Dopo l’attacco lanciato da Hamas contro Israele il 7 ottobre 2023 molti commentatori avevano previsto che la guerra avrebbe coinvolto solo lo stato ebraico e l’organizzazione islamista palestinese. D’altronde i principali attori coinvolti sembrano avere ottime ragioni per evitare un allargamento del conflitto: Israele è impegnato nella risposta militare a Gaza, l’Iran non vuole finire in rotta di collisione con gli Stati Uniti e Washington non vuole alimentare un caos che inciderebbe sul mercato petrolifero, farebbe crescere l’estremismo e distoglierebbe l’attenzione dalla guerra in Ucraina. Inoltre l’organizzazione libanese Hezbollah, principale alleata regionale dell’Iran, è in difficoltà e teme che una nuova guerra con Israele faccia peggiorare la crisi politica ed economica del Libano.
Nemmeno gli altri paesi della regione vogliono un’escalation. Gli stati arabi come la Giordania e l’Egitto devono gestire vari problemi sociali ed economici che sarebbero aggravati dall’arrivo di migliaia di profughi palestinesi, mentre per i paesi del Golfo una guerra allargata bloccherebbe il tentativo di normalizzare i rapporti di vicinato e risolvere i conflitti in Libia, Siria e Yemen. La Striscia di Gaza, intanto, continua a vivere una devastante crisi umanitaria alimentata da bombardamenti israeliani senza precedenti. Buona parte dello stato ebraico è ormai un bersaglio costante dei missili di Hamas. Nessuno, insomma, vuole che la situazione vada definitivamente fuori controllo.
Il problema è che gli argomenti logici a favore del contenimento dello scontro sono diventati meno solidi dopo l’esplosione che ha causato molti morti all’ospedale Al Ahli di Gaza, il 17 ottobre. La Casa Bianca ha detto che la responsabilità non è di Israele, ma paesi come Bahrein, Egitto, Giordania, Marocco, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno incolpato il governo di Tel Aviv. Da quel giorno ci sono state proteste in tutto il Medio Oriente, è stato cancellato un vertice tra i leader di Giordania, Egitto, Palestina e Stati Uniti e si fanno più insistenti le ipotesi di uno scontro tra Iran e Israele.
In un’intervista ad Al Jazeera, il 15 ottobre, il ministro degli esteri iraniano ha dichiarato che fino a quando Israele proseguirà la sua campagna militare nella Striscia di Gaza “l’apertura di altri fronti resterà altamente probabile”, aggiungendo che se Israele “deciderà di entrare a Gaza, i leader della resistenza la trasformeranno in un cimitero di soldati dello stato occupante”. La guida suprema Ali Khamenei ha lanciato minacce simili, dichiarando che l’Iran non fermerà i suoi militanti se Israele continuerà ad attaccare Gaza. Secondo alcuni esperti di questioni iraniane queste parole esprimerebbero una posizione politica o sarebbero la prova che Teheran vuole prendere le distanze dalle azioni dei suoi alleati, come Hezbollah in Libano e i gruppi militanti sciiti in Iraq. Tuttavia, la possibilità di uno scontro aperto tra Iran e Israele non può essere esclusa, soprattutto considerando che il sostegno pubblico dei leader iraniani alle milizie ridurrebbe la possibilità di negare il proprio coinvolgimento. Teheran e Tel Aviv erano in rotta di collisione da molto prima che scoppiasse l’attuale conflitto e da decenni sono impegnate in una sorta di “guerra ombra” combattuta via terra, aria e mare. Dopo che gli Stati Uniti sono usciti dall’accordo sul programma nucleare iraniano e Teheran ha portato avanti il suo programma atomico, questa guerra si è intensificata, creando una sorta di escalation controllata, in cui ognuno dei due fronti sembrava convinto di poter tracciare limiti invalicabili prima che le ostilità diventassero troppo pericolose. Ma il conflitto a Gaza ha reso ancora più fragile questo equilibrio. Più durerà lo scontro, meno saranno gli incentivi alla moderazione.
La forza di Hezbollah
All’inizio della guerra tra Israele e Hamas tutti gli attori chiave hanno cercato di evitare un allargamento del conflitto. I leader israeliani, sconvolti dalla brutalità del peggior attacco nella storia del paese, hanno preparato la loro risposta militare concentrandosi sull’obiettivo di fermare la minaccia terroristica da Gaza. Quando il Wall Street Journal ha scritto che l’Iran aveva contribuito a organizzare l’operazione di Hamas, i funzionari della difesa israeliana hanno subito smentito. Anche se tutti sanno che Teheran fornisce aiuti economici e militari ad Hamas, gli israeliani hanno voluto sottolineare che non c’erano prove di una partecipazione attiva dell’Iran.
Gli statunitensi hanno adottato una posizione simile. Quando gli è stato chiesto se dietro l’attacco ci fosse l’Iran, il presidente Joe Biden ha risposto che non esistevano “prove concrete” e che il governo statunitense non aveva motivo di pensare che Teheran sapesse delle intenzioni di Hamas. L’Iran, da parte sua, ha negato qualsiasi coinvolgimento, anche se i suoi leader hanno elogiato pubblicamente l’attacco. Nonostante la retorica diventi sempre più aggressiva e il bilancio delle vittime continui a crescere, è lecito sperare che l’Iran proseguirà sulla linea della prudenza. I suoi leader, indeboliti dal calo di legittimità sul fronte interno e da un’economia in crisi, si preoccupano della loro sopravvivenza politica e probabilmente non vogliono rischiare un conflitto con gli Stati Uniti, con i quali erano impegnati in colloqui diplomatici.
L’attuale decisione del governo statunitense di spostare due portaerei nel Mediterraneo orientale serve ad avvertire gli iraniani che una loro partecipazione al conflitto provocherebbe una reazione americana. Lo stesso Hezbollah ha mostrato una certa misura nella sua risposta iniziale alla guerra tra Israele e Hamas, limitandosi ad attacchi su scala ridotta che sembravano calibrati per evitare che lo scontro degenerasse.
Ma negli ultimi giorni i leader iraniani hanno cominciato a fare dichiarazioni in cui sembrano lasciare la porta aperta a un proprio coinvolgimento diretto: nei giorni scorsi Hezbollah ha lanciato missili anticarro con tecnologia avanzata sul nord di Israele, superando i limiti fissati dallo stato ebraico. Israele ha risposto bombardando il sud del Libano.
Un peggioramento della situazione al confine libanese sarebbe estremamente pericoloso. Hezbollah ha capacità militari molto superiori a quelle di Hamas: i suoi missili sono più potenti e precisi e possono colpire tutto il territorio israeliano, quindi un suo attacco metterebbe le difese antimissile israeliane più in difficoltà dei razzi di Hamas. Su entrambi i lati del confine, israeliano e libanese, è cominciata l’evacuazione degli abitanti per risparmiare ai civili di trovarsi nel mezzo di una nuova zona di combattimento.
Tuttavia, l’apertura di un nuovo fronte a nord non è inevitabile. Al momento Israele è concentrato sull’operazione a Gaza, che sarebbe complicata da un’escalation alla frontiera settentrionale. A sua volta Hezbollah potrebbe esitare a espandere le sue operazioni militari, soprattutto perché una guerra totale con Israele potrebbe comportare l’intervento degli Stati Uniti. Inoltre l’organizzazione libanese deve considerare la pressione interna: negli ultimi giorni le strade del Libano si sono riempite di manifestanti che protestavano per i morti di Gaza provocati dagli israeliani, ma la rabbia della popolazione è rivolta anche contro una serie di crisi interne che un impegno militare aggraverebbe. Quindi l’obiettivo degli attacchi di Hezbollah potrebbe essere semplicemente esprimere solidarietà ad Hamas e impegnare i militari israeliani lontano da Gaza. Inoltre l’Iran non vuole che Hezbollah si esponga troppo per difendere Gaza: la minaccia di rappresaglie dell’organizzazione libanese è infatti una componente fondamentale della strategia di Teheran per evitare un attacco su larga scala di Israele che potrebbe mettere a repentaglio la sopravvivenza del regime iraniano.
Allo stesso tempo, questa guerra sta cambiando i calcoli di sicurezza sia in Iran sia in Israele, al punto da rendere plausibile un conflitto diretto tra i due paesi, che si stava già profilando prima del 7 ottobre. Durante la “guerra ombra” tra Israele e Iran, gli attacchi israeliani contro le forze alleate di Teheran in Siria si sono allargati alle strutture navali e militari iraniane all’esterno come all’interno del paese, comprese alcune azioni contro gli impianti nucleari iraniani. Questa dinamica è un elemento portante della strategia adottata da Israele contro l’Iran, chiamata “piovra”: si comincia colpendo i tentacoli (le forze sostenute da Teheran in altri paesi) per poi procedere verso “la testa”, in Iran. Dato che in questi anni i governi israeliani hanno confermato questa linea, gli attacchi iraniani contro obiettivi legati a Israele (comprese alcune navi commerciali) sono diventati sempre più audaci.
Eppure prima della guerra attuale entrambi i paesi sembravano convinti di poter controllare la portata del conflitto. L’Iran aveva risposto in modo piuttosto moderato alle provocazioni di Stati Uniti e Israele, in particolare dopo l’omicidio di Qassem Soleimani, comandante della forza Quds, ucciso dagli americani nel 2020, e i bombardamenti israeliani in Siria e Iran. A quel punto i leader israeliani si erano convinti di essere riusciti a dissuadere Teheran dall’idea di allargare il conflitto. Una supposizione simile a quella che Tel Aviv aveva fatto su Hamas. Israele credeva di poter ridurre di volta in volta le capacità militari dell’avversario senza rischiare rappresaglie pesanti o una guerra diretta.
Espansione ed equilibrio
Anche i leader iraniani oggi pagano le conseguenze della loro presunzione. Nel corso degli anni si sono convinti di avere una solida posizione regionale, rafforzata dai legami con la Russia e dal riavvicinamento con la maggior parte dei paesi arabi, compreso il principale rivale, l’Arabia Saudita. La violenta repressione delle proteste interne dopo l’autunno del 2022 ha ulteriormente confermato le certezze del regime, e lo stesso vale per i recenti passi avanti sul fronte del nucleare. Si pensa che dopo l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo del 2015 l’Iran si sia avvicinato alla possibilità di costruire armi nucleari, e lo scambio di prigionieri di settembre con Washington non riguardava il programma atomico di Teheran. Probabilmente l’Iran credeva che le proprie capacità dissuasive (compresa la minaccia rappresentata per Israele da Hezbollah) fossero sufficienti a proiettare un’immagine di forza nella regione e a portare avanti il programma nucleare senza una reazione dello stato ebraico. Le proteste dei cittadini israeliani contro il governo di Benjamin Netanyahu negli ultimi mesi hanno rafforzato la convinzione di Teheran che un Israele più debole non avrebbe reagito alle provocazioni.
Il fatto che entrambi i governi pensassero di avere un vantaggio sull’altro li stava già mettendo in rotta di collisione. E ora alcuni degli ostacoli a un conflitto aperto si stanno sgretolando. Le barriere potrebbero crollare del tutto se la guerra a Gaza portasse a un attacco su vasta scala di Hezbollah contro Israele, a un’operazione di Israele contro Hezbollah o a un intervento degli Stati Uniti contro le strutture nucleari iraniane. Davanti alla percezione di una minaccia alla propria esistenza, i leader di Israele e Iran potrebbero abbandonare ogni prudenza. Questo scenario catastrofico non è ancora inevitabile, ma le valutazioni su entrambi i fronti sembrano spingere il conflitto verso una pericolosa espansione invece che verso l’equilibrio. I leader iraniani potrebbero considerare la guerra tra Israele e Hamas come un’occasione per indebolire Israele attraverso attacchi per procura dal Libano o dalla Siria, o per incoraggiare la ripresa di quelli contro le forze statunitensi in Iraq e Siria.
◆ L’esercito israeliano ha intensificato i bombardamenti nella Striscia di Gaza in preparazione di una probabile offensiva di terra. Secondo Hamas, nella notte tra il 23 e il 24 ottobre 2023 sono morte 140 persone, portando il bilancio degli attacchi israeliani in territorio palestinese a più di 6.500 vittime, tra cui almeno 2.700 bambini (dati aggiornali al 25 ottobre). Il ministero della salute palestinese ha annunciato che più di cento palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania dal 7 ottobre.
◆La mattina del 24 ottobre il presidente francese Emmanuel Macron ha incontrato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e nel pomeriggio è stato ricevuto dal presidente palestinese Abu Mazen a Ramallah, in Cisgiordania. Poi ha continuato il suo viaggio nella regione.
◆Nel nord d’Israele, al confine con il Libano, sono continuati gli scontri a fuoco tra l’esercito israeliano e Hezbollah, alleato di Hamas e sostenuto dall’Iran. Secondo l’Onu, più di diciannovemila persone sono state costrette a lasciare le loro case in Libano, mentre Israele ha evacuato alcune località vicino al confine. Afp
Queste operazioni potrebbero già essere in corso: il 18 ottobre gli Stati Uniti hanno intercettato alcuni droni che avevano preso di mira una base irachena delle forze americane. Davanti alla possibilità di sostenere che le proprie azioni sono una risposta alla sofferenza dei palestinesi a Gaza, l’Iran potrebbe convincersi che uno scontro diretto con Israele o perfino con gli Stati Uniti non danneggerebbe i suoi rapporti al livello regionale e globale.
Teheran potrebbe inoltre pensare che in una situazione simile le grandi potenze resterebbero fuori del conflitto. Di sicuro la Russia apprezzerebbe un aumento del caos in Medio Oriente, che distoglierebbe l’attenzione dall’Ucraina. La Cina sarebbe meno disposta a tollerare un’azione iraniana che alimentasse l’instabilità regionale, anche perché ha interesse a mantenere al sicuro le forniture di petrolio dal Medio Oriente. Ma difficilmente interverrà per contrastare Teheran, soprattutto se l’Iran dovesse riuscire a indebolire la posizione degli Stati Uniti.
Rischi a confronto
Dal punto di vista iraniano potrebbe essere arrivato il momento di rispondere agli attacchi israeliani degli ultimi anni. Oppure i suoi leader potrebbero optare per un attacco preventivo, se pensassero che Israele si concentrerà sull’Iran dopo l’operazione a Gaza.
In Israele l’attacco di Hamas ha messo in crisi le convinzioni su come affrontare gli avversari. L’idea che un nemico possa essere “contenuto” o “gestito” è stata smentita. Se Israele prendesse di mira l’Iran, potrebbe decidere di colpire direttamente la testa della piovra con un attacco su vasta scala contro obiettivi in territorio iraniano. Il forte sostegno militare garantito dall’amministrazione Biden fin dall’inizio della guerra rafforzerà la sicurezza degli israeliani di poter contare sull’appoggio degli americani nel caso di un attacco all’Iran.
L’aumento delle schermaglie tra Israele e Iran potrebbe destabilizzare la regione, alterare i mercati globali, provocare danni inimmaginabili ai civili, trascinare gli Stati Uniti in un conflitto e forse spingere Teheran a dotarsi di armi atomiche. I fragili presupposti alla base dell’escalation controllata tra Israele e Iran potrebbero essere spazzati via dalla rabbia, dagli errori di valutazione o dai cambiamenti di strategia.
Finora l’amministrazione Biden è sembrata consapevole dei rischi e ha cercato di contenere la guerra tra Hamas e Israele. Gli statunitensi sembrano voler dialogare con l’Iran dietro le quinte. Questa comunicazione è cruciale per evitare un’escalation disastrosa. Il problema è che il conflitto potrà essere arginato solo se tutte le parti coinvolte avranno interesse a scongiurare una guerra regionale. Per ora ci sono le condizioni, ma la situazione potrebbe mutare. Un cambiamento nei calcoli strategici in Israele, in Iran o in entrambi i paesi potrebbe spingere i loro leader a credere che per la sopravvivenza del paese evitare un conflitto sia più pericoloso di una guerra aperta. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1535 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati