Per un anno gli Stati Uniti hanno sostenuto l’insostenibile: la metodica distruzione della Striscia di Gaza, vita dopo vita, casa dopo casa, come logica risposta alla follia degli attentati di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023. Tutto è stato distrutto: scuole, ospedali, campi profughi, moschee, chiese, siti archeologici e cimiteri. E mentre decine di migliaia di bambini erano amputati, resi orfani e ridotti in polvere, mentre i cittadini israeliani ostaggio di Hamas soffrivano sotto le bombe, ci veniva chiesto di capire che non era finita, finché il movimento fondamentalista palestinese esisteva ancora.

Ora è qui, in Libano, che Israele semina morti senza nemmeno contarli, con il pretesto di farla finita con Hezbollah. Nelle ultime settimane c’è stata una serie infinita di uccisioni di leader politici e militari di Hamas e Hezbollah. Ismail Haniyeh, il leader politico di Hamas, è stato fatto saltare in aria a Teheran; Fuad Shukr, alto comandante di Hezbollah, alla periferia sud di Beirut. Tutto è stato fatto con estrema precisione, senza alcun riguardo, ovviamente, per le decine di morti e le centinaia di feriti tra la popolazione civile. Altri funzionari sono stati uccisi o resi invalidi nell’esplosione di migliaia di dispositivi di comunicazione il 17 e 18 settembre.

È così che il Mossad, il servizio d’intelligence di Israele per l’estero, si mostra all’altezza della sua temibile reputazione. Può uccidere quando vuole, dove vuole. Abbiamo il diritto di chiederci perché il regime di Benjamin Netanyahu ha preferito annientare la popolazione di Gaza e proseguire nell’annessione della Cisgiordania, prima di prendere di mira Yahya Sinwar, diventato il leader politico di Hamas. L’obiettivo è chiaro: fare tutto il possibile per continuare la farsa, sviare dalla questione palestinese per liquidarla meglio, trasformarla in un conflitto tra bianchi e fanatici islamici, in modo che l’occidente non abbia altra scelta che accodarsi.

Netanyahu ha preso in ostaggio il tempo. E questo tempo è il nostro destino comune, che lui sta manipolando e manovrando con una malafede diabolica. Sono ore di angoscia per tutti, per i sopravvissuti di Gaza, per gli ostaggi israeliani, per gli abitanti del nord di Israele, del sud del Libano, di Beirut e della valle della Beqaa, per gli ebrei, i cristiani, i musulmani e forse ancora di più per chi affronta la morte solo con il suo umanesimo. Il tempo ha lo stesso nome in arabo e in ebraico: zaman.

Il tempo ha subìto un duro colpo nel 1948, con la creazione dello stato d’Israele in Palestina, a spese del popolo palestinese. Una creazione decisa in un momento storico in cui l’Europa era ancora impregnata del pensiero coloniale secondo cui alcuni popoli sono più civilizzati di altri. È difficile credere che le potenze occidentali stiano rimandando all’infinito il momento di ricredersi e dire basta. Basta, per salvare quello che resta da salvare. Per sospendere le consegne di armi. Per chiedere un immediato cessate il fuoco a Gaza, che metterebbe a tacere anche le armi di Hezbollah. Chi può credere che la sicurezza d’Israele dipenda dalla sua ossessione militare, dalla sua determinazione a demolire e a diffondere l’odio?

Scontro inevitabile

Torniamo al cuore della questione, con uno sguardo al passato. Il problema fondamentale del progetto sionista non era tanto la condivisione dello spazio, quanto la coabitazione dei tempi. Era l’incontro esplosivo di due tempi con memorie, punti di riferimento e progetti profondamente diversi. La popolazione araba cercava l’emancipazione. L’altra, essenzialmente europea, immigrava in Palestina per costruire un paese da zero per un popolo appena uscito dall’inferno dei campi di sterminio di cui l’Europa era responsabile.

Fu il primo stato della regione ad associare l’identità religiosa, seppur all’interno di un progetto laico, all’identità nazionale. Lo scontro era inevitabile. Nel suo libro L’Etat d’Israël contre les juifs, il giornalista francese Sylvain Cypel cita una frase attribuita al generale israeliano Rafael Eitan: “Non credo nella pace con gli arabi. Perché se mi avessero fatto un decimo di quello che noi abbiamo fatto a loro, non accetterei mai di fare la pace”. Queste parole fanno eco a quelle del militare Moshe Dayan che sessantotto anni fa, sulla tomba di un giovane israeliano ucciso da un palestinese, disse: “Non prendiamocela con gli assassini. Come possiamo biasimarli per il loro odio verso di noi? Da otto anni vegetano in un campo profughi a Gaza e noi, sotto i loro occhi, trasformiamo in nostra proprietà le terre e i villaggi dove loro e i loro antenati vivevano”.

Il tempo che ne è seguito è stato speso a rosicchiare, tessere e mantenere l’insolubile invece di riparare e costruire. Ha continuato a riprodurre lo stallo, in peggio. E di far nascere miseri tempi brevi con vantaggi solo immediati e progetti senza una visione del futuro. Oggi questo tempo malato è nelle mani di un’estrema destra messianica che vuole fargli raggiungere in un quarto d’ora quello che 75 anni non sono riusciti a ottenere: la scomparsa del popolo palestinese sognata dai sostenitori del “Grande Israele”. Se quel regime fosse solo nel suo delirio, saremmo in grado di vederne la fine. La tragedia sta nell’incrollabile sostegno che riceve dagli Stati Uniti. L’Europa, con l’eccezione di Irlanda, Spagna, Norvegia e Belgio, ha rinunciato al diritto internazionale, gira in tondo e si ostina a fare quello che sa fare di peggio: astenersi.

Solo un’utopia potrà far uscire tutte le popolazioni da questa spirale

E l’Iran e i fondamentalisti islamici non hanno forse una parte in questa morsa sul tempo? Certo che sì! Ma loro sono in un altro tempo. Non gli interessa l’orologio. Non sostengono la democrazia né un modello politico che rispetti le libertà. Vivono in un tempo che può aspettare. Un tempo che noi ovviamente rifiutiamo, ma di cui dobbiamo tenere conto se vogliamo che la storia un giorno li rimuova. Sfidare questo nemico non significa sradicarlo – ricrescerà – ma lavorare per eliminare le sue ragioni di presentarsi come un movimento di resistenza. Significa costruire la pace. Sappiamo tutti che chiedendo la scomparsa di Israele, gli islamisti alzano la posta in gioco. La lingua biforcuta è l’abc del linguaggio politico in questo conflitto. Gli ultimi avvenimenti hanno dimostrato che né l’Iran né Hezbollah vogliono una guerra regionale. Per mesi hanno chiesto una tregua a Gaza per deporre le armi. Cosa stiamo aspettando?

Spetta agli israeliani svegliarsi prima che sia troppo tardi. Il risultato – la vita o la morte – è nelle mani dei loro leader. Quanti vogliono una patria per i palestinesi? Quanti sono favorevoli all’annessione della Cisgiordania dopo la distruzione di Gaza? Cosa spera la maggioranza di loro, favorevole a continuare la guerra? Uno stato per gli ebrei secondo il piano originale o uno stato ebraico secondo Netanyahu? Il primo richiede un’idea nuova, un cambiamento di rotta e uno spirito di apertura. Il secondo non è moralmente difendibile né politicamente praticabile. In particolare, comporterebbe l’espulsione o la segregazione di quasi il 25 per cento dei cittadini israeliani non ebrei. La domanda è: cosa vogliono gli israeliani per sé nel futuro?

Quanto al mondo arabo, è più patetico che mai. In gran parte in balia del fondamentalismo islamico e di lotte interne, aspetta di essere reinventato dopo un secolo di violente sconfitte. Certo è che il silenzio della maggior parte dei suoi leader di fronte all’ignominia in corso è una vergogna che rischia di degenerare in follia per i popoli che la subiscono. Da entrambe le parti, le vigliaccherie solidali dei potenti creano uragani di rabbia. Tutti i destini sono legati, con una minaccia e una promessa comune: il tempo. Ogni giorno d’indulgenza nella guerra è un giorno di troppo per la sopravvivenza di tutti.

Il giorno in cui la nostra specie rinsavirà, quando saranno state prese misure d’emergenza per tutti, solo un’utopia potrà far uscire tutte le popolazioni dalla spirale in cui si trovano. Questa utopia non è per domani. Implica un cambiamento profondo nel rapporto con il passato, il futuro e gli altri. La politica, per sopravvivere, avrà bisogno di un’altezza da astronomo e un’austerità da monaco. È una trasformazione metafisica, fondata sul poco che siamo, accompagnata da misure pratiche, che aprirà le porte della prigione e consentirà all’intelligenza umana di confrontarsi con quella artificiale, senza esserne giocattolo o schiava.

Le misure includono un nuovo concetto ugualitario di cittadinanza che relegherà le appartenenze religiose alla vita privata. E, dato che siamo nel regno di una realtà completamente rivista, una confederazione di stati con confini definiti e aperti, dove l’individuo non si sentirà costretto a uccidere per concepire la sua sopravvivenza. In attesa di quel giorno lontano, l’unico che valga la pena sognare, dobbiamo continuare a sopportare l’incubo. ◆ adg

Dominique Eddé è una scrittricee traduttrice libanese.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1583 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati