“Siamo cinquemila qui. / In questa piccola parte della città. / Siamo cinquemila. / Quanti siamo in totale nelle città e in tutto il paese?”.
Queste parole, scarabocchiate su un taccuino, fanno parte dell’ultima poesia scritta dal cantautore e poeta cileno Víctor Jara nell’Estadio Chile, a Santiago. L’avvocato Boris Navia portò la poesia con sé quando fu trasferito all’Estadio nacional. La copiò su due pacchetti di sigarette Hilton per due prigionieri che dovevano essere rilasciati. Fu scoperto e pagò la sua audacia con la tortura. Ma uno dei pacchetti, affidato a un medico, sfuggì ai controlli e le ultime parole dell’artista diventarono pubbliche. Quando questo succedeva Víctor Jara era già stato picchiato, ustionato, torturato e ucciso con decine di proiettili (morì a settembre del 1973, pochi giorni dopo il colpo di stato del generale Augusto Pinochet). Il suo corpo fu gettato tra i cespugli e poi portato all’obitorio come un cadavere anonimo. Una dipendente lo identificò, consentendo alla vedova Joan Jara di dargli sepoltura. Anche nelle circostanze più estreme, sottoposto a una violenza brutale e vicino alla morte imminente, Jara non aveva smesso di creare né di solidarizzare con chi soffriva, come aveva fatto per tutta la vita. Rinchiuso in quella prigione del terrore, aveva pensato agli altri, a tutti i suoi connazionali che stavano condividendo il suo stesso destino.
Erano molte migliaia. Almeno 40.175 donne e uomini cileni furono vittime della prigionia politica e della tortura. E 1.162 cadaveri non sono ancora stati ritrovati.
Parole immortali
Dopo cinquant’anni è stata finalmente fatta giustizia. È passato mezzo secolo prima che i carnefici di Jara fossero condannati: il 28 agosto una sentenza della corte suprema ha confermato le condanne a 25 anni di carcere per il rapimento e l’omicidio dell’artista e del suo compagno di martirio, l’avvocato Littré Quiroga, ucciso con più di venti proiettili. Mezzo secolo d’impunità impenetrabile, in cui una dittatura onnipotente e i suoi mezzi d’informazione compiacenti hanno negato le morti, inscenato scontri, inventato “purghe” tra gruppi di sinistra o attribuito l’orrore a crimini comuni e a una “guerra” immaginaria. Ma quale guerra? Forse quella tra un artista che non aveva altro che la sua voce e la sua chitarra e la macchina di morte di uno stato trasformato in una banda di terroristi impegnati a uccidere i propri connazionali?
Nel 1978 Joan Jara presentò la prima denuncia. Fu un gesto simbolico, in un’epoca di giudici obbedienti al regime o terrorizzati. Solo nel 1999 il caso di Jara cominciò a essere preso sul serio. L’avvocato Nelson Caucoto ripartì da zero, cercando di ricostruire la struttura di comando dell’Estadio Chile.
Anche con il ritorno del paese alla democrazia, dopo il 1990, le forze armate restarono fedeli al patto del silenzio. “Abbiamo chiesto all’esercito, all’aeronautica, alla marina, alla polizia e nessuno sapeva. C’era un chiaro interesse a non indagare”, ha detto Caucoto.
Il suo lavoro meticoloso ha portato giustizia per Jara e Quiroga e ha svelato la rete di silenzio sugli orrori commessi nell’Estadio Chile. È la storia di tante famiglie delle vittime, che hanno affrontato non solo il dolore e l’impunità, ma anche la negligenza o il vero e proprio boicottaggio delle istituzioni statali. Istituzioni che si sono schierate con gli assassini, nascondendo prove e ostacolando la ricerca della verità e della giustizia.
Mentre l’11 settembre si avvicina, e con questa data la commemorazione del cinquantesimo anniversario del golpe, vediamo parlamentari che minimizzano il numero di morti durante la dittatura o addirittura negano le violenze sessuali commesse dai militari. Per loro sono sciocchezze, provocazioni da quattro soldi che saranno spazzate via dal tempo.
Invece la sentenza sull’uccisione di Víctor Jara rimarrà scritta nei libri. Come un altro evento rilevante: il lancio del piano nazionale per la ricerca dei detenuti scomparsi. Un ministro del governo cileno ha spiegato che “sono stati i funzionari statali e lo stato, con i suoi mezzi, ad aver commesso questi crimini. È ragionevole, quindi, che oggi lo stato si occupi della ricerca e della riparazione”.
La sentenza su Víctor Jara e la ricerca delle persone scomparse mostrano la strada per raggiungere l’unità con la giustizia, non con l’impunità. Con la verità, non con le bugie. Con un paese che non nasconde l’orrore sotto il tappeto, ma guarda in faccia il suo passato per un futuro condiviso guarito dalle ferite.
Il 30 agosto il piano di ricerca del governo di Gabriel Boric è finito nella prima pagina del quotidiano statunitense New York Times. Mentre in Cile è passato come un evento qualsiasi. Le frasi incendiarie della vita di tutti i giorni non ci permettono di vedere il grande arco di una storia che in alcuni casi comincia finalmente a chiudersi e in altri è una ferita purulenta, dopo cinquant’anni di morte e insabbiamento della verità.
Raúl Jofré González, Edwin Dimter Bianchi, Nelson Haase Mazzei, Ernesto Bethke Wulf, Juan Jara Quintana e Hernán Chacón Soto sono gli assassini condannati. Per mezzo secolo questi criminali hanno goduto di impunità e privilegi: una carriera militare, stipendi pubblici, onorificenze, medaglie e una comoda pensione pagata da tutti i cileni. Hanno avuto molto tempo per pentirsi, confessare e contribuire a chiarire la verità e rimediare in parte al dolore causato. Invece hanno scelto di vivere tutta la loro vita da vigliacchi. Ma ora la giustizia li ha finalmente raggiunti.
Uno dei condannati, Chacón, si è suicidato poco dopo aver saputo della sentenza. Il presidente Boric ha parlato di chi “muore vilmente per non affrontare la giustizia”. Ma il suicidio, anche di un criminale spregevole, è una decisione intima, che è meglio non giudicare.
Chacón è stato un vigliacco non per come è morto, ma per come visse e per come uccise. Per come abusò di un uomo indifeso, armato solo di un taccuino e di una matita.
“Canto, come mi riesci male / quando devo cantare l’orrore. / Orrore come quello che vivo, come quello che muoio, orrore”. Le parole di Jara e il suo nome sono immortali. Quelle dei suoi assassini solo una nota a piè di pagina nella storia dell’orrore.◆ fr
Daniel Matamala è un giornalista e scrittore cileno nato nel 1978.
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Questo articolo è uscito sul numero 1528 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati