Il presidente della Campania Vincenzo De Luca s’immagina il lavoro culturale come una forma di promozione del turismo. Lui e il suo staff disegnano bellamente, ogni giorno, il panorama politico e non vogliono i Saviano e tutti quelli che con il loro profilo s’affacciano e guastano l’inquadratura. Se questo modello di attività culturale prevalesse – e non è detto che non stia già accadendo, basta citare gli idilliaci spot regionali – i capiregione metterebbero su festival della mente, dello spirito, della letteratura badando a tener fuori filosofi, artisti, romanzieri e poeti che citano camorre, baratterie, devastazioni ambientali, disfunzioni dei servizi, evasioni fiscali piccole e grandi, lavoro nero, abbandoni scolastici, sparizioni di librerie, razzismo, misoginia, adulterazioni di vini e altre glorie locali. Il tutto sulla base del seguente criterio: se io pago, tu, caro pseudointellettuale, entri al mio servizio e devi essere coerente col piano in base a cui capeggio la regione meglio capeggiata d’Italia, cioè la mia; se invece fai il Saviano, qui non ci metti piede. Brutta prospettiva per i mutamenti radicali che s’invocano a partire dalla lezioncina del covid. Messa così, meglio finirla coi festival e diventare scrittori-viandanti che girano per paeselli, conversano con questo e con quello di metrica e grandi temi, dormono nei
fienili o, se si mette male, in prigione.

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Questo articolo è uscito sul numero 1415 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati