Cultura Suoni
Solar power
Lorde - Ophelia Mikkelson Jones
Lorde (Ophelia Mikkelson Jones)

Questo è un disco molto deludente, perché Lorde ai suoi esordi aveva fissato l’asticella così in alto che David Bowie l’aveva definita “il futuro della musica”. La cantante neozelandese aveva solo 16 anni quando è apparsa nella scena pop con Pure heroine. La sua ricerca sonora era continuata nel secondo lavoro, Melodrama, un altro disco in grado di esplorare i sentimenti con schiettezza. In Solar power però la cantante adotta un distacco stonato dalla realtà. Invece di aiutarla a trovare dei suoni nuovi e interessanti, il produttore Jack Antonoff ha scelto di andare a caccia di vibrazioni da spiaggia anni sessanta. Nel singolo che dà il titolo al disco c’è addirittura un cenno di Faith, pezzo del 1987 di George Michael, mentre in California la cantante fa l’occhiolino alla Katy Perry di California gurls. In realtà Lorde ha detto di voler fare musica come Joni Mitchell. Solar power sembra la sua versione del 21° secolo di The hissing of summer lawns, il classico del 1975 in cui Mitchell esplorava il ventre oscuro dei quartieri benestanti californiani. Ma se Mitchell descriveva la profonda disperazione di quelle donne ricche, Lorde si limita a volteggiare sul suo grazioso paesaggio sonoro. Helen Brown, Independent

Heart-shaped scars

La cantautrice scozzese Dorothy Allison è la definizione stessa di cool. La sua band, One Dove, è stata la prima a scegliere il dj inglese Andrew Weatherall come produttore dopo il successo di Screamadelica dei Primal Scream. Insieme nel 1993 hanno creato Morning dove white, un album straordinario che mescola malinconia country con dub ed elettronica. Pur avendo lavorato con chiunque, dai Massive Attack a Paul Weller, dai Death in Vegas a Pete Doherty, quella di Dot Allison è sempre stata una presenza molto discreta. Nel settimo album solista la cantante riesce finalmente a mettere se stessa al centro della scena, anche se è tutto molto etereo. I versi sembrano emergere appena per poi disfarsi in una nube impalpabile e la strumentazione è così delicata che sembra fatta di goccioline d’acqua. Dopo tante sperimentazioni nel dub, nell’indie e nel krautrock, Allison sembra finalmente aver trovato il suo suono. Se alcuni riferimenti sono ovvi (il folk psichedelico di Vashti Bunyan e di Linda Perhacs) altri sono molto più sottili: dal vecchio doo-wop alla perfezione easy listening dei Carpenters.
Joe Muggs, The arts desk

Any shape you take
Indigo De Souza - Charlie Boss
Indigo De Souza (Charlie Boss)

Se c’era qualche dubbio sulla sincerità di Indigo De Souza quando ha intitolato il suo debutto I love my mom, è sparito di sicuro con il nuovo lavoro. “Chiama tua madre, dille che la ami” canta ancora la musicista statunitense in Kill me, in cui voce e chitarra mostrano una schiettezza senza fronzoli. Il forte legame tra confessione appassionata e sarcasmo segna tutte le dieci tracce di Any shape you take. Nel grunge pop alla Dinosaur Jr. di Die/cry De Souza con voce dolce e poco addomesticata proclama fieramente: “Preferirei morire che vederti piangere”. Una frase che fa da contrappunto a una melodia molto più allegra. I toni si fanno intensi in Real pain, che evoca Mitski finché non arriva una cacofonia creata dalle urla dei fan, che apre una crepa e lascia entrare una vera connessione tra esseri umani. De Souza fa parte dell’affollata schiera di artisti influenzati dal grunge più melodico degli anni novanta. Ma oltrepassando le mura casalinghe dell’autoproduzione sta spiegando le ali per assumere nuove forme musicali.

Susan Darlington, Loud and Quiet

Screen violence

I Chvrches sono una delle band che hanno guidato l’ondata di synth-pop del decennio scorso, insieme a Purity Ring, Phantogram e Future Islands. Il loro disco migliore è stato l’esordio The bones of what you believe, uscito nel 2013. La cantante Lauren Mayberry e i maghi del synth Martin Doherty e Iain Cook hanno continuato questa traiettoria con il secondo lavoro, Every open eye. Ma, proprio come i contemporanei, la qualità della scrittura ha cominciato a calare a metà della loro carriera. Questo succede anche in Screen violence, anche se l’album ha i suoi momenti brillanti. Il brano di apertura, Asking for a friend, ricorda la forza del primo disco. Violent delights è un altro dei pezzi migliori, mentre l’icona del rock dark Robert Smith fa la sua apparizione in How not to drown, dando alla canzone un carattere cupo che di solito manca alla band scozzese. Screen violence fa quello che i Chvrches hanno sempre fatto, ma non raggiunge le vette emotive del primo lavoro.

Grant Sharples, Paste

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1424 - 27 agosto 2021
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