Julia Holter vanta ormai una bella lista di album poetici e sofisticati da ogni punto di vista e quest’ultimo sembra il più avventuroso di tutti. In Something in the room she moves niente è sicuro, il racconto è incoerente e la fantasia dell’ascoltatore può scatenarsi. È un lavoro in cui gli strati si contrappongono, nello stile caratteristico della cantautrice statunitense. Qui non ci sono canzoni classiche, ma brevi suite, spesso cariche di riverberi che creano atmosfere in cui tutto può succedere. Tuttavia ci sono abbastanza elementi che impediscono a un disco di questo tipo di essere troppo difficile. Fedele a uno spirito avanguardistico, negli anni Holter ha sempre reso le sue invenzioni accessibili. In fondo il brano più audace è Meyou, fatto solo di vocalizzi. Il tema portante è la trasformazione: i suoni mutano, le parole sono connesse in maniera fluida ma non lineare. È difficile non restare incantati mentre Holter ci mostra il suo mondo interiore e il suo processo creativo. Un album da assaporare lentamente nei mesi a venire.
Mark Kidel, The Arts Desk
Se questa recensione fosse stata scritta vent’anni fa, avrebbe avuto bisogno di un’introduzione per spiegare come Alice Coltrane (nota anche come Swamini Turiyasangitananda) era molto più di “una proiezione terrena dello spirito di John”, come scrisse tristemente Amiri Baraka nel 1968 sulle note di copertina di A monastic trio, il debutto solista della musicista. Negli ultimi vent’anni il lavoro di Alice è stato rivalutato, sia grazie al suo ruolo spirituale sia grazie a una generazione più giovane di artisti come Angel Bat Dawid e Kamasi Washington, che hanno fornito nuove letture dell’eredità del jazz spirituale. Alice Coltrane è stata giustamente elevata ai livelli più alti del pantheon del jazz. Anche se la musica di Alice Coltrane ha bisogno di poca promozione da questo punto di vista, l’iniziativa Year of Alice, dedicata alla celebrazione della carriera della jazzista, è più che benvenuta, soprattutto quando porta alla luce gemme come The Carnegie Hall concert. Registrato a New York nel 1971, quattro anni dopo la morte di John Coltrane, il concerto segnò un momento cruciale nella carriera di Alice. Il suo disco Journey in Satchidananda era stato pubblicato solo pochi giorni prima e la performance del gruppo con il suo materiale nuovo di zecca è sicura e ispirata. Coltrane suona pianoforte, arpa e percussioni ed è affiancata da un cast di collaboratori di lunga data, tra cui Archie Shepp e Pharoah Sanders ai fiati. The Carnegie Hall concert è una registrazione ispirata e cruciale.
Antonio Poscic, The Quietus
Negli anni 2000, subito dopo il sensazionale ciclo di sinfonie di Schumann diretto da Daniel Barenboim con la Staatskapelle di Berlino, arrivò quest’altra integrale, con un’interpretazione di segno opposto. Possiamo ascoltarle entrambe per ricevere prospettive radicalmente diverse sul compositore tedesco. Zinman seguiva con attenzione gli studi sull’esecuzione storica e li metteva in pratica con risultati eccellenti. Nel complesso, i tempi sono rapidi ma mai affrettati: i movimenti esterni della prima sinfonia esplodono con freschezza primaverile, lo scherzo della seconda fa pensare a Mendelssohn, mentre i finali della terza e della quarta non s’impantanano mai. Non fate l’errore di vedere la rapidità come inflessibilità metronomica e la chiarezza come freddezza. La cosa meravigliosa di Barenboim e di Zinman è che hanno punti di vista totalmente diversi ma ugualmente validi, che giustificano un altro sguardo a questo repertorio così spesso registrato. Questo livello di eccellenza serve solo a rinnovare la nostra fiducia nella vitalità dei classici e nella capacità degli interpreti di confrontarsi con le grandi registrazioni del passato.
David Hurwitz, ClassicsToday
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