L’iniziativa può far sorridere e chissà se sarà in grado di fare la differenza in un festival che si preannuncia burrascoso: la TinyHouse, piccolo chalet costruito nel centro della Berlinale in Potsdamer Platz, ha accolto i cinefili desiderosi di parlare del conflitto tra Israele e Hamas in modo “intimo e personale”. Tutto ciò perché la violenza del dibattito pubblico, la moltiplicazione di atti antisemiti dopo il 7 ottobre e l’offensiva israeliana a Gaza hanno assunto in Germania, per evidenti ragioni storiche, un’intensità particolare. Teatro di uno scontro frontale tra una politica della memoria connaturata nella repubblica federale e un’acuta coscienza delle discriminazioni, questa 74a edizione del Festival internazionale del film di Berlino, più che mai in sintonia con lo spirito del tempo, rappresenta un evento ad alto rischio.
Proteste sul tappeto rosso
Già la cerimonia di apertura del 15 febbraio è stata caratterizzata da diverse azioni contro il partito di estrema destra Afd, i cui successi elettorali obbligano il paese a fare i conti con il passato. Mentre una ventina di artisti manifestavano in un’iniziativa antifascista vicino al Berlinale Palast, l’indossatore senegalese Papis Loveday esibiva sul tappeto rosso un manifesto con la scritta “No racism! No Afd!”.
Qualche giorno prima i direttori della Berlinale, Mariette Rissenbeek e Carlo Chatrian (alla loro ultima edizione alla guida del festival), consapevoli della tribuna ideale che avrebbe offerto il festival, hanno replicato in modo ecumenico alla diffusione di una lettera aperta firmata da una parte dello staff che chiedeva un cessate il fuoco immediato, la liberazione degli ostaggi e criticava “l’inerzia del settore culturale” di fronte alle sofferenze della popolazione di Gaza.
“La nostra simpatia va a tutte le vittime delle crisi umanitarie in Medio Oriente e altrove”, hanno dichiarato Rissenbeek e Chatrian. “Prendiamo posizione contro tutte le forme di discriminazione e ci impegniamo per la comprensione interculturale”.
A questa necessità di creare un dialogo sul conflitto ha risposto in modo opportuno la presentazione, fuori concorso, di No other land. Questo film di amicizia e resistenza in Cisgiordania è stato realizzato da un collettivo israelo-palestinese, applaudito a lungo in occasione della proiezione, il 17 febbraio. Il collettivo ha chiesto di nuovo un cessate il fuoco mentre in platea ci sono stati vivaci scambi tra spettatori in favore di una Palestina libera e una minoranza che chiedeva la pace.
Pochi giorni dopo il massacro compiuto da Hamas, il cancelliere Olaf Scholz ricordava che la sicurezza di Israele è “per la Germania una ragione di stato”, mentre una campagna di manifesti del Bundestag riaffermava la solidarietà incondizionata della camera bassa allo stato ebraico. Tuttavia questa linea ufficiale, adottata da molte importanti strutture culturali, non è condivisa in modo unanime. E ben presto è stato chiesto di aderirvi a chi per disaccordo politico, per scelta del silenzio o anche per impegno in favore della pace è entrato in aperto disaccordo con i parlamenti regionali, importanti fonti di finanziamento.
Così in un’atmosfera molto polarizzata sono stati cancellati diversi eventi: alla Fiera del libro di Francoforte è stata annullata la cerimonia di consegna di un premio all’autrice palestinese Adania Shibli, annullata anche la mostra a Saarbruck della fotografa sudafricana Candice Breitz per le sue dichiarazioni contro la politica israeliana, e addirittura il famoso club Berghain di Berlino è rimasto coinvolto in una polemica con il dj franco-libanese Arabian Panther. La proposta del senatore Joe Chialo di vincolare tutti i beneficiari di fondi pubblici a una clausola “antidiscriminatoria” è stata rapidamente derubricata.
A livello internazionale la petizione anonima Strike Germany chiede il boicottaggio delle istituzioni culturali tedesche che “mirano a sopprimere la libertà di espressione, in particolare quella di esprimere solidarietà nei confronti della Palestina”. Ed è proprio per questo che i registi Ayo Tsalithaba e Suneil Sanzgiri hanno ritirato i loro film dalla sezione sperimentale della Berlinale, Forum expanded.
L’invito della discordia
All’inizio di febbraio un altro scandalo ha finito per complicare ancora di più la situazione. La direzione del festival ha ritirato l’invito al gala di apertura a cinque rappresentanti dell’Afd al senato di Berlino, che in un primo momento erano stati invitati al gala di apertura, ribadendo il “suo impegno in favore di una società libera e tollerante contro l’estremismo di destra”.
Il contesto non poteva essere più infiammabile dopo settimane di grandi manifestazioni in tutta la Germania in difesa di una democrazia minacciata dal partito di estrema destra. L’Afd ha denunciato questa esclusione, mentre la ministra della cultura Claudia Roth ha espresso i suoi dubbi sulla reale efficacia del provvedimento nel contrastare un partito democraticamente rappresentato in parlamento.
Anche la giuria, presieduta da Lupita Nyong’o, non si è discostata molto dalla posizione ufficiale, e il regista Christian Petzold ha osservato che la mobilitazione civile contro l’Afd era molto più importante della presenza di qualche deputato tra il pubblico.
A riprova delle divisioni di un paese disorientato, le rivendicazioni settoriali sfruttano la visibilità offerta dal festival. Così la potente unione dei sindacati del settore dei servizi (ver.di), ha denunciato le condizioni di lavoro nell’industria cinematografica e quelle dei tassisti, molto critici contro Uber, sponsor della Berlinale. Questi ultimi hanno inoltre previsto di proiettare Taxi driver in un veicolo a otto posti mentre il 20 febbraio Martin Scorsese sarà a Berlino per ricevere un Orso d’oro alla carriera. ◆ adr
◆ Secondo il Berliner Zeitung la scelta della direzione del festival di ritirare l’invito ai senatori dell’Afd è inopportuna e dà l’impressione di assistere a “un film sbagliato”. Giulia Lorenz, sul settimanale Die Zeit, sottolinea che “il problema è più grande di un festival”, anche se si tratta di una rassegna tradizionalmente molto politicizzata. In generale però l’idea è che la mossa dei dirigenti della Berlinale sia quantomeno controproducente. Secondo Verena Mayer, del quotidiano Suddeutsche Zeitung, la cosa migliore sarebbe stata lasciare la risposta al cinema e cita Jasmine Trinca, che fa parte della giuria del festival: “Perché non provare a pensare che cinque fascisti seduti in sala possano ampliare il loro orizzonte?”, ha detto l’attrice italiana durante una conferenza stampa.
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Questo articolo è uscito sul numero 1551 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati