci. Forse dovremmo chiamarla “passività aggressiva”. Se pensassimo al comportamento passivo-aggressivo non come a una patologia ma come a un’espressione comune della paura della dipendenza, latente in noi come nei nostri familiari e nei nostri colleghi, forse cominceremmo a trattarlo con più comprensione.
C’è qualcuno di noi che può dire di non aver mai fatto una critica mascherata da un complimento, o di non aver mai “dimenticato” di rispondere a una richiesta di qualcuno con cui eravamo segretamente arrabbiati? Lo facciamo non perché siamo assetati di potere o manipolatori, ma perché abbiamo una paura infantile della nostra aggressività e delle terribili conseguenze che comporta.
Come coltivare forme di confronto che ci permettano di esprimere sentimenti forti e difficili senza cadere nell’aggressività? La psicoterapia ci offre un esempio essenziale di questo esercizio di equilibrismo, mettendo a disposizione uno spazio per indagare i sentimenti dell’altro senza la pressione di stabilire chi ha ragione. Parlando con me, Aaron è riuscito a trovare un sollievo emotivo perché si è reso conto della rabbia e del risentimento che per troppo tempo aveva negato. Una volta acquisita questa consapevolezza, la domanda se la sua rabbia fosse giustificata o no è caduta: non pesava più su di lui in segreto e si è dissolta.
Possiamo trovare un modo altrettanto onesto e non conflittuale di comunicare con gli altri sul lavoro e nella società in generale? L’ostacolo, naturalmente, sono le nostre difese più radicate, soprattutto l’ansia che un aperto disaccordo provochi un rifiuto. In un mondo ferocemente gerarchico fatto di capi e sottoposti, forse l’idea stessa di un’apertura del genere è una pia illusione. ◆ fas
Josh Cohen è uno psicoanalista e professore di teoria letteraria moderna alla University of London. È autore di libri come The private life e Not working. Questo articolo è uscito su 1843, rivista pubblicata da The Economist, con il titolo Sorry you feel that way: why passive aggression took over the world.
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Questo articolo è uscito sul numero 1545 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati