◆ Poiché, com’è noto, al peggio non c’è mai fine, ecco una piccola storia concentrata sul meglio. L’ho letta anni fa, non mi ricordo dove, e ogni tanto mi torna in mente. Un asceta sufi vive in una povera capanna, intento da tempo a scrivere la sua grande opera. Fuori, al solito, il mondo è a soqquadro: guerre, carestie, pestilenze. Ma il santo tira avanti tra scrittura e lettura senza lasciarsi distrarre, cavando come può, dal fondo del buio più buio, i bagliori di senso che riesce a intravedere. È quasi alla fine del suo lungo impegno, quand’ecco che un guerriero, spada in pugno, sfonda la porta della capanna. La parola “guerriero” merita qualche rigo tra parentesi. È stata così ripulita, nei secoli, che ormai ci sentiamo dentro più l’energia, la forza, il valore delle gesta epiche, che gli orrori della guerra. Ma il guerriero di questa storia è proprio colui che la guerra la fa massacrando uomini preferibilmente inermi, donne, bambini, cioè la sintesi di chiunque annienti il meglio di cui noi umani – gente comune e santi – pure siamo capaci. Sicché l’omaccione irrompe nella capanna, e sebbene l’esile asceta nemmeno sussulti e seguiti a scrivere, con un colpo di spada gli taglia la testa che ruzzola qualche metro più in là. Pausa d’un secondo. Il santo si alza, raccoglie la testa, se la rimette sul collo e torna al suo lavoro. Facciamo lo stesso, cocciutamente.
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Questo articolo è uscito sul numero 1445 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati