In Turchia negli ultimi dieci anni le festività e le giornate commemorative nazionali si sono trasformate in occasioni per manifestare la propria ideologia. La nostalgia per la “vecchia Turchia” o la voglia di una “nuova Turchia” si esprime con video diffusi da aziende e partiti. Questi video sono diventati l’unico modo per esprimere il malcontento nel paese governato dall’Akp, il partito del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Si è innescata così una competizione creativa per stabilire quale sia il video migliore. Anche il 10 novembre, il giorno della commemorazione di Mustafa Kemal Atatürk, l’autoritario fondatore della Turchia moderna, si è svolta questa gara. Tra i tanti filmati che riproponevano gli stessi messaggi ce n’era uno realizzato dall’ala giovanile del Partito popolare repubblicano (Chp). Lo riassumo: una ragazza in taxi guarda assorta la città dal finestrino. Il conducente anziano le chiede: “Sono gli ultimi giorni di sole ragazza mia, vai in vacanza?”. “No, me ne vado per sempre. Ho perso la speranza, e voi?”, risponde lei. Il conducente sorride: “La nostra speranza siete voi, ragazza mia”. Il taxi si ferma e la sirena comincia a suonare. Sono le 9.05 del mattino e c’è il minuto di silenzio in onore di Atatürk. Restano fermi in una strada vuota. Quando risalgono a bordo del taxi, la donna dice: “Torniamo a casa”. La ragazza è rimasta in Turchia. La speranza non se n’è andata.

Quelli che vanno, quelli che restano, quelli che non possono andarsene o che non possono restare: è una questione di sentimenti, ma anche un tema spinoso. Quel video ha riaperto la mia ferita e quella di chi, come me, non può vivere in Turchia. Nel paese la chiamano la “fuga dei cervelli”. Io direi piuttosto la fuga dei cuori, perché chi emigra ha il cuore spezzato. Non si va via solo per la paura o la mancanza di lavoro. Quello che distrugge le persone è l’assenza di solidarietà. Non si va via a causa dei cattivi, almeno non solo, ma perché i buoni non vanno d’accordo tra loro. Così la Turchia sta perdendo persone di grande valore. A parte le fotografie del passaporto scattate all’aeroporto, condivise sui social network con rabbia o tristezza, si parla poco di queste carovane in partenza. O almeno non c’è una voce proporzionata alle dimensioni dell’esodo. Ma tutti sanno che la popolazione sta emigrando, un pezzo dopo l’altro.

Il problema è la mancanza di solidarietà. Non si va via a causa dei cattivi, almeno non solo, ma perché i buoni non vanno d’accordo tra loro. Così il paese perde persone di valore

Quando si tocca l’argomento chi vive in Turchia ha reazioni differenti. Alcuni dicono: “Hai fatto bene, scappa.” Ma vivere all’estero significa pensare tutti i giorni al tuo paese. Anche noi, come milioni di iraniani, iracheni, siriani, africani costretti a lasciare i luoghi d’origine, viviamo in un “paese sullo schermo”. Guardiamo il computer in una stanza, scorrendo di continuo lo schermo per vedere di cosa si piange, di cosa si ride ogni giorno in Turchia.

Il secondo tipo di reazione invece è: “Certo, comoda la vita.” Come se chi emigra bevesse champagne ogni giorno pensando: “Grazie a dio mi sono salvata”. Invece nessuno ha voglia di fare festa. Manca sempre qualcosa. La scorsa settimana ad Amsterdam parlavo con un’amica che vive lì da vent’anni. “Come funziona?”, le ho chiesto. “Con il tempo cambia? Ci si sente sempre così, come dire, con un’ala spezzata?”. Mi ha risposto “sì”, senza esitazione. Avrei fatto meglio a non chiedere.

Il terzo tipo di reazione, il più doloroso, è: “Hai abbandonato la lotta e te ne sei andata”. Si presenterà sempre questo senso di superiorità morale di chi resta, come se avesse fatto qualcosa solo decidendo di non partire. Un atteggiamento che metterà fine a molte amicizie e lascerà un gusto amaro tra le persone migliori del paese. Anche se tutto finisse, quando sarai tornata ti diranno: “Tu te n’eri andata”.

Torniamo al video. Il compito della politica, soprattutto in periodi in cui le persone affrontano il male più radicale, è trasformare la lingua del bene in un discorso politico. Negli opuscoli inviati alle sezioni locali prima delle elezioni amministrative, il Chp dichiarava di mettere al centro “il bene radicale”. Il compito della politica progressista oggi, non solo in Turchia, è quello di aiutare psicologicamente e politicamente i suoi sostenitori, perché stiamo attraversando momenti difficili. L’essere umano per la prima volta si trova ad affrontare paure enormi e diverse. Quindi imporci a vicenda standard morali troppo alti può infrangere più cuori del necessario. In fondo chi se ne va non lo fa per spegnere la speranza nel paese, e chi resta non è obbligato ad alimentarla.

Un giorno parleremo di questi argomenti faccia a faccia. Lo spero. E magari chi avrà nostalgia potrà semplicemente salire su un aereo e tornare. “A che ora arriva l’aereo a Istanbul?”, chiederà un amico. Dico di prepararci fin da oggi a quei giorni. La speranza in fondo non è una parola per una sola persona. Ne ha bisogno chi se ne va e chi resta. D’altronde il giorno in cui torna, chi se n’è andato non è mai partito. E io, per qualche ragione lo so, tornerò in un giorno di pioggia . ◆ ga

Ece Temelkuran è una giornalista turca che vive in Croazia. In Italia ha pubblicato La fiducia e la dignità. Dieci scelte urgenti per un presente migliore (Bollati Boringhieri 2021).

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Questo articolo è uscito sul numero 1436 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati