Nel 2005 un artista quarantenne prestato alla letteratura pubblicò Autoportrait, una performance che fu una rivelazione. Édouard Levé creò una forma di narrazione autobiografica sperimentale tanto efficace quanto irriproducibile. Il suo testo concatena frasi fredde, neutre e apparentemente casuali che insieme formano un ritratto teso e frammentato dell’autore. Ogni frase è un’osservazione e sembra danzare come un tizzone di brace in un campo appena incendiato che si raffredda. L’argomento è scottante ma viene spogliato di ogni patina soggettiva, di ogni giudizio e di ogni moralismo. Il libro comincia così: “Da adolescente pensavo che La vita, istruzioni per l’uso (di Georges Perec) mi avrebbe aiutato a vivere e Suicide, mode d’emploi (di Claude Guillon) mi avrebbe aiutato a morire. Ho trascorso tre anni e tre mesi all’estero. Preferisco guardare alla mia sinistra. Uno dei miei amici ama il tradimento”. E così via, per 91 pagine. Due anni dopo Levé s’impiccò e il suo editore pubblicò Suicidio, un testo che Levé gli aveva consegnato poco prima. Riguardava il suicidio di un amico con il quale l’autore aveva parlato informalmente prima di fare come lui. In Levé l’ansia non si oppone al concetto, anzi lo nutre e se ne nutre. Poiché né il sole né la morte possono fissare se stessi più di quanto possiamo fare con noi stessi o con qualsiasi altra cosa, è necessario creare delle forme e mantenere le distanze. L’esistenza è una cerimonia. E la cerimonia non è priva di umorismo.
Philippe Lançon, Libération
Dal 2012 Joël Dicker si è affermato tra gli scrittori di lingua francese più letti al mondo, con i suoi thriller dai titoli accattivanti. “Quali conclusioni possiamo trarre da questi dodici anni?”, si chiede l’autore nella postfazione. “Molte librerie ormai sono chiuse. Quelle rimaste sopravvivono vendendo oggetti estranei alla letteratura e le persone stanno incollate allo schermo del telefono”. Ormai non legge più nessuno. Una constatazione che ha spinto Dicker a sentirsi investito di una missione. Se i suoi romanzi precedenti avevano permesso a tanti adulti di riavvicinarsi alla lettura (per convincersene basta leggere i commenti su di lui in rete), era necessario convertire un pubblico sempre più ampio proponendo un libro “da mettere nelle mani davvero di tutti”. La catastrofica visita allo zoo si dichiara “rivolto a lettori dai 7 ai 120 anni” e, come i precedenti romanzi di Dicker, è la storia di un’indagine, questa volta condotta in un’ambientazione natalizia. Joséphine ricorda gli eventi a cui ha assistito da bambina – “accaduti allo zoo locale un venerdì di dicembre” – e cercherà di scoprire chi potrebbe aver ostruito le tubature della scuola con la plastilina, provocando un gigantesco allagamento, una “catastrofe” all’origine di quella che dà il titolo al romanzo. Il romanzo non ha altra ambizione se non quella, lodevole, d’intrattenere e lo fa bene. Interesserà un po’ meno coloro che nei libri cercano qualcosa di diverso.
Laetitia Favro, Le Point
Questa è la storia complicata di Skander, dieci anni, che va a vivere con la temibile madame Khadija a Courseine, nella banlieue di Parigi. Affidato fin da piccolo ai servizi sociali, è sempre stato un ragazzino curioso e appassionato di lettura. Come succede a molti bambini abbandonati a loro stessi, la strada diventa il suo regno e lo allontana sempre di più dal suo sogno d’infanzia: diventare avvocato. Bocciato a scuola, cresce nella strada, con le sue regole, i suoi piccoli traffici e la sua violenza. Questa è la trama delle Condizioni ideali, il primo romanzo di Mokhtar Amoudi. Ci sono almeno due motivi essenziali che rendono questo libro degno di nota: il suo stile – Amoudi ha una penna particolarmente felice – e il tono, questo modo leggero, spesso divertente, a tratti commovente, di parlare di cose profonde, per non dire drammatiche. Naturalmente, viene in mente La vita davanti a sé di Romain Gary ma non ha senso gravare l’autore con questi riferimenti; dobbiamo lasciare che continui in pace il suo lavoro. E tutto comincia sotto i migliori auspici.
Mohammed Aïssaoui, Le Figaro
Non ancora famoso, l’artista pop Andy Warhol fu invitato a esporre il suo lavoro alla Ferus Gallery, il fulcro della scena artistica contemporanea della Los Angeles dei primi anni sessanta. Dennis Hopper e la sua prima moglie, Brooke Hayward, avevano pianificato di organizzare una festa per la stella nascente della pop art e lui non aveva alcuna intenzione di perdersela né di mancare all’inaugurazione. Così Warhol, che come un altro famoso viaggiatore, Jack Kerouac, non guidava, arruolò tre amici per accompagnarlo attraverso il paese: l’attore underground Taylor Mead, l’artista Wynn Chamberlain e il neoassunto assistente Gerard Malanga. Deborah Davis fa un ottimo lavoro nell’illustrare i vari modi in cui il viaggio aprì gli occhi a Warhol. Fa frequenti deviazioni su divertenti rampe di uscita, si sgranchisce le gambe su argomenti come le cabine fotografiche (i primi selfie), il design dei cartelloni pubblicitari dell’epoca e la Carte Blanche, una delle prime carte di credito, con cui Andy finanziò l’intero viaggio. Per quanto il libro possa essere divertente, ci sono parti in cui Davis si prende delle libertà come nemmeno Warhol avrebbe osato. Nonostante tutto, però, l’autrice è chiaramente appassionata all’argomento.
James Sullivan, The Boston Globe