“Il dolore è come il flusso delle correnti”, scrive Elena Fischer all’inzio di questo romanzo triste ma anche pieno di speranza. A volte è più forte, altre si attenua, “ma il dolore è sempre lì”. Sono queste metafore, anche meravigliosamente infantili ma sempre molto precise, a dare una luce magica a Paradise garden. Quando muore la madre della quattordicenne Erzsébet (Billie per tutti), il mondo sembra crollarle intorno: “Tutto quello che mi rimaneva era la sequenza di lettere che formano il mio nome”. Billie è cresciuta in un casermone popolare di una città di cui non viene mai rivelato il nome. Sua madre Marika, un’ungherese di origine rom che un tempo voleva fare la ballerina, ha due lavori con cui tira avanti a malapena. L’arredamento in casa è fatto di mobili presi dalle discariche, ma nonostante tutto l’infanzia di Billie è stata felice. In un caffè la madre le ordinava un gelato, il Paradise garden, e insieme sognavano l’oceano, la Florida e i Caraibi. Poi accade qualcosa di tragico e Billie si trova ad affrontare tutto da sola. Leggendo Paradise garden l’allarme kitsch si accende a più riprese ma non ci si sente mai davvero a disagio in nessuna delle sue 270 pagine. E questo è merito della protagonista: una bambina come Billie può permettersi di essere romantica e ingenua proprio perché è una bambina. Fischer empatizza con la sua protagonista con dettagli così vividi da far pensare a una scrittura autobiografica.
Benedikt Herber, Die Zeit
In Islanda sta per tenersi un referendum. Da una parte c’è la Psych, un’organizzazione che vuole rendere obbligatorio un test nazionale di empatia, una sorta di “valutazione della sensibilità individuale”. Chi lo passa avrà un marchio, chi non lo passa dovrà ricevere cure psicologiche a causa del suo “disordine morale”. Nello schieramento opposto c’è il Masc, un gruppo convinto che così si creerebbe una classe marginalizzata e che i test sono particolarmente difficili da superare per i giovani uomini. I sostenitori del Masc sono convinti che la Psych sia un’associazione di pappemolli politicamente corrette e quelli della Psych che gli altri siano dei reazionari cavernicoli. Nonostante l’estrema polarizzazione questo brillante e sorprendente romanzo rivela tutte le sfumature e le contraddizioni del dibattito che si scatena. La storia è ambientata in un’Islanda del futuro dove tutti hanno un’assistente digitale (Zoé) che registra ed elabora continuamente i parametri vitali e ognuno è sottoposto a un sistema di protezione personale chiamato Chaperone. Se tutte queste intrusioni nella sfera privata sono accettate, allora perché non rendere obbligatori anche i test dell’empatia? Fríða Ísberg, come George Orwell e Anthony Burgess prima di lei, lascia che tutti gli aspetti più grotteschi della sua distopia parlino da soli. I tradizionalisti chiedono tolleranza, il politicamente corretto non perdona e chi non ha il coraggio di schierarsi raccoglie odio.
Kate McLoughlin, Times Literary Supplement
Tutti i grandi romanzi su Londra hanno come protagonista la città stessa. Caledonian road è un romanzo sociale con il ritmo di un bestseller da aeroporto e la consapevolezza di un frequentatore abituale della cultura alta. La Londra che emerge da queste seicento pagine somiglia a una grande carcassa putrescente. I suoi abitanti rosicchiano tutto quello che possono fino all’osso. La nostra guida è Campbell Flynn, 52 anni, un accademico e scrittore famoso. Ha da poco pubblicato un best seller di autoaiuto intitolato Perché gli uomini piangono in macchina. La sua è una bella vita, un sogno realizzato, ma nonostante questo sta correndo verso l’abisso. È circondato da una compagnia di aristocratici e trafficanti di esseri umani, attori del cinema e opinionisti. O’Hagan ci regala apparizioni a sorpresa di personaggi reali (il regista Baz Luhrmann e l’artista Grayson Perry) e caricature d’invenzione, come Yuri Nykov, il figlio scapestrato di un oligarca russo. Caledonian road è spettacolare finzione tratta dall’osservazione attenta della vita reale, un romanzo che somiglia a un’ingarbugliata storia giornalistica.
Xan Brooks, The Guardian
Nel secondo volume della sua Autobiografia in movimento, la scrittrice britannica Deborah Levy si chiedeva: “Di cosa ha bisogno una donna per diventare la protagonista della propria vita?”. Per lei significava trovare la sua voce e farsi sentire in un mondo patriarcale. Bene immobile si concentra sulla sua relazione con la proprietà, il possesso e la casa. Levy, arrivata a sessant’anni, riflette su come la sua vita “stia volgendo al meglio”. Sebbene scriva da quando aveva vent’anni (per lo più teatro e poesia) la sua carriera di autrice è davvero decollata dopo i cinquanta. Non tutti sono felici per la sua fortuna. A un party letterario a Londra uno spiacevole “scrittore di una certa notorietà” cerca di guastarle la festa e le chiede subdolamente: “Non ti capita di guardarti allo specchio e pensare che tutto questo successo ti è arrivato piuttosto tardi e che tanta fama sia piuttosto volgare, noiosa e sfiancante?”. È proprio l’apertura di Levy ai tic e agli scivoloni altrui a rendere il suo lavoro così stimolante. È una scrittrice che scruta a fondo ma senza forzare la mano. La prosa è giocosa e ricca di livelli sovrapposti, e offre sempre un’affascinante chiave di lettura sul suo modo di scrivere e di lavorare.
Heller McAlpin, Los Angeles Times
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